Petrarch, Trionfi

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Triumphus Cupidinis

PARTE I
1.1.1 Al tempo che rinnova i miei sospiri 1.1.2 per la dolce memoria di quel giorno 1.1.3 che fu principio a sì lunghi martiri, 1.1.4 già il Sole al Toro l' uno e l' altro corno 1.1.5 scaldava, e la fanciulla di Titone 1.1.6 correa gelata al suo usato soggiorno. 1.1.7 Amor, gli sdegni e 'l pianto e la stagione 1.1.8 ricondotto m' aveano al chiuso loco 1.1.9 ov' ogni fascio il cor lasso ripone. 1.1.10 Ivi fra l' erbe, già del pianger fioco, 1.1.11 vinto dal sonno, vidi una gran luce 1.1.12 e dentro assai dolor con breve gioco. 1.1.13 Vidi un vittorioso e sommo duce 1.1.14 pur com' un di color che 'n Campidoglio 1.1.15 trionfal carro a gran gloria conduce. 1.1.16 I' che gioir di tal vista non soglio 1.1.17 per lo secol noioso in ch' i' mi trovo, 1.1.18 voto d' ogni valor, pien d' ogni orgoglio, 1.1.19 l' abito in vista sì leggiadro e novo 1.1.20 mirai, alzando gli occhi gravi e stanchi, 1.1.21 ch' altro diletto che 'mparar non provo, 1.1.22 quattro destrier vie più che neve bianchi, 1.1.23 sovr' un carro di foco un garzon crudo 1.1.24 con arco in man e con saette a' fianchi; 1.1.25 nulla temea, però non maglia o scudo, 1.1.26 ma sugli omeri avea sol due grand' ali 1.1.27 di color mille, tutto l' altro ignudo; 1.1.28 d' intorno innumerabili mortali, 1.1.29 parte presi in battaglia e parte occisi, 1.1.30 parte feriti di pungenti strali. 1.1.31 Vago d' udir novelle oltra mi misi 1.1.32 tanto ch' io fui in esser di quegli uno 1.1.33 che per sua man di vita eran divisi. 1.1.34 Allor mi strinsi a rimirar s' alcuno 1.1.35 riconoscessi nella folta schiera 1.1.36 del re sempre di lagrime digiuno. 1.1.37 Nessun vi riconobbi, e s' alcun v' era 1.1.38 di mia notizia, avea cangiata vista 1.1.39 per morte o per prigion crudele e fera. 1.1.40 Un' ombra alquanto men che l' altre trista 1.1.41 mi venne incontra e mi chiamò per nome, 1.1.42 dicendo: «Or questo per amar s' acquista!» 1.1.43 Ond' io meravigliando dissi: «Or, come 1.1.44 conosci me, ch' io te non riconosca?» 1.1.45 Ed ei: «Questo m' avven per l' aspre some 1.1.46 de' legami ch' io porto, e l' aer fosca 1.1.47 contende agli occhi tuoi; ma vero amico 1.1.48 ti son e teco nacqui in terra tosca». 1.1.49 Le sue parole e 'l ragionare antico 1.1.50 scoverson quel che 'l viso mi celava; 1.1.51 e così n' assidemmo in loco aprico. 1.1.52 E cominciò: «Gran tempo è ch' io pensava 1.1.53 vederti qui fra noi, ché da' primi anni 1.1.54 tal presagio di te tua vita dava». 1.1.55 «E' fu ben ver, ma gli amorosi affanni 1.1.56 mi spaventar sì ch' io lasciai la 'mpresa; 1.1.57 ma squarciati ne porto il petto e' panni». 1.1.58 Così diss' io; ed ei, quando ebbe intesa 1.1.59 la mia risposta, sorridendo disse: 1.1.60 «O figliuol mio, qual per te fiamma è accesa!» 1.1.61 Io nol intesi allor; ma or sì fisse 1.1.62 sue parole mi trovo entro la testa, 1.1.63 che mai più saldo in marmo non si scrisse; 1.1.64 e per la nova età ch' ardita e presta 1.1.65 fa la mente e la lingua il dimandai: 1.1.66 «Dimmi, per cortesia, che gente è questa?» 1.1.67 «Di qui a poco tempo tel saprai 1.1.68 per te stesso» rispose «e sarai d' elli, 1.1.69 tal per te nodo fassi, e tu nol sai; 1.1.70 e prima cangerai volto e capelli 1.1.71 che 'l nodo di ch' io parlo si discioglia 1.1.72 dal collo e da' tuo' piedi anco ribelli. 1.1.73 Ma per empier la tua giovenil voglia 1.1.74 dirò di noi, e 'n prima del maggiore 1.1.75 che così vita e libertà ne spoglia. 1.1.76 Questi è colui che 'l mondo chiama Amore: 1.1.77 amaro, come vedi, e vedrai meglio 1.1.78 quando fia tuo com' è nostro signore; 1.1.79 giovencel mansueto e fiero veglio: 1.1.80 ben sa chi 'l prova e fi' a te cosa piana 1.1.81 anzi mill' anni; infin ad or ti sveglio. 1.1.82 Ei nacque d' ozio e di lascivia umana, 1.1.83 nudrito di pensier dolci soavi, 1.1.84 fatto signor e dio da gente vana. 1.1.85 Qual è morto da lui, qual con più gravi 1.1.86 leggi mena sua vita aspra ed acerba 1.1.87 sotto mille catene e mille chiavi. 1.1.88 Quel che 'n sì signorile e sì superba 1.1.89 vista vien primo è Cesar, che 'n Egitto 1.1.90 Cleopatra legò tra' fiori e l' erba. 1.1.91 Or di lui si trionfa: ed è ben dritto, 1.1.92 se vinse il mondo, ed altri à vinto lui, 1.1.93 che del suo vincitor sia gloria il vitto. 1.1.94 L' altro è suo figlio, e pur amò costui 1.1.95 più giustamente: egli è Cesare Augusto, 1.1.96 che Livia sua, pregando, tolse altrui. 1.1.97 Neron è il terzo, dispietato e 'ngiusto; 1.1.98 vedilo andar pien d' ira e di disdegno: 1.1.99 femina 'l vinse, e par tanto robusto. 1.1.100 Vedi 'l buon Marco d' ogni laude degno, 1.1.101 pien di filosofia la lingua e 'l petto, 1.1.102 ma pur Faustina 'l fa qui star a segno. 1.1.103 Que' duo pien di paura e di sospetto, 1.1.104 l' un è Dionisio e l' altr' è Alessandro: 1.1.105 ma quel di suo temer ha degno effetto. 1.1.106 L' altro è colui che pianse sotto Antandro 1.1.107 la morte di Creusa, e 'l suo amor tolse 1.1.108 a que' che 'l suo figliuol tolse ad Evandro. 1.1.109 Udito hai ragionar d' un che non volse 1.1.110 consentir al furor della matrigna 1.1.111 e da' suoi preghi per fuggir si sciolse, 1.1.112 ma quella intenzion casta e benigna 1.1.113 l' occise, sì l' amor in odio torse 1.1.114 Fedra, amante terribile e maligna: 1.1.115 ed ella ne morio, vendetta forse 1.1.116 d' Ippolito e di Teseo e d' Adrianna, 1.1.117 ch' a morte, tu 'l sai bene, amando corse; 1.1.118 tal biasma altrui che se stesso condanna, 1.1.119 che, chi prende diletto di far frode, 1.1.120 non si de' lamentar s' altri lo 'nganna. 1.1.121 Vedi 'l famoso, con sua tanta lode, 1.1.122 preso menar tra due sorelle morte: 1.1.123 l' una di lui ed ei de l' altra gode! 1.1.124 Colui ch' è seco è quel possente e forte 1.1.125 Ercole, ch' Amor prese, e l' altro è Achille, 1.1.126 ch' ebbe in suo amar assai dogliose sorte. 1.1.127 Quello è Demofoon e quella è Fille, 1.1.128 quell' è Giasone e quell' altra è Medea 1.1.129 ch' Amor e lui seguì per tante ville; 1.1.130 e quanto al padre ed al fratel più rea 1.1.131 tanto al suo amante è più turbata e fella 1.1.132 che del suo amor più degna esser credea. 1.1.133 Isifile vien poi, e duolsi anch' ella 1.1.134 del barbarico amor, che 'l suo l' à tolto. 1.1.135 Poi ven colei ch' à 'l titol d' esser bella. 1.1.136 Seco è 'l pastor che mal il suo bel volto 1.1.137 mirò sì fiso, ond' uscir gran tempeste, 1.1.138 e funne il mondo sottosopra vòlto. 1.1.139 Odi poi lamentar fra l' altre meste 1.1.140 Enone di Paris, e Menelao 1.1.141 d' Elena, ed Ermion chiamare Oreste, 1.1.142 e Laodamia il suo Protesilao, 1.1.143 ed Argia Polinice, assai più fida 1.1.144 che l' avara moglier d' Anfiarao! 1.1.145 Odi 'l pianto e i sospiri, odi le strida 1.1.146 de le misere accese, che li spirti 1.1.147 rendero a lui che 'n tal modo li guida. 1.1.148 Non poria mai di tutti il nome dirti 1.1.149 che non uomini pur, ma dèi gran parte 1.1.150 empion del bosco e degli ombrosi mirti. 1.1.151 Vedi Venere bella, e con lei Marte, 1.1.152 cinto di ferro i piè, le braccia e 'l collo, 1.1.153 e Plutone e Proserpina in disparte. 1.1.154 Vedi Iunon gelosa, e 'l biondo Apollo 1.1.155 che solea disprezzar l' etate e l' arco 1.1.156 che gli diede in Tessaglia poi tal crollo! 1.1.157 Che debb' io dir? In un passo men varco: 1.1.158 tutti son qui in prigion gli dei di Varro, 1.1.159 e di lacciuoli innumerabil carco 1.1.160 vien catenato Giove innanzi al carro».
PARTE II
1.2.1 Stanco già di mirar, non sazio ancora, 1.2.2 or quinci or quindi mi volgea guardando 1.2.3 cose ch' a ricontarle è breve l' ora. 1.2.4 Giva 'l cor di pensiero in pensier quando 1.2.5 tutto a sé 'l trasser due ch' a mano a mano 1.2.6 passavan dolcemente lagrimando. 1.2.7 Mossemi 'l lor leggiadro abito e strano 1.2.8 e 'l parlar pellegrin, che m' era oscuro, 1.2.9 ma l' interprete mio mel facea piano. 1.2.10 Poi che seppi chi eran, più securo 1.2.11 m' accostai a lor, ché l' un spirito amico 1.2.12 al nostro nome, l' altro era empio e duro. 1.2.13 Fecimi al primo: «O Massinissa antico, 1.2.14 per lo tuo Scipione e per costei» 1.2.15 cominciai «non t' incresca quel ch' i' dico». 1.2.16 Mirommi, e disse: «Volentier saprei 1.2.17 chi tu se' innanzi, da poi che sì bene 1.2.18 hai spiato ambeduo gli affetti miei». 1.2.19 «L' esser mio» gli risposi «non sostene 1.2.20 tanto conoscitor, ché così lunge 1.2.21 di poca fiamma gran luce non vene; 1.2.22 ma tua fama real per tutto aggiunge, 1.2.23 e tal che mai non ti vedrà, né vide, 1.2.24 con bel nodo d' amor teco congiunge. 1.2.25 Or dimmi, se colui in pace vi guide,» 1.2.26 e mostrai 'l duca lor «che coppia è questa 1.2.27 che mi par delle cose rare e fide?» 1.2.28 «La lingua tua, al mio nome sì presta, 1.2.29 prova» diss' ei «che 'l sappi per te stesso, 1.2.30 ma dirò per sfogar l' anima mesta: 1.2.31 avend' io in quel sommo uom tutto 'l cor messo, 1.2.32 tanto ch' a Lelio ne do vanto appena, 1.2.33 ovunque fur sue insegne, e fui lor presso. 1.2.34 A lui Fortuna fu sempre serena, 1.2.35 ma non già quanto degno era 'l valore, 1.2.36 del qual più d' altro mai l' alma ebbe piena. 1.2.37 Poi che l' arme romane a grande onore 1.2.38 per l' estremo occidente furo sparse, 1.2.39 ivi n' aggiunse e ne congiunse Amore; 1.2.40 né mai più dolce fiamma in duo cori arse, 1.2.41 né farà, credo. Omè! ma poche notti 1.2.42 fur a tanti desir sì brevi e scarse, 1.2.43 indarno a marital giogo condotti, 1.2.44 ché del nostro furor scuse non false, 1.2.45 e i legittimi nodi furon rotti. 1.2.46 Quel che sol più che tutto 'l mondo valse 1.2.47 ne dipartì con sue sante parole, 1.2.48 che di nostri sospir nulla gli calse; 1.2.49 e ben che fosse onde mi dolse e dole, 1.2.50 pur vidi in lui chiara virtute accesa, 1.2.51 che 'n tutto è orbo chi non vede il sole. 1.2.52 Gran giustizia agli amanti è grave offesa; 1.2.53 però di tanto amico un tal consiglio 1.2.54 fu quasi un scoglio a l' amorosa impresa. 1.2.55 Padre m' era in onore, in amor figlio, 1.2.56 fratel negli anni, onde obedir convenne, 1.2.57 ma col cor tristo e con turbato ciglio. 1.2.58 Così questa mia cara a morte venne, 1.2.59 che, vedendosi giunta in forza altrui, 1.2.60 morir in prima che servir sostenne; 1.2.61 ed io del dolor mio ministro fui, 1.2.62 che 'l pregator e i preghi eran sì ardenti 1.2.63 ch' offesi me per non offender lui, 1.2.64 e manda'le 'l velen con sì dolenti 1.2.65 pensier com' io so bene, ed ella il crede 1.2.66 e tu, se tanto o quanto d' amor senti. 1.2.67 Pianto fu il mio di tanta sposa erede. 1.2.68 Lei, ed ogni mio bene, ogni speranza 1.2.69 perder elessi per non perder fede. 1.2.70 Ma cerca omai se trovi in questa danza 1.2.71 notabil cosa, perché 'l tempo è leve 1.2.72 e più de l' opra che del giorno avanza». 1.2.73 Pien di pietate e ripensando il breve 1.2.74 spazio al gran foco di duo tali amanti, 1.2.75 pareami al sol aver un cor di neve, 1.2.76 quand' io udii dir su nel passar avanti: 1.2.77 «Costui certo per sé già non mi spiace, 1.2.78 ma ferma son d' odiarli tutti quanti». 1.2.79 «Pon» diss' io «il core, o Sofonisba, in pace, 1.2.80 che Cartagine tua per le man nostre 1.2.81 tre volte cadde ed a la terza giace». 1.2.82 Ed ella: «Altro vogl' io che tu mi mostre; 1.2.83 s' Africa pianse, Italia non ne rise: 1.2.84 dimandatene pur l' istorie vostre». 1.2.85 A tanto il nostro e suo amico si mise 1.2.86 sorridendo con lei nella gran calca, 1.2.87 e fur da lor le mie luci divise. 1.2.88 Come uom che per terren dubio cavalca, 1.2.89 che va restando ad ogni passo e guarda, 1.2.90 e 'l pensier de l' andar molto diffalca, 1.2.91 così l' andata mia dubiosa e tarda 1.2.92 facean gli amanti, di che ancor m' aggrada 1.2.93 saver quanto ciascun, in qual foco arda. 1.2.94 I' vidi ir a man manca un fuor di strada 1.2.95 a guisa di chi brami e trovi cosa 1.2.96 onde poi vergognoso e lieto vada: 1.2.97 donar altrui la sua diletta sposa... 1.2.98 o sommo amore e nova cortesia! 1.2.99 tal ch' ella stessa lieta e vergognosa 1.2.100 parea del cambio! E givansi per via 1.2.101 parlando insieme de' lor dolci affetti 1.2.102 e sospirando il regno di Soria. 1.2.103 Trassimi a que' tre spirti che ristretti 1.2.104 eran già per seguir altro cammino, 1.2.105 e dissi al primo: «I' prego che t' aspetti». 1.2.106 Ed egli al suon del ragionar latino, 1.2.107 turbato in vista, si rattenne un poco; 1.2.108 e poi, del mio voler quasi indivino, 1.2.109 disse: «Io Seleuco son, questi è Antioco 1.2.110 mio figlio, che gran guerra ebbe con voi; 1.2.111 ma ragion contra forza non à loco. 1.2.112 Questa mia in prima, sua donna fu poi, 1.2.113 che per scamparlo d' amorosa morte 1.2.114 gliel diedi, e 'l don fu licito tra noi. 1.2.115 Stratonica è 'l suo nome, e nostra sorte, 1.2.116 come vedi, indivisa, e per tal segno 1.2.117 si vede il nostro amor tenace e forte: 1.2.118 ch' è contenta costei lasciarme il regno, 1.2.119 io il mio diletto, e questi la sua vita, 1.2.120 per far, vie più che sé, l' un l' altro degno; 1.2.121 e se non fosse la discreta aita 1.2.122 del fisico gentil che ben s' accorse, 1.2.123 l' età sua in sul fiorir era finita. 1.2.124 Tacendo amando quasi a morte corse; 1.2.125 e l' amar forza, e 'l tacer fu virtute, 1.2.126 la mia vera pietà ch' a lui soccorse». 1.2.127 Così disse, e come uom che voler mute 1.2.128 col fin delle parole i passi volse, 1.2.129 ch' a pena gli potei render salute. 1.2.130 Poi che da gli occhi miei l' ombra si tolse 1.2.131 rimasi grave e sospirando andai, 1.2.132 ché 'l mio cor dal suo dir non si disciolse, 1.2.133 infin che mi fu detto: «Troppo stai 1.2.134 in un penser a le cose diverse; 1.2.135 e 'l tempo ch' è brevissimo ben sai». 1.2.136 Non menò tanti armati in Grecia Serse 1.2.137 quant' ivi erano amanti ignudi e presi, 1.2.138 tal che l' occhio la vista non sofferse, 1.2.139 vari di lingue, e vari di paesi, 1.2.140 tanto che di mille un non seppi 'l nome, 1.2.141 e fanno istoria que' pochi ch' intesi. 1.2.142 Perseo era l' uno, e volli saper come 1.2.143 Andromeda gli piacque in Etiopia, 1.2.144 vergine bruna i begli occhi e le chiome; 1.2.145 ivi 'l vano amador che la sua propia 1.2.146 bellezza desiando fu distrutto, 1.2.147 povero sol per troppo averne copia, 1.2.148 che divenne un bel fior senz' alcun frutto; 1.2.149 e quella che, lui amando, ignuda voce 1.2.150 fecesi e 'l corpo un duro sasso asciutto. 1.2.151 Ivi quell' altro al suo mal sì veloce, 1.2.152 Ifi, ch' amando altrui in odio s' ebbe, 1.2.153 con più altri dannati a simil croce: 1.2.154 gente cui per amar viver increbbe, 1.2.155 ove raffigurai alcun moderni 1.2.156 ch' a nominar perduta opra sarebbe: 1.2.157 que' duo che fece Amor compagni eterni, 1.2.158 Alcione e Ceice in riva al mare 1.2.159 far i lor nidi a' più soavi verni; 1.2.160 lungo costor pensoso Esaco stare 1.2.161 cercando Esperia, or sopra un sasso assiso, 1.2.162 ed or sotto acqua ed or alto volare. 1.2.163 E vidi la crudel figlia di Niso 1.2.164 fuggir volando, e correr Atalanta, 1.2.165 da tre palle d' or vinta e d' un bel viso; 1.2.166 e seco Ippomenes che fra cotanta 1.2.167 turba d' amanti miseri cursori 1.2.168 sol di vittoria si rallegra e vanta. 1.2.169 Fra questi favolosi e vani amori 1.2.170 vidi Aci e Galatea, che 'n grembo gli era, 1.2.171 e Polifemo farne gran romori; 1.2.172 Glauco ondeggiar per entro quella schiera 1.2.173 senza colei cui sola par che pregi, 1.2.174 nomando un' altr' amante acerba e fera; 1.2.175 Canente e Pico, un già de' nostri regi, 1.2.176 or vago augello, e chi di stato il mosse 1.2.177 lasciògli 'l nome e 'l real manto e i fregi. 1.2.178 Vidi 'l pianto d' Egeria; invece d' osse 1.2.179 Scilla indurarsi in petra aspra ed alpestra, 1.2.180 che del mar ciciliano infamia fosse; 1.2.181 e quella che la penna da man destra, 1.2.182 come dogliosa e desperata scriva, 1.2.183 e 'l ferro ignudo tien da la sinestra; 1.2.184 Pigmalion con la sua donna viva; 1.2.185 e mille che Castalia ed Aganippe 1.2.186 udir cantar per la sua verde riva; 1.2.187 e d' un pomo beffata al fin Cidippe.
PARTE III
1.3.1 Era sì pieno il cor di meraviglie 1.3.2 ch' i' stava come l' uom che non po dire, 1.3.3 e tace, e guarda pur ch' altri 'l consiglie, 1.3.4 quando l' amico mio: «Che fai? che mire? 1.3.5 che pensi?» disse «non sai tu ben ch' io 1.3.6 son della turba? e' mi convien seguire». 1.3.7 «Frate,» risposi «e tu sai l' esser mio 1.3.8 e l' amor del saper che m' à sì acceso 1.3.9 che l' opra è ritardata dal desio». 1.3.10 Ed egli: «I' t' avea già, tacendo, inteso: 1.3.11 tu vuoi udir chi son quest' altri ancora. 1.3.12 I' tel dirò, se 'l dir non è conteso. 1.3.13 Vedi quel grande il quale ogni uomo onora: 1.3.14 egli è Pompeo, ed ha Cornelia seco, 1.3.15 che del vil Tolomeo si lagna e plora. 1.3.16 L' altro più di lontan, quell' è 'l gran Greco, 1.3.17 né vede Egisto e l' empia Clitemestra: 1.3.18 or puoi veder Amor s' egli è ben cieco! 1.3.19 Altra fede, altro amor: vedi Ipermestra, 1.3.20 vedi Piramo e Tisbe inseme a l' ombra, 1.3.21 Leandro in mare ed Ero alla fenestra. 1.3.22 Quel sì pensoso è Ulisse, affabile ombra, 1.3.23 che la casta mogliera aspetta e prega, 1.3.24 ma Circe, amando, gliel ritiene e 'ngombra. 1.3.25 L' altro è 'l figliuol d' Amilcare, e nol piega 1.3.26 in cotant' anni Italia tutta e Roma: 1.3.27 vil feminella in Puglia il prende e lega. 1.3.28 Quella che 'l suo signor con breve coma 1.3.29 va seguitando, in Ponto fu reina: 1.3.30 come in atto servil se stessa doma! 1.3.31 L' altra è Porzia, che 'l ferro e 'l foco affina, 1.3.32 quell' altra è Giulia, e duolsi del marito 1.3.33 ch' a la seconda fiamma più s' inchina. 1.3.34 Volgi in qua gli occhi al gran padre schernito 1.3.35 che non si muta, e d' aver non gli 'ncresce 1.3.36 sette e sett' anni per Rachel servito: 1.3.37 vivace amor che negli affanni cresce! 1.3.38 Vedi 'l padre di questo, e vedi l' avo, 1.3.39 come di sua magion sol con Sara esce. 1.3.40 Poi vedi come Amor crudele e pravo 1.3.41 vince Davit e sforzalo a far l' opra 1.3.42 onde poi pianga in loco oscuro e cavo. 1.3.43 Simile nebbia par ch' oscuri e copra 1.3.44 del più saggio figliuol la chiara fama 1.3.45 e 'l parta in tutto dal Signor di sopra. 1.3.46 Dell' altro, che 'n un punto ama e disama, 1.3.47 vedi Tamar ch' al suo frate Absalone 1.3.48 disdegnosa e dolente si richiama. 1.3.49 Poco dinanzi a lei vedi Sansone, 1.3.50 vie più forte che saggio, che per ciance 1.3.51 in grembo a la nemica il capo pone. 1.3.52 Vedi qui ben fra quante spade e lance 1.3.53 Amor, e 'l sonno, ed una vedovetta 1.3.54 con bel parlar, con sue polite guance 1.3.55 vince Oloferne, e lei tornar soletta, 1.3.56 con una ancilla e con l' orribil teschio, 1.3.57 Dio ringraziando, a mezza notte, in fretta. 1.3.58 Vedi Sichem e 'l suo sangue, ch' è meschio 1.3.59 de la circoncisione e de la morte, 1.3.60 e 'l padre colto e 'l popolo ad un veschio. 1.3.61 Questo gli à fatto il subito amar forte! 1.3.62 Vedi Assuero il suo amor in qual modo 1.3.63 va medicando, a ciò che 'n pace il porte: 1.3.64 da l' un si scioglie, e lega a l' altro nodo; 1.3.65 cotal ha questa malizia rimedio 1.3.66 come d' asse si trae chiodo con chiodo. 1.3.67 Vuoi veder in un cor diletto e tedio, 1.3.68 dolce ed amaro? or mira il fero Erode: 1.3.69 amore e crudeltà gli àn posto assedio. 1.3.70 Vedi com' arde in prima, e poi si rode, 1.3.71 tardi pentito di sua feritate, 1.3.72 Marianne chiamando che non l' ode. 1.3.73 Vedi tre belle donne innamorate: 1.3.74 Procri, Artemisia con Deidamia, 1.3.75 ed altrettante ardite e scelerate, 1.3.76 Semiramìs, Biblì e Mirra ria, 1.3.77 come ciascuna par che si vergogni 1.3.78 de la sua non concessa e torta via! 1.3.79 Ecco quei che le carte empion di sogni, 1.3.80 Lancilotto, Tristano e gli altri erranti, 1.3.81 ove conven che 'l vulgo errante agogni. 1.3.82 Vedi Ginevra, Isolda e l' altre amanti, 1.3.83 e la coppia d' Arimino che 'nseme 1.3.84 vanno facendo dolorosi pianti». 1.3.85 Così parlava, ed io, come chi teme 1.3.86 futuro male e trema anzi la tromba, 1.3.87 sentendo già dov' altri anco nol preme, 1.3.88 avea color d' uom tratto d' una tomba, 1.3.89 quand' una giovinetta ebbi dal lato, 1.3.90 pura assai più che candida colomba. 1.3.91 Ella mi prese, ed io, ch' avrei giurato 1.3.92 difendermi d' un uom coverto d' arme, 1.3.93 con parole e con cenni fui legato; 1.3.94 e come ricordar di vero parme, 1.3.95 l' amico mio più presso mi si fece, 1.3.96 e, con un riso, per più doglia darme, 1.3.97 dissemi entro l' orecchia: «Omai ti lece 1.3.98 per te stesso parlar con chi ti piace, 1.3.99 che tutti siam macchiati d' una pece». 1.3.100 Io era un di color cui più dispiace 1.3.101 de l' altrui ben che del suo mal, vedendo 1.3.102 chi m' avea preso, in libertate e 'n pace; 1.3.103 e, come tardi dopo 'l danno intendo, 1.3.104 di sue bellezze mia morte facea, 1.3.105 d' amor, di gelosia, d' invidia ardendo. 1.3.106 Gli occhi dal suo bel viso non torcea, 1.3.107 come uom ch' è infermo e di tal cosa ingordo 1.3.108 ch' è dolce al gusto, a la salute è rea. 1.3.109 Ad ogni altro piacer cieco era e sordo, 1.3.110 seguendo lei per sì dubbiosi passi 1.3.111 ch' i' tremo ancor, qualor me ne ricordo. 1.3.112 Da quel tempo ebbi gli occhi umidi e bassi 1.3.113 e 'l cor pensoso, e solitario albergo 1.3.114 fonti, fiumi, montagne, boschi e sassi; 1.3.115 da indi in qua cotante carte aspergo 1.3.116 di penseri, e di lagrime, e di 'nchiostro, 1.3.117 tante ne squarcio e n' apparecchio e vergo; 1.3.118 da indi in qua so che si fa nel chiostro 1.3.119 d' Amor, e che si teme, e che si spera, 1.3.120 e, chi sa legger, ne la fronte il mostro, 1.3.121 e veggio andar quella leggiadra fera 1.3.122 non curando di me né di mie pene, 1.3.123 di sue vertuti e di mie spoglie altera. 1.3.124 Da l' altra parte, s' io discerno bene, 1.3.125 questo signor, che tutto 'l mondo sforza, 1.3.126 teme di lei, ond' io son fuor di spene, 1.3.127 ch' a mia difesa non ò ardir né forza, 1.3.128 e quello in ch' io sperava lei lusinga, 1.3.129 che me e gli altri crudelmente scorza. 1.3.130 Costei non è chi tanto o quanto stringa, 1.3.131 così selvaggia e rebellante suole 1.3.132 da le 'nsegne d' Amor andar solinga: 1.3.133 e veramente è fra le stelle un sole, 1.3.134 un singular suo proprio portamento, 1.3.135 suo riso, suoi disdegni e sue parole; 1.3.136 le chiome accolte in oro o sparse al vento, 1.3.137 gli occhi, ch' accesi d' un celeste lume 1.3.138 m' infiamman sì ch' i' son d' arder contento. 1.3.139 Chi poria 'l mansueto alto costume 1.3.140 agguagliar mai parlando, e la vertute, 1.3.141 ov' è 'l mio stil quasi al mar picciol fiume? 1.3.142 Nove cose, e già mai più non vedute, 1.3.143 né da veder già mai più d' una volta, 1.3.144 ove tutte le lingue sarien mute! 1.3.145 Così preso mi trovo, ed ella è sciolta; 1.3.146 io prego giorno e notte, o stella iniqua! 1.3.147 ed ella appena di mille uno ascolta. 1.3.148 Dura legge d' Amor! ma benché obliqua, 1.3.149 servar conviensi, però ch' ella aggiunge 1.3.150 di cielo in terra, universale, antiqua. 1.3.151 Or so come da sé 'l cor si disgiunge 1.3.152 e come sa far pace, guerra e tregua, 1.3.153 e coprir suo dolor, quand' altri il punge; 1.3.154 e so come in un punto si dilegua 1.3.155 e poi si sparge per le guance il sangue, 1.3.156 se paura o vergogna avven che 'l segua; 1.3.157 so come sta tra' fiori ascoso l' angue, 1.3.158 come sempre tra due si vegghia e dorme, 1.3.159 come senza languir si more e langue; 1.3.160 so de la mia nemica cercar l' orme 1.3.161 e temer di trovarla, e so in qual guisa 1.3.162 l' amante ne l' amato si trasforme; 1.3.163 so fra lunghi sospiri e brevi risa 1.3.164 stato, voglia, color cangiare spesso, 1.3.165 viver stando dal cor l' alma divisa; 1.3.166 so mille volte il dì ingannar me stesso, 1.3.167 so, seguendo 'l mio foco ovunque e' fugge, 1.3.168 arder da lunge ed agghiacciar da presso. 1.3.169 So com' Amor sovra la mente rugge 1.3.170 e com' ogni ragione indi discaccia; 1.3.171 e so in quante maniere il cor si strugge. 1.3.172 So di che poco canape s' allaccia 1.3.173 un' anima gentil quand' ella è sola 1.3.174 e non v' è chi per lei difesa faccia; 1.3.175 so com' Amor saetta e come vola 1.3.176 e so com' or minaccia ed or percote, 1.3.177 come ruba per forza e come invola, 1.3.178 e come sono instabili sue rote, 1.3.179 le mani armate, e gli occhi avvolti in fasce, 1.3.180 sue promesse di fé come son vote, 1.3.181 come nell' ossa il suo foco si pasce, 1.3.182 e ne le vene vive occulta piaga, 1.3.183 onde morte e palese incendio nasce. 1.3.184 In somma so che cosa è l' alma vaga, 1.3.185 rotto parlar con subito silenzio, 1.3.186 ché poco dolce molto amaro appaga, 1.3.187 di che s' ha il mel temprato con l' assenzio.
PARTE IV
1.4.1 Poscia che mia fortuna in forza altrui 1.4.2 m' ebbe sospinto, e tutti incisi i nervi 1.4.3 di libertate ov' alcun tempo fui, 1.4.4 io, ch' era più salvatico che i cervi, 1.4.5 ratto domesticato fui con tutti 1.4.6 i miei infelici e miseri conservi; 1.4.7 e le fatiche lor vidi, e i lor frutti, 1.4.8 per che torti sentieri e con qual arte 1.4.9 all' amorosa greggia eran condutti. 1.4.10 Mentre io volgeva gli occhi in ogni parte 1.4.11 s' i' ne vedessi alcun di chiara fama 1.4.12 o per antiche o per moderne carte, 1.4.13 vidi colui che sola Euridice ama, 1.4.14 e lei segue all' inferno, e, per lei morto, 1.4.15 con la lingua già fredda anco la chiama. 1.4.16 Alceo conobbi, a dir d' Amor sì scorto, 1.4.17 Pindaro, Anacreonte, che rimesse 1.4.18 à le sue muse sol d' Amore in porto. 1.4.19 Virgilio vidi, e parmi ch' egli avesse 1.4.20 compagni d' alto ingegno e da trastullo, 1.4.21 di quei che volentier già il mondo lesse: 1.4.22 l' uno era Ovidio, e l' altro era Catullo, 1.4.23 l' altro Properzio, che d' amor cantaro 1.4.24 fervidamente, e l' altro era Tibullo. 1.4.25 Una giovene Greca a paro a paro 1.4.26 coi nobili poeti iva cantando, 1.4.27 ed avea un suo stil soave e raro. 1.4.28 Così, or quinci or quindi rimirando, 1.4.29 vidi gente ir per una verde piaggia 1.4.30 pur d' amor volgarmente ragionando: 1.4.31 ecco Dant' e Beatrice, ecco Selvaggia, 1.4.32 ecco Cin da Pistoia, Guitton d' Arezzo, 1.4.33 che di non esser primo par ch' ira aggia; 1.4.34 ecco i duo Guidi che già fur in prezzo, 1.4.35 Onesto bolognese, e i Ciciliani, 1.4.36 che fur già primi e quivi eran da sezzo; 1.4.37 Sennuccio e Franceschin, che fur sì umani 1.4.38 come ogni uom vide; e poi v' era un drappello 1.4.39 di portamenti e di volgari strani: 1.4.40 fra tutti il primo Arnaldo Daniello, 1.4.41 gran maestro d' amor, ch' a la sua terra 1.4.42 ancor fa onor col suo dir strano e bello. 1.4.43 Eranvi quei ch' Amor sì leve afferra: 1.4.44 l' un Piero e l' altro, e 'l men famoso Arnaldo, 1.4.45 e quei che fur conquisi con più guerra: 1.4.46 i' dico l' uno e l' altro Raimbaldo 1.4.47 che cantò pur Beatrice e Monferrato, 1.4.48 e 'l vecchio Pier d' Alvernia con Giraldo, 1.4.49 Folco, que' ch' a Marsilia il nome à dato 1.4.50 ed a Genova tolto, ed a l' estremo 1.4.51 cangiò per miglior patria abito e stato; 1.4.52 Giaufrè Rudel, ch' usò la vela e 'l remo 1.4.53 a cercar la sua morte, e quel Guiglielmo 1.4.54 che per cantare à 'l fior de' suoi dì scemo; 1.4.55 Amerigo, Bernardo, Ugo e Gauselmo, 1.4.56 e molti altri ne vidi a cui la lingua 1.4.57 lancia e spada fu sempre e targia ed elmo. 1.4.58 E poi conven che 'l mio dolor distingua, 1.4.59 volsimi a' nostri, e vidi 'l buon Tomasso, 1.4.60 ch' ornò Bologna ed or Messina impingua; 1.4.61 o fugace dolcezza! o viver lasso! 1.4.62 Chi mi ti tolse sì tosto dinanzi, 1.4.63 senza 'l qual non sapea mover un passo? 1.4.64 dove se' or, che meco eri pur dianzi? 1.4.65 Ben è 'l viver mortal, che sì n' aggrada, 1.4.66 sogno d' infermi e fola di romanzi! 1.4.67 Poco era fuor de la comune strada, 1.4.68 quando Socrate e Lelio vidi in prima; 1.4.69 con lor più lunga via conven ch' io vada. 1.4.70 O qual coppia d' amici! che né 'n rima 1.4.71 poria, né 'n prosa ornar assai né 'n versi, 1.4.72 se, come dee, virtù nuda si stima. 1.4.73 Con questi duo cercai monti diversi, 1.4.74 andando tutti tre sempre ad un giogo; 1.4.75 a questi le mie piaghe tutte apersi; 1.4.76 da costor non mi può tempo né luogo 1.4.77 divider mai, siccome io spero e bramo, 1.4.78 infino al cener del funereo rogo. 1.4.79 Con costor colsi 'l glorioso ramo 1.4.80 onde forse anzi tempo ornai le tempie 1.4.81 in memoria di quella ch' io tanto amo. 1.4.82 Ma pur di lei che 'l cor di pensier m' empie 1.4.83 non potei coglier mai ramo né foglia, 1.4.84 sì fur le sue radici acerbe ed empie; 1.4.85 onde, benché talor doler mi soglia 1.4.86 com' uom ch' è offeso, quel che con questi occhi 1.4.87 vidi m' è fren che mai più non mi doglia: 1.4.88 materia di coturni, e non di socchi, 1.4.89 veder preso colui ch' è fatto deo 1.4.90 da tardi ingegni, rintuzzati e sciocchi! 1.4.91 Ma prima vo' seguir che di noi feo, 1.4.92 e poi dirò quel che d' altrui sostenne: 1.4.93 opra non mia, d' Omero ovver d' Orfeo. 1.4.94 Seguimmo il suon delle purpuree penne 1.4.95 de' volanti corsier per mille fosse 1.4.96 fin che nel regno di sua madre venne; 1.4.97 né rallentate le catene o scosse, 1.4.98 ma straccati per selve e per montagne, 1.4.99 tal che nessun sapea 'n qual mondo fosse. 1.4.100 Giace oltra ove l' Egeo sospira e piagne 1.4.101 un' isoletta delicata e molle 1.4.102 più d' altra che 'l sol scalde o che 'l mar bagne; 1.4.103 nel mezzo è un ombroso e chiuso colle 1.4.104 con sì soavi odor, con sì dolci acque, 1.4.105 ch' ogni maschio pensier de l' alma tolle. 1.4.106 Quest' è la terra che cotanto piacque 1.4.107 a Venere e 'n quel tempo a lei fu sagra 1.4.108 che 'l ver nascoso e sconosciuto giacque; 1.4.109 ed anco è di valor sì nuda e magra, 1.4.110 tanto ritien del suo primo esser vile, 1.4.111 che par dolce a' cattivi ed a' buoni agra. 1.4.112 Or quivi trionfò il signor gentile 1.4.113 di noi e degli altri tutti ch' ad un laccio 1.4.114 presi avea dal mar d' India quel di Tile: 1.4.115 pensieri in grembo e vanitadi in braccio, 1.4.116 diletti fuggitivi e ferma noia, 1.4.117 rose di verno, a mezza state il ghiaccio, 1.4.118 dubbia speme davanti e breve gioia, 1.4.119 penitenzia e dolor dopo le spalle; 1.4.120 sallo il regno di Roma e quel di Troia. 1.4.121 E rimbombava tutta quella valle 1.4.122 d' acque e d' augelli, ed eran le sue rive 1.4.123 bianche, verdi, vermiglie, perse e gialle: 1.4.124 rivi correnti di fontane vive 1.4.125 al caldo tempo su per l' erba fresca, 1.4.126 e l' ombra spessa, e l' aure dolci estive; 1.4.127 poi, quand' è 'l verno e l' aer si rinfresca, 1.4.128 tepidi soli e giuochi e cibi ed ozio 1.4.129 lento, che i semplicetti cori invesca. 1.4.130 Era ne la stagion che l' equinozio 1.4.131 fa vincitor il giorno, e Progne riede 1.4.132 con la sorella al suo dolce negozio; 1.4.133 o di nostre fortune instabil fede! 1.4.134 In quel loco e 'n quel tempo ed in quell' ora 1.4.135 che più largo tributo agli occhi chiede, 1.4.136 trionfar volse que' che 'l vulgo adora. 1.4.137 E vidi a qual servaggio ed a qual morte, 1.4.138 a quale strazio va chi s' innamora. 1.4.139 Errori e sogni ed imagini smorte 1.4.140 eran d' intorno a l' arco trionfale 1.4.141 e false opinioni in su le porte, 1.4.142 e lubrico sperar su per le scale 1.4.143 e dannoso guadagno ed util danno 1.4.144 e gradi ove più scende chi più sale, 1.4.145 stanco riposo e riposato affanno, 1.4.146 chiaro disnore e gloria oscura e nigra, 1.4.147 perfida lealtate e fido inganno, 1.4.148 sollicito furor e ragion pigra, 1.4.149 carcer ove si ven per strade aperte 1.4.150 onde per strette a gran pena si migra, 1.4.151 ratte scese a l' entrare, a l' uscir erte; 1.4.152 dentro confusion turbida e mischia 1.4.153 di certe doglie e d' allegrezze incerte. 1.4.154 Non bollì mai Vulcan, Lipari od Ischia, 1.4.155 Strongoli o Mongibello in tanta rabbia; 1.4.156 poco ama sé chi 'n tal gioco s' arrischia. 1.4.157 In così tenebrosa e stretta gabbia 1.4.158 rinchiusi fummo, ove le penne usate 1.4.159 mutai per tempo e la mia prima labbia; 1.4.160 e 'ntanto, pur sognando libertate, 1.4.161 l' alma, che 'l gran desio fea pronta e leve, 1.4.162 consolai col veder le cose andate. 1.4.163 Rimirando er' io fatto al sol di neve 1.4.164 tanti spirti e sì chiari in carcer tetro, 1.4.165 quasi lunga pittura in tempo breve, 1.4.166 che 'l piè va innanzi e l' occhio torna a dietro.

Triumphus Pudicitie

2.1.1 Quando ad un giogo ed in un tempo quivi 2.1.2 domita l' alterezza degli dei 2.1.3 e degli uomini vidi al mondo divi, 2.1.4 i' presi esempio de' lor stati rei 2.1.5 facendo mio profitto l' altrui male 2.1.6 in consolar i casi e i dolor mei; 2.1.7 ché s' io veggio d' un arco e d' uno strale 2.1.8 Febo percosso e 'l giovene d' Abido, 2.1.9 l' un detto deo, l' altr' uom puro mortale, 2.1.10 e veggio ad un lacciuol Giunone e Dido, 2.1.11 ch' amor pio del suo sposo a morte spinse, 2.1.12 non quel d' Enea, com' è 'l publico grido, 2.1.13 non mi debb' io doler s' altri mi vinse 2.1.14 giovene, incauto, disarmato e solo. 2.1.15 E se la mia nemica Amor non strinse, 2.1.16 non è ancor giusta assai cagion di duolo 2.1.17 che in abito il rividi ch' io ne piansi, 2.1.18 sì tolte gli eran l' ali e 'l gire a volo. 2.1.19 Non con altro romor di petto dansi 2.1.20 duo leon feri, o duo folgori ardenti 2.1.21 che cielo e terra e mar dar loco fansi, 2.1.22 ch' i' vidi Amor con tutti suo' argomenti 2.1.23 mover contra colei di ch' io ragiono, 2.1.24 e lei presta assai più che fiamme o venti. 2.1.25 Non fan sì grande e sì terribil sòno 2.1.26 Etna qualor da Encelado è più scossa, 2.1.27 Scilla e Caribdi quando irate sono, 2.1.28 che via maggiore in su la prima mossa 2.1.29 non fosse del dubbioso e grave assalto, 2.1.30 ch' i' non cre' che ridir sappia né possa. 2.1.31 Ciascun per sé si ritraeva in alto 2.1.32 per veder meglio, e l' orror de l' impresa 2.1.33 i cori e gli occhi avea fatti di smalto. 2.1.34 Quel vincitor che primo era a l' offesa, 2.1.35 da man dritta lo stral, da l' altra l' arco 2.1.36 e la corda all' orecchia avea già stesa. 2.1.37 Non corse mai sì levemente al varco 2.1.38 d' una fugace cerva un leopardo 2.1.39 libero in selva o di catene scarco, 2.1.40 che non fosse stato ivi lento e tardo, 2.1.41 tanto Amor pronto venne a lei ferire 2.1.42 ch' al volto à le faville ond' io tutt' ardo. 2.1.43 Combattea in me co la pietà il desire, 2.1.44 che dolce m' era sì fatta compagna, 2.1.45 duro a vederla in tal modo perire. 2.1.46 Ma vertù che da' buon non si scompagna 2.1.47 mostrò a quel punto ben come a gran torto 2.1.48 chi abbandona lei d' altrui si lagna; 2.1.49 che giammai schermidor non fu sì accorto 2.1.50 a schifar colpo, né nocchier sì presto 2.1.51 a volger nave dagli scogli in porto, 2.1.52 come uno schermo intrepido ed onesto 2.1.53 subito ricoverse quel bel viso 2.1.54 dal colpo, a chi l' attende, agro e funesto. 2.1.55 Io era al fin cogli occhi e col cor fiso, 2.1.56 sperando la vittoria ond' esser sòle, 2.1.57 e di non esser più da lei diviso. 2.1.58 Come chi smisuratamente vole, 2.1.59 ch' à scritte innanzi ch' a parlar cominci 2.1.60 negli occhi e nella fronte le parole, 2.1.61 volea dir io: «Signor mio, se tu vinci, 2.1.62 legami con costei, s' io ne son degno, 2.1.63 né temer che giammai mi scioglia quinci!» 2.1.64 Quand' io 'l vidi pien d' ira e di disdegno 2.1.65 sì grave ch' a ridirlo sarien vinti 2.1.66 tutti i maggior, non che 'l mio basso ingegno; 2.1.67 che già in fredda onestate erano estinti 2.1.68 i dorati suoi strali, accesi in fiamma 2.1.69 d' amorosa beltate e 'n piacer tinti. 2.1.70 Non ebbe mai di vero valor dramma 2.1.71 Camilla e l' altre andar use in battaglia 2.1.72 con la sinistra sola intera mamma, 2.1.73 non fu sì ardente Cesare in Farsaglia 2.1.74 contra 'l genero suo com' ella fue 2.1.75 contra colui ch' ogni lorica smaglia. 2.1.76 Armate eran con lei tutte le sue 2.1.77 chiare Virtuti, o gloriosa schiera! 2.1.78 e teneansi per mano a due a due: 2.1.79 Onestate e Vergogna a la front' era, 2.1.80 nobile par de le vertù divine 2.1.81 che fan costei sopra le donne altera; 2.1.82 Senno e Modestia a l' altre due confine, 2.1.83 Abito con Diletto in mezzo 'l core, 2.1.84 Perseveranza e Gloria in su la fine; 2.1.85 Bella Accoglienza, Accorgimento fore, 2.1.86 Cortesia intorno intorno e Puritate, 2.1.87 Timor d' infamia e Desio sol d' onore; 2.1.88 penser canuti in giovenile etate, 2.1.89 e, la concordia ch' è sì rara al mondo, 2.1.90 v' era con Castità somma Beltate. 2.1.91 Tal venia contr' Amore e 'n sì secondo 2.1.92 favor del Cielo e de le ben nate alme, 2.1.93 che de la vista e' non sofferse il pondo. 2.1.94 Mille e mille famose e care salme 2.1.95 torre gli vidi, e scuotergli di mano 2.1.96 mille vittoriose e chiare palme. 2.1.97 Non fu 'l cader di subito sì strano 2.1.98 dopo tante vittorie ad Anniballe, 2.1.99 vinto alla fin dal giovine Romano; 2.1.100 non giacque sì smarrito nella valle 2.1.101 di Terebinto quel gran Filisteo 2.1.102 a cui tutto Israel dava le spalle, 2.1.103 al primo sasso del garzon ebreo; 2.1.104 né Ciro in Scizia ove la vedov' orba 2.1.105 la gran vendetta e memorabil feo. 2.1.106 Com' uom ch' è sano e 'n un momento ammorba, 2.1.107 che sbigottisce e duolsi, o colto in atto 2.1.108 che vergogna con man dagli occhi forba, 2.1.109 cotale era egli, e tanto a peggior patto, 2.1.110 che paura e dolor, vergogna ed ira 2.1.111 eran nel volto suo tutte ad un tratto; 2.1.112 non freme così 'l mar quando s' adira, 2.1.113 non Inarime allor che Tifeo piagne, 2.1.114 né Mongibel s' Encelado sospira. 2.1.115 Passo qui cose gloriose e magne 2.1.116 ch' io vidi e dir non oso; a la mia donna 2.1.117 vengo ed all' altre sue minor compagne. 2.1.118 Ell' avea in dosso, il dì, candida gonna, 2.1.119 lo scudo in man che mal vide Medusa. 2.1.120 D' un bel diaspro er' ivi una colonna, 2.1.121 a la qual d' una in mezzo Lete infusa 2.1.122 catena di diamante e di topazio, 2.1.123 che s' usò fra le donne, oggi non s' usa, 2.1.124 legarlo vidi e farne quello strazio 2.1.125 che bastò ben a mille altre vendette; 2.1.126 ed io per me ne fui contento e sazio. 2.1.127 I' non poria le sacre e benedette 2.1.128 vergini ch' ivi fur, chiudere in rima, 2.1.129 non Calliope e Clio con l' altre sette; 2.1.130 ma d' alquante dirò che 'n su la cima 2.1.131 son di vera onestate, infra le quali 2.1.132 Lucrezia da man destra era la prima, 2.1.133 l' altra Penelopè: queste gli strali 2.1.134 avean spezzato e la faretra a lato 2.1.135 a quel protervo, e spennachiato l' ali. 2.1.136 Verginia appresso e 'l fiero padre armato 2.1.137 di disdegno e di ferro e di pietate, 2.1.138 ch' a sua figlia ed a Roma cangiò stato, 2.1.139 l' una e l' altra ponendo in libertate; 2.1.140 poi le Tedesche che con aspra morte 2.1.141 servaron lor barbarica onestate; 2.1.142 Iudith ebrea, la saggia, casta e forte, 2.1.143 e quella Greca che saltò nel mare 2.1.144 per morir netta e fuggir dura sorte. 2.1.145 Con queste e con certe altre anime chiare 2.1.146 trionfar vidi di colui che pria 2.1.147 veduto avea del mondo trionfare. 2.1.148 Fra l' altre la vestal vergine pia 2.1.149 che baldanzosamente corse al Tibro 2.1.150 e per purgarsi d' ogni fama ria 2.1.151 portò del fiume al tempio acqua col cribro; 2.1.152 poi vidi Ersilia con le sue Sabine, 2.1.153 schiera che del suo nome empie ogni libro; 2.1.154 poi vidi, fra le donne pellegrine, 2.1.155 quella che per lo suo diletto e fido 2.1.156 sposo, non per Enea, volse ire al fine: 2.1.157 taccia 'l vulgo ignorante! io dico Dido, 2.1.158 cui studio d' onestate a morte spinse, 2.1.159 non vano amor, com' è 'l publico grido. 2.1.160 Al fin vidi una che si chiuse e strinse 2.1.161 sovra Arno per servarsi, e non le valse, 2.1.162 che forza altrui il suo bel penser vinse. 2.1.163 Era 'l trionfo dove l' onde salse 2.1.164 percoton Baia, ch' al tepido verno 2.1.165 giuns' e a man destra in terra ferma salse. 2.1.166 Indi, fra monte Barbaro ed Averno, 2.1.167 l' antichissimo albergo di Sibilla 2.1.168 lassando, se n' andar dritto a Literno. 2.1.169 In così angusta e solitaria villa 2.1.170 era il grand' uom che d' Affrica s' appella, 2.1.171 perché prima col ferro al vivo aprilla. 2.1.172 Qui dell' ostile onor l' alta novella, 2.1.173 non scemato cogli occhi, a tutti piacque, 2.1.174 e la più casta v' era la più bella; 2.1.175 né 'l trionfo non suo seguire spiacque 2.1.176 a lui che, se credenza non è vana, 2.1.177 sol per trionfi e per imperi nacque. 2.1.178 Così giugnemmo alla città sovrana, 2.1.179 nel tempio pria che dedicò Sulpizia 2.1.180 per spegner nella mente fiamma insana; 2.1.181 passammo al tempio poi di Pudicizia 2.1.182 ch' accende in cor gentil oneste voglie, 2.1.183 non di gente plebeia, ma di patrizia. 2.1.184 Ivi spiegò le gloriose spoglie 2.1.185 la bella vincitrice, ivi depose 2.1.186 le sue vittoriose e sacre foglie; 2.1.187 e 'l giovene Toscan che non ascose 2.1.188 le belle piaghe che 'l fer non sospetto, 2.1.189 del comune nemico in guardia pose 2.1.190 con parecchi altri (e fummi 'l nome detto 2.1.191 d' alcun di lor, come mia scorta seppe), 2.1.192 ch' avean fatto ad Amor chiaro disdetto. 2.1.193 Fra gli altri vidi Ippolito e Joseppe.

Triumphus Mortis

PARTE I
3.1.1 Quella leggiadra e gloriosa donna 3.1.2 ch' è oggi ignudo spirto e poca terra 3.1.3 e fu già di valor alta colonna, 3.1.4 tornava con onor da la sua guerra, 3.1.5 allegra, avendo vinto il gran nemico, 3.1.6 che con suo' ingegni tutto 'l mondo atterra, 3.1.7 non con altr' arme che col cor pudico 3.1.8 e d' un bel viso e de' pensieri schivi, 3.1.9 d' un parlar saggio e d' onestate amico. 3.1.10 Era miracol novo a veder ivi 3.1.11 rotte l' arme d' Amore, arco e saette, 3.1.12 e tal morti da lui, tal presi e vivi. 3.1.13 La bella donna e le compagne elette 3.1.14 tornando da la nobile vittoria 3.1.15 in un bel drappelletto ivan ristrette; 3.1.16 poche eran, perché rara è vera gloria, 3.1.17 ma ciascuna per sé parea ben degna 3.1.18 di poema chiarissimo e d' istoria; 3.1.19 era la lor vittoriosa insegna 3.1.20 in campo verde un candido ermellino, 3.1.21 ch' oro fino e topazi al collo tegna; 3.1.22 non uman veramente, ma divino 3.1.23 lor andar era, e lor sante parole: 3.1.24 beato s' è qual nasce a tal destino! 3.1.25 Stelle chiare pareano, in mezzo un sole 3.1.26 che tutte ornava e non togliea lor vista, 3.1.27 di rose incoronate e di viole. 3.1.28 E come gentil cor onore acquista, 3.1.29 così venìa quella brigata allegra, 3.1.30 quando vidi un' insegna oscura e trista; 3.1.31 ed una donna involta in veste negra, 3.1.32 con un furor qual io non so se mai 3.1.33 al tempo de' giganti fusse a Flegra, 3.1.34 si mosse e disse: «O tu, donna, che vai 3.1.35 di gioventute e di bellezze altera, 3.1.36 e di tua vita il termine non sai, 3.1.37 io son colei che sì importuna e fera 3.1.38 chiamata son da voi, e sorda e cieca 3.1.39 gente, a cui si fa notte innanzi sera; 3.1.40 io ò condotto al fin la gente greca 3.1.41 e la troiana, a l' ultimo i Romani, 3.1.42 con la mia spada la qual punge e seca, 3.1.43 e popoli altri barbareschi e strani; 3.1.44 e giugnendo quand' altri non m' aspetta 3.1.45 ò interrotti infiniti penser vani. 3.1.46 Or a voi, quando il viver più diletta, 3.1.47 drizzo 'l mio corso innanzi che Fortuna 3.1.48 nel vostro dolce qualche amaro metta». 3.1.49 «In costor non ài tu ragione alcuna 3.1.50 ed in me poca: solo in questa spoglia» 3.1.51 rispose quella che fu nel mondo una. 3.1.52 «Altri so che n' avrà più di me doglia, 3.1.53 la cui salute dal mio viver pende; 3.1.54 a me fia grazia che di qui mi scioglia». 3.1.55 Qual è chi 'n cosa nova gli occhi intende 3.1.56 e vede ond' al principio non s' accorse, 3.1.57 di ch' or si meraviglia e si riprende, 3.1.58 tal si fe' quella fera, e poi che 'n forse 3.1.59 fu stata un poco: «Ben le riconosco,» 3.1.60 disse «e so quando 'l mio dente le morse». 3.1.61 Poi col ciglio men torbido e men fosco 3.1.62 disse: «Tu che la bella schiera guidi, 3.1.63 pur non sentisti mai del mio tosco; 3.1.64 se del consiglio mio punto ti fidi, 3.1.65 ché sforzar posso, egli è pur il migliore 3.1.66 fuggir vecchiezza e' suoi molti fastidi; 3.1.67 i' son disposta a farti un tal onore 3.1.68 qual altrui far non soglio, e che tu passi 3.1.69 senza paura e senz' alcun dolore». 3.1.70 «Come piace al Signor che 'n cielo stassi 3.1.71 ed indi regge e tempra l' universo, 3.1.72 farai di me quel che degli altri fassi». 3.1.73 Così rispose; ed ecco da traverso 3.1.74 piena di morti tutta la campagna, 3.1.75 che comprender nol po prosa né verso: 3.1.76 da India, dal Cataio, Marrocco e Spagna 3.1.77 el mezzo avea già pieno e le pendici 3.1.78 per molti tempi quella turba magna. 3.1.79 Ivi eran quei che fur detti felici, 3.1.80 pontefici, regnanti, imperadori: 3.1.81 or sono ignudi, miseri e mendici. 3.1.82 U' sono or le ricchezze? u' son gli onori? 3.1.83 e le gemme e gli scettri e le corone, 3.1.84 e le mitre e i purpurei colori? 3.1.85 Miser chi speme in cosa mortal pone 3.1.86 (ma chi non ve la pone?), e se si trova 3.1.87 alla fine ingannato è ben ragione. 3.1.88 O ciechi, e 'l tanto affaticar che giova? 3.1.89 Tutti tornate a la gran madre antica 3.1.90 e 'l vostro nome a pena si ritrova. 3.1.91 Pur de le mille è un' utile fatica, 3.1.92 che non sian tutte vanità palesi? 3.1.93 Chi intende a' vostri studii, sì mel dica. 3.1.94 Che vale a soggiogar gli altrui paesi 3.1.95 e tributarie far le genti strane 3.1.96 co gli animi al suo danno sempre accesi? 3.1.97 Dopo l' imprese perigliose e vane 3.1.98 e col sangue acquistar terre e tesoro, 3.1.99 vie più dolce si trova l' acqua e 'l pane 3.1.100 e 'l legno e 'l vetro che le gemme e l' oro. 3.1.101 Ma per non seguir più sì lungo tema, 3.1.102 tempo è ch' io torni al mio primo lavoro. 3.1.103 I' dico che giunta era l' ora estrema 3.1.104 di quella breve vita gloriosa 3.1.105 e 'l dubbio passo di che 'l mondo trema, 3.1.106 ed a vederla un' altra valorosa 3.1.107 schiera di donne, non dal corpo sciolta, 3.1.108 per saper s' esser po Morte pietosa. 3.1.109 Quella bella compagna era ivi accolta 3.1.110 pure a vedere e contemplare il fine 3.1.111 che far convensi, e non più d' una volta: 3.1.112 tutte sue amiche e tutte eran vicine. 3.1.113 Allor di quella bionda testa svelse 3.1.114 Morte co la sua mano un aureo crine; 3.1.115 così del mondo il più bel fiore scelse, 3.1.116 non già per odio, ma per dimostrarsi 3.1.117 più chiaramente ne le cose eccelse. 3.1.118 Quanti lamenti lagrimosi sparsi 3.1.119 fur ivi, essendo que' belli occhi asciutti 3.1.120 per ch' io lunga stagion cantai ed arsi! 3.1.121 E fra tanti sospiri e tanti lutti 3.1.122 tacita, e sola lieta, si sedea 3.1.123 del suo ben viver già cogliendo i frutti. 3.1.124 «Vattene in pace, o vera mortal Dea!» 3.1.125 diceano; e tal fu ben, ma non le valse 3.1.126 contra la Morte in sua ragion sì rea. 3.1.127 Che fia de l' altre se questa arse ed alse 3.1.128 in poche notti e si cangiò più volte? 3.1.129 O umane speranze cieche e false! 3.1.130 Se la terra bagnar lagrime molte 3.1.131 per la pietà di quella alma gentile, 3.1.132 chi 'l vide, il sa; tu 'l pensa che l' ascolte. 3.1.133 L' ora prima era, il dì sesto d' aprile, 3.1.134 che già mi strinse, ed or, lasso, mi sciolse: 3.1.135 come Fortuna va cangiando stile! 3.1.136 Nessun di servitù già mai si dolse 3.1.137 né di morte quant' io di libertate 3.1.138 e de la vita, ch' altri non mi tolse. 3.1.139 Debito al mondo e debito a l' etate 3.1.140 cacciar me innanzi, ch' ero giunto in prima, 3.1.141 né a lui torre ancor sua dignitate. 3.1.142 Or qual fusse 'l dolor qui non si stima, 3.1.143 ch' a pena oso pensarne, non ch' io sia 3.1.144 ardito di parlarne in versi o 'n rima. 3.1.145 «Virtù more, bellezza e leggiadria!» 3.1.146 le belle donne intorno al casto letto 3.1.147 triste diceano «omai di noi che fia? 3.1.148 chi vedrà mai in donna atto perfetto? 3.1.149 chi udirà il parlar di saver pieno 3.1.150 e 'l canto pien d' angelico diletto?» 3.1.151 Lo spirto, per partir di quel bel seno 3.1.152 con tutte sue virtuti in sé romito, 3.1.153 fatto avea in quella parte il ciel sereno. 3.1.154 Nessun degli avversari fu sì ardito 3.1.155 ch' apparisse già mai con vista oscura 3.1.156 fin che Morte il suo assalto ebbe fornito. 3.1.157 Poi che deposto il pianto e la paura 3.1.158 pur al bel volto era ciascuna intenta, 3.1.159 per desperazion fatta sicura, 3.1.160 non come fiamma che per forza è spenta, 3.1.161 ma che per se medesma si consume, 3.1.162 se n' andò in pace l' anima contenta, 3.1.163 a guisa d' un soave e chiaro lume 3.1.164 cui nutrimento a poco a poco manca, 3.1.165 tenendo al fine il suo caro costume. 3.1.166 Pallida no ma più che neve bianca 3.1.167 che senza venti in un bel colle fiocchi, 3.1.168 parea posar come persona stanca: 3.1.169 quasi un dolce dormir ne' suo' belli occhi, 3.1.170 sendo lo spirto già da lei diviso, 3.1.171 era quel che morir chiaman gli sciocchi: 3.1.172 morte bella parea nel suo bel viso.
PARTE II
3.2.1 La notte che seguì l' orribil caso 3.2.2 che spense il sol, anzi 'l ripose in cielo, 3.2.3 di ch' io son qui come uom cieco rimaso, 3.2.4 spargea per l' aere il dolce estivo gelo 3.2.5 che con la bianca amica di Titone 3.2.6 suol da' sogni confusi torre il velo, 3.2.7 quando donna sembiante a la stagione, 3.2.8 di gemme orientali incoronata, 3.2.9 mosse ver me da mille altre corone, 3.2.10 e quella man già tanto desiata 3.2.11 a me, parlando e sospirando, porse 3.2.12 ond' eterna dolcezza al cor m' è nata: 3.2.13 «Riconosci colei che 'n prima torse 3.2.14 i passi tuoi dal publico viaggio?» 3.2.15 Come 'l cor giovenil di lei s' accorse, 3.2.16 così, pensosa, in atto umile e saggio, 3.2.17 s' assise e seder femmi in una riva 3.2.18 la qual ombrava un bel lauro ed un faggio. 3.2.19 «Come non conosco io l' alma mia diva?» 3.2.20 risposi in guisa d' uom che parla e plora 3.2.21 «Dimmi pur, prego, s' tu se' morta o viva!» 3.2.22 «Viva son io e tu se' morto ancora,» 3.2.23 diss' ella «e sarai sempre infin che giunga 3.2.24 per levarti di terra l' ultima ora. 3.2.25 Ma 'l tempo è breve e nostra voglia è lunga; 3.2.26 però t' avvisa e 'l tuo dir stringi e frena 3.2.27 anzi che 'l giorno, già vicin, n' aggiunga». 3.2.28 Ed io: «Al fin di questa altra serena 3.2.29 ch' à nome vita, che per prova il sai, 3.2.30 deh dimmi se 'l morir è sì gran pena». 3.2.31 Rispose: «Mentre al vulgo dietro vai 3.2.32 ed a la opinion sua cieca e dura, 3.2.33 esser felice non puoi tu già mai. 3.2.34 La morte è fin d' una pregione oscura 3.2.35 all' anime gentili; all' altre è noia, 3.2.36 ch' ànno posto nel fango ogni lor cura. 3.2.37 Ed ora il morir mio, che sì t' annoia, 3.2.38 ti farebbe allegrar se tu sentissi 3.2.39 la millesima parte di mia gioia». 3.2.40 Così parlava, e gli occhi ave' al ciel fissi 3.2.41 devotamente; poi mosse in silenzio 3.2.42 quelle labbra rosate infin ch' i' dissi: 3.2.43 «Silla, Mario, Neron, Gaio e Mezenzio, 3.2.44 fianchi, stomachi e febri ardenti fanno 3.2.45 parer la morte amara più ch' assenzio». 3.2.46 «Negar» disse «non posso che l' affanno 3.2.47 che va innanzi al morir non doglia forte, 3.2.48 e più la tema dell' eterno danno; 3.2.49 ma pur che l' alma in Dio si riconforte 3.2.50 e 'l cor, che 'n se medesmo forse è lasso, 3.2.51 che altro ch' un sospir breve è la morte? 3.2.52 Io avea già vicin l' ultimo passo, 3.2.53 la carne inferma, e l' anima ancor pronta, 3.2.54 quando udi' dir in un son tristo e basso: 3.2.55 "O misero colui che' giorni conta, 3.2.56 e pargli l' un mille anni! Indarno vive, 3.2.57 che seco in terra mai non si raffronta, 3.2.58 e cerca 'l mare e tutte le sue rive, 3.2.59 e sempre un stil, ovunque fusse, tenne; 3.2.60 sol di lei pensa o di lei parla o scrive!" 3.2.61 Allora in quella parte onde 'l suon venne 3.2.62 gli occhi languidi volgo e veggio quella 3.2.63 che amò noi, me sospinse e te ritenne. 3.2.64 Riconobbila al volto e a la favella 3.2.65 che spesso ha già 'l mio cor racconsolato, 3.2.66 or grave e saggia, allor onesta e bella. 3.2.67 E quand' io fui nel mio più bello stato, 3.2.68 ne l' età mia più verde, a te più cara, 3.2.69 ch' a dire ed a pensare a molti à dato, 3.2.70 mi fu la vita poco men ch' amara 3.2.71 a rispetto di quella mansueta 3.2.72 e dolce morte ch' a' mortali è rara; 3.2.73 che 'n tutto quel mio passo er' io più lieta 3.2.74 che qual d' esilio al dolce albergo riede, 3.2.75 se non che mi stringea di te sol pieta». 3.2.76 «Deh madonna,» diss' io «per quella fede 3.2.77 che vi fu, credo, al tempo manifesta, 3.2.78 or più nel volto di chi tutto vede, 3.2.79 creovvi Amor pensier mai nella testa 3.2.80 d' aver pietà del mio lungo martire, 3.2.81 non lasciando vostr' alta impresa onesta? 3.2.82 che' vostri dolci sdegni e le dolci ire, 3.2.83 le dolci paci ne' belli occhi scritte, 3.2.84 tenner molt' anni in dubbio il mio desire». 3.2.85 A pena ebb' io queste parole ditte 3.2.86 ch' io vidi lampeggiar quel dolce riso 3.2.87 ch' un sol fu già di mie virtuti afflitte. 3.2.88 Poi disse sospirando: «Mai diviso 3.2.89 da te non fu 'l mio cor, né già mai fia; 3.2.90 ma temprai la tua fiamma col mio viso, 3.2.91 perché a salvar te e me null' altra via 3.2.92 era, e la nostra giovenetta fama; 3.2.93 né per ferza è però madre men pia. 3.2.94 Quante volte diss' io meco: "Questi ama, 3.2.95 anzi arde; or si conven ch' a ciò provveggia, 3.2.96 e mal po provveder chi teme o brama, 3.2.97 quel di fuor miri, e quel dentro non veggia". 3.2.98 Questo fu quel che ti rivolse e strinse 3.2.99 spesso, come caval fren, che vaneggia. 3.2.100 Più di mille fiate ira dipinse 3.2.101 il volto mio ch' Amor ardeva il core, 3.2.102 ma voglia in me ragion già mai non vinse. 3.2.103 Poi, se vinto ti vidi dal dolore, 3.2.104 drizzai in te gli occhi allor soavemente, 3.2.105 salvando la tua vita e 'l nostro onore. 3.2.106 E se fu passion troppo possente, 3.2.107 e la fronte e la voce a salutarti 3.2.108 mossi, ed or timorosa ed or dolente. 3.2.109 Questi fur teco miei ingegni e mie arti: 3.2.110 or benigne accoglienze ed ora sdegni; 3.2.111 tu 'l sai che n' ài cantato in molte parti; 3.2.112 ch' i' vidi gli occhi tuoi talor sì pregni 3.2.113 di lagrime ch' i' dissi: "Questi è corso, 3.2.114 chi non l' aita, sì 'l conosco ai segni". 3.2.115 Allor provvidi d' onesto soccorso; 3.2.116 talor ti vidi tali sproni al fianco 3.2.117 ch' i' dissi: "Qui conven più duro morso". 3.2.118 Così, caldo, vermiglio, freddo e bianco, 3.2.119 or tristo, or lieto, infin qui t' ò condutto 3.2.120 salvo, ond' io mi rallegro, benché stanco». 3.2.121 Ed io: «Madonna, assai fora gran frutto 3.2.122 questo d' ogni mia fé, pur ch' i' 'l credessi» 3.2.123 dissi tremando e non col viso asciutto. 3.2.124 «Di poca fede! Or io, se nol sapessi, 3.2.125 se non fosse ben ver, perché 'l direi?» 3.2.126 rispose, e 'n vista parve s' accendessi. 3.2.127 «S' al mondo tu piacesti agli occhi miei, 3.2.128 questo mi taccio; pur quel dolce nodo 3.2.129 mi piacque assai che 'ntorno al cor avei; 3.2.130 e piacemi 'l bel nome, se vero odo, 3.2.131 che lunge e presso col tuo dir m' acquisti; 3.2.132 né mai 'n tuo amor richiesi altro che 'l modo. 3.2.133 Quel mancò solo, e mentre in atti tristi 3.2.134 volei mostrarmi quel ch' i' vedea sempre, 3.2.135 il tuo cor chiuso a tutto 'l mondo apristi. 3.2.136 Quinci 'l mio gelo, onde ancor ti distempre; 3.2.137 che concordia era tal dell' altre cose 3.2.138 qual giunge Amor, pur ch' onestate il tempre. 3.2.139 Fur quasi eguali in noi fiamme amorose, 3.2.140 al men poi ch' i' m' avvidi del tuo foco; 3.2.141 ma l' un le palesò, l' altro l' ascose. 3.2.142 Tu eri di mercé chiamar già roco, 3.2.143 quando tacea perché vergogna e tema 3.2.144 facean molto desir parer sì poco. 3.2.145 Non è minor il duol perch' altri 'l prema 3.2.146 né maggior per andarsi lamentando; 3.2.147 per fizion non cresce il ver né scema. 3.2.148 Ma non si ruppe almen ogni vel, quando 3.2.149 soli i tuo' detti, te presente, accolsi, 3.2.150 "dir più non osa il nostro amor" cantando? 3.2.151 Teco era 'l core, a me gli occhi raccolsi; 3.2.152 di ciò come d' iniqua parte duolti, 3.2.153 se 'l meglio e 'l più ti diedi, e 'l men ti tolsi! 3.2.154 Né pensi che, perché ti fossin tolti 3.2.155 ben mille volte, e più di mille e mille 3.2.156 renduti e con pietate a te fur volti! 3.2.157 E state foran lor luci tranquille 3.2.158 sempre ver te, se non ch' ebbi temenza 3.2.159 delle pericolose tue faville. 3.2.160 Più ti vo' dir per non lasciarti senza 3.2.161 una conclusion che a te fia grata 3.2.162 forse d' udir in su questa partenza: 3.2.163 in tutte l' altre cose assai beata, 3.2.164 in una sola a me stessa dispiacqui, 3.2.165 che 'n troppo umil terren mi trovai nata; 3.2.166 duolmi ancor veramente ch' i' non nacqui 3.2.167 al men più presso al tuo fiorito nido: 3.2.168 ma assai fu bel paese ond' io ti piacqui; 3.2.169 che potea 'l cor, del qual sol io mi fido, 3.2.170 volgersi altrove, a te essendo ignota, 3.2.171 ond' io fora men chiara e di men grido». 3.2.172 «Questo no,» rispos' io «perché la rota 3.2.173 terza del ciel m' alzava a tanto amore, 3.2.174 ovunque fusse, stabile ed immota!» 3.2.175 «Or così sia;» diss' ella «i' n' ebbi onore 3.2.176 ch' ancor mi segue; ma per tuo diletto 3.2.177 tu non t' accorgi del fuggir de l' ore. 3.2.178 Vedi l' Aurora de l' aurato letto 3.2.179 rimenar ai mortali il giorno, e 'l sole 3.2.180 già fuor de l' oceano infin al petto. 3.2.181 Questa vien per partirne, onde mi dole: 3.2.182 s' a dire ài altro, studia d' esser breve 3.2.183 e col tempo dispensa le parole». 3.2.184 «Quant' io soffersi mai, soave e leve» 3.2.185 dissi «m' ha fatto il parlar dolce e pio, 3.2.186 ma 'l viver senza voi m' è duro e greve; 3.2.187 però saper vorrei, Madonna, s' io 3.2.188 son per tardi seguirvi, o se per tempo». 3.2.189 Ella già mossa disse: «Al creder mio, 3.2.190 tu starai in terra senza me gran tempo».

Triumphus Fame

PARTE I
4.1.1 Da poi che Morte trionfò nel volto 4.1.2 che di me stesso trionfar solea, 4.1.3 e fu del nostro mondo il suo sol tolto, 4.1.4 partissi quella dispietata e rea, 4.1.5 pallida in vista, orribile e superba, 4.1.6 che 'l lume di beltate spento avea; 4.1.7 quando, mirando intorno su per l' erba, 4.1.8 vidi da l' altra parte giugner quella 4.1.9 che trae l' uom del sepolcro e 'n vita il serba. 4.1.10 Quale in sul giorno un' amorosa stella 4.1.11 suol venir d' oriente innanzi al sole 4.1.12 che s' accompagna volentier con ella, 4.1.13 cotal venìa, ed oh! di quali scole 4.1.14 verrà 'l maestro che descriva a pieno 4.1.15 quel ch' io vo' dir in semplici parole? 4.1.16 Era d' intorno il ciel tanto sereno 4.1.17 che per tutto 'l desir ch' ardea nel core 4.1.18 l' occhio mio non potea non venir meno; 4.1.19 scolpito per le fronti era il valore 4.1.20 de l' onorata gente, dov' io scorsi 4.1.21 molti di quei che legar vidi Amore. 4.1.22 Da man destra, ove gli occhi in prima porsi, 4.1.23 la bella donna avea Cesare e Scipio, 4.1.24 ma qual più presso a gran pena m' accorsi: 4.1.25 l' un di vertute, e non d' Amor mancipio, 4.1.26 l' altro d' entrambi; e poi mi fu mostrata 4.1.27 dopo sì glorioso e bel principio 4.1.28 gente di ferro e di valore armata, 4.1.29 siccome in Campidoglio al tempo antico 4.1.30 talora o per Via Sacra o per Via Lata. 4.1.31 Venian tutti in quell' ordine ch' i' dico, 4.1.32 e leggeasi a ciascuno intorno al ciglio 4.1.33 il nome al mondo più di gloria amico. 4.1.34 Io era intento al nobile pispiglio, 4.1.35 ai volti, agli atti; ed ecco i primi due, 4.1.36 l' un seguiva il nipote e l' altro il figlio, 4.1.37 che sol senza alcun pari al mondo fue; 4.1.38 e quei che volser a' nemici armati 4.1.39 chiuder il passo colle membra sue, 4.1.40 duo padri, da tre figli accompagnati, 4.1.41 l' un giva inanzi e due venian dopo, 4.1.42 e l' ultimo era il primo fra' laudati. 4.1.43 Poi fiammeggiava a guisa d' un piropo 4.1.44 colui che col consiglio e co la mano 4.1.45 a tutta Italia giunse al maggior uopo: 4.1.46 di Claudio dico, che notturno e piano, 4.1.47 come il Metauro vide, a purgar venne 4.1.48 di ria semenza il buon campo romano; 4.1.49 egli ebbe occhi a vedere, a volar penne; 4.1.50 ed un gran vecchio il secondava appresso, 4.1.51 che con arte Anibàle a bada tenne. 4.1.52 Duo altri Fabii e duo Caton con esso, 4.1.53 duo Pauli, duo Bruti e duo Marcelli, 4.1.54 un Regol ch' amò Roma e non se stesso; 4.1.55 un Curio ed un Fabrizio assai più belli 4.1.56 con la lor povertà che Mida o Crasso 4.1.57 con l' oro ond' a virtù furon ribelli; 4.1.58 Cincinnato e Serran, che solo un passo 4.1.59 senza costor non vanno, e 'l gran Camillo, 4.1.60 di viver prima che di ben far lasso, 4.1.61 perch' a sì alto grado il ciel sortillo 4.1.62 che sua virtute chiara il ricondusse 4.1.63 ond' altrui cieca rabbia dipartillo. 4.1.64 Poi quel Torquato che 'l figliuol percusse 4.1.65 e viver orbo per amor sofferse 4.1.66 della milizia per che orba non fusse; 4.1.67 l' un Decio e l' altro, che col petto aperse 4.1.68 le schiere de' nemici: o fiero voto, 4.1.69 che 'l padre e 'l figlio ad una morte offerse! 4.1.70 Curzio venia con lor, non men devoto, 4.1.71 che di sé e de l' arme empié lo speco 4.1.72 in mezzo il Foro orribilmente voto. 4.1.73 Mummio, Levino, Attilio, ed era seco 4.1.74 Tito Flamminio, che con forza vinse, 4.1.75 ma vie più con pietate, il popol greco. 4.1.76 Eravi quei che 'l re di Siria cinse 4.1.77 d' un magnanimo cerchio, e co la fronte 4.1.78 e co la lingua a sua voglia lo strinse, 4.1.79 e quel ch' armato, sol, difese un monte 4.1.80 onde poi fu sospinto, e quel che solo 4.1.81 contra tutta Toscana tenne un ponte; 4.1.82 e quel che in mezzo del nemico stuolo 4.1.83 mosse la mano indarno, e poscia l' arse, 4.1.84 sì seco irato che non sentì il duolo; 4.1.85 e chi 'n mar prima vincitor apparse 4.1.86 contra' Cartaginesi, e chi lor navi 4.1.87 fra Cicilia e Sardigna ruppe e sparse. 4.1.88 Appio conobbi agli occhi, e' suoi che gravi 4.1.89 furon sempre e molesti a l' umil plebe; 4.1.90 poi vidi un grande con atti soavi, 4.1.91 e se non che 'l suo lume allo estremo ebe, 4.1.92 forse era 'l primo, e certo fu fra noi 4.1.93 qual Bacco, Alcid' e Epaminonda a Tebe; 4.1.94 ma 'l peggio è viver troppo! e vidi poi 4.1.95 quel che da l' esser suo destro e leggero 4.1.96 ebbe nome, e fu 'l fior degli anni suoi; 4.1.97 e quanto in arme fu crudo e severo, 4.1.98 tanto quei che 'l seguia, Corvo, benigno, 4.1.99 non so se miglior duce o cavaliero. 4.1.100 Poi venìa que' che livido maligno 4.1.101 tumor di sangue, bene oprando, oppresse, 4.1.102 nobil Volumnio e d' alta laude digno; 4.1.103 Cosso e Filon, Rutilio, e dalle spesse 4.1.104 luci in disparte tre soli ir vedeva, 4.1.105 rotti i membri e smagliate l' arme e fesse: 4.1.106 Lucio Dentato e Marco Sergio e Sceva, 4.1.107 que' tre folgori e tre scogli di guerra, 4.1.108 ma l' un rio successor di fama leva; 4.1.109 Mario poi, che Jugurta e' Cimbri atterra 4.1.110 e 'l tedesco furore, e Fulvio Flacco 4.1.111 ch' a l' ingrati troncar a bel studio erra, 4.1.112 ed il più nobil Fulvio, e solo un Gracco 4.1.113 di quel gran nido garrulo inquieto 4.1.114 che fe' 'l popol roman più volte stracco, 4.1.115 e quel che parve altrui beato e lieto, 4.1.116 non dico fu, che non chiaro si vede 4.1.117 un chiuso cor profondo in suo secreto: 4.1.118 Metello dico, e suo padre, e suo rede, 4.1.119 che già di Macedonia e de' Numidi 4.1.120 e di Creta e di Spagna addusser prede. 4.1.121 Poscia Vespasian col figlio vidi, 4.1.122 il buono e bello, non già il bello e rio, 4.1.123 e 'l buon Nerva, e Traian, principi fidi, 4.1.124 Elio Adriano e 'l suo Antonin Pio, 4.1.125 bella successione infino a Marco, 4.1.126 che bono a buono à natural desio. 4.1.127 Mentre che vago oltre cogli occhi varco, 4.1.128 vidi 'l gran fondatore e i regi cinque; 4.1.129 l' altro era in terra di mal peso carco, 4.1.130 come addiven a chi virtù relinque.
PARTE II
4.2.1 Pien d' infinita e nobil meraviglia 4.2.2 presa a mirar il buon popol di Marte, 4.2.3 ch' al mondo non fu mai simil famiglia, 4.2.4 giungea la vista con l' antiche carte 4.2.5 ove son gli alti nomi e' sommi pregi, 4.2.6 e sentiv' al mio dir mancar gran parte; 4.2.7 ma disviarmi i pellegrini egregi, 4.2.8 Annibal primo, e quel cantato in versi 4.2.9 Achille che di fama ebbe gran fregi, 4.2.10 i duo chiari Troiani e' duo gran Persi, 4.2.11 Filippo e 'l figlio, che da Pella a gl' Indi 4.2.12 correndo vinse paesi diversi. 4.2.13 Vidi l' altro Alessandro non lunge indi 4.2.14 non già correr così, ch' ebbe altro intoppo: 4.2.15 quanto del vero onor, Fortuna, scindi! 4.2.16 I tre Teban ch' io dissi, in un bel groppo, 4.2.17 nell' altro Aiace, Diomede e Ulisse 4.2.18 che desiò del mondo veder troppo; 4.2.19 Nestor che tanto seppe e tanto visse, 4.2.20 Agamenon e Menelao, che 'n spose 4.2.21 poco felici al mondo fer gran risse; 4.2.22 Leonida ch' a' suoi lieto propose 4.2.23 un duro prandio, una terribil cena, 4.2.24 e 'n poca piazza fe' mirabil cose; 4.2.25 ed Alcibiade, che sì spesso Atena 4.2.26 come fu suo piacer volse e rivolse 4.2.27 con dolce lingua e con fronte serena; 4.2.28 Milziade che 'l gran gioco a Grecia tolse, 4.2.29 e 'l buon figliuol che con pietà perfetta 4.2.30 legò sé vivo e 'l padre morto sciolse; 4.2.31 Teseo, Temistoclès con questa setta, 4.2.32 Aristidès che fu un greco Fabrizio: 4.2.33 a tutti fu crudelmente interdetta 4.2.34 la patria sepoltura, e l' altrui vizio 4.2.35 illustra lor, ché nulla meglio scopre 4.2.36 contrari due com' piccolo interstizio. 4.2.37 Focion va con questi tre di sopre, 4.2.38 che di sua terra fu scacciato morto: 4.2.39 molto diverso il guidardon da l' opre! 4.2.40 Com' io mi volsi, il buon Pirro ebbi scorto, 4.2.41 e 'l buon re Massinissa, e gli era avviso 4.2.42 d' esser senza i Roman ricever torto. 4.2.43 Con lui, mirando quinci e quindi fiso, 4.2.44 Jero siracusan conobbi e 'l crudo 4.2.45 Amilcare da lor molto diviso. 4.2.46 Vidi qual uscì già del foco ignudo 4.2.47 il re di Lidia, manifesto esempio 4.2.48 che poco val contra Fortuna scudo. 4.2.49 Vidi Siface pari a simil scempio, 4.2.50 Brenno sotto cui cadde gente molta, 4.2.51 e poi cadde ei sotto il delfico tempio. 4.2.52 In abito diversa, in popol folta 4.2.53 fu quella schiera, e mentre gli occhi alto ergo 4.2.54 vidi una parte tutta in sé raccolta: 4.2.55 e quel che volse a Dio far grande albergo 4.2.56 per abitar fra gli uomini, era 'l primo; 4.2.57 ma chi fe' l' opra gli venìa da tergo: 4.2.58 a lui fu destinato, onde da imo 4.2.59 produsse al sommo l' edificio santo, 4.2.60 non tal dentro architetto, com' io stimo. 4.2.61 Poi quel ch' a Dio familiar fu tanto 4.2.62 in grazia, a parlar seco a faccia a faccia, 4.2.63 che nessun altro se ne può dar vanto; 4.2.64 e quel che come un animal s' allaccia 4.2.65 co la lingua possente legò il sole 4.2.66 per giugner de' nemici suoi la traccia: 4.2.67 o fidanza gentil! chi Dio ben cole, 4.2.68 quanto Dio à creato aver suggetto 4.2.69 e 'l ciel tener con semplici parole! 4.2.70 Poi vidi 'l padre nostro a cui fu detto 4.2.71 ch' uscisse di sua terra e gisse al loco 4.2.72 ch' a l' umana salute era già eletto; 4.2.73 seco 'l figlio e 'l nipote a cui fu 'l gioco 4.2.74 fatto de le due spose, e 'l saggio e casto 4.2.75 Joseph dal padre lontanarsi un poco. 4.2.76 Poi stendendo la vista quant' io basto 4.2.77 colui vidi oltra il qual occhio non varca, 4.2.78 la cui inobedienza à il mondo guasto. 4.2.79 Di qua da lui, chi fece la grande arca 4.2.80 e quei che cominciò poi la gran torre 4.2.81 che fu sì di peccato e d' error carca; 4.2.82 poi quel buon Juda a cui nessun può torre 4.2.83 le sue leggi paterne, invitto e franco 4.2.84 com' uom che per giustizia a morte corre. 4.2.85 Già era il mio desio presso che stanco 4.2.86 quando mi fece una leggiadra vista 4.2.87 più vago di mirar ch' i' ne fossi anco; 4.2.88 i' vidi alquante donne ad una lista, 4.2.89 Antiope ed Oritia, armata e bella, 4.2.90 Ippolita del figlio afflitta e trista, 4.2.91 e Menalippe, e ciascuna sì snella 4.2.92 che vincerle fu gloria al grande Alcide: 4.2.93 e' l' una ebbe, e Teseo l' altra sorella; 4.2.94 la vedova che sì secura vide 4.2.95 morto 'l figliolo, e tal vendetta feo 4.2.96 ch' uccise Ciro ed or sua fama uccide, 4.2.97 però che udendo ancora il suo fin reo 4.2.98 par che di novo a sua gran colpa moia, 4.2.99 tanto quel dì del suo nome perdeo! 4.2.100 Poi vidi quella che mal vide Troia, 4.2.101 e fra queste una vergine latina 4.2.102 ch' in Italia a' Troian fe' molta noia. 4.2.103 Poi vidi la magnanima reina: 4.2.104 con una treccia avvolta e l' altra sparsa 4.2.105 corse alla babilonica rapina; 4.2.106 poi Cleopatra, e l' un' e l' altra er' arsa 4.2.107 d' indegno foco; e vidi in quella tresca 4.2.108 Zenobia del suo onor assai più scarsa; 4.2.109 bell' era e nell' età fiorita e fresca: 4.2.110 quanto in più gioventute e 'n più bellezza 4.2.111 tanto par ch' onestà sua laude accresca. 4.2.112 Nel cor femineo fu sì gran fermezza 4.2.113 che col bel viso e co l' armata coma 4.2.114 fece temer chi per natura sprezza: 4.2.115 io parlo de l' imperio alto di Roma, 4.2.116 che con arme assalìo, ben ch' a l' estremo 4.2.117 fusse al nostro trionfo ricca soma. 4.2.118 Fra' nomi che 'n dir breve ascondo e premo, 4.2.119 non fia Judith, la vedovetta ardita 4.2.120 che fe' il folle amador del capo scemo. 4.2.121 Ma Nino ond' ogni istoria umana è ordita, 4.2.122 dove lasc' io il suo gran successore 4.2.123 che superbia condusse a bestial vita? 4.2.124 Belo dove riman, fonte d' errore 4.2.125 non per sua colpa? Dove Zoroastro, 4.2.126 che fu de l' arti magiche inventore? 4.2.127 E chi de' nostri dogi che 'n duro astro 4.2.128 passar l' Eufrate fece 'l mal governo, 4.2.129 a l' italiche doglie fiero impiastro? 4.2.130 Ov' è 'l gran Mitridate, quello eterno 4.2.131 nemico de' Roman che sì ramingo 4.2.132 fuggì dinanzi a lor la state e 'l verno? 4.2.133 Molte gran cose in picciol fascio stringo: 4.2.134 ov' è un re Arturo e tre Cesari Augusti: 4.2.135 un d' Affrica, un di Spagna, un Lottoringo? 4.2.136 Cingean costu' i suoi dodici robusti, 4.2.137 poi venia solo il buon duce Goffrido 4.2.138 che fe' l' impresa santa e' passi giusti. 4.2.139 Questo (di ch' io mi sdegno e 'ndarno grido) 4.2.140 fece in Jerusalem colle sue mani 4.2.141 il mal guardato e già negletto nido; 4.2.142 gite superbi, o miseri Cristiani, 4.2.143 consumando l' un l' altro, e non vi caglia 4.2.144 che 'l sepolcro di Cristo è in man de' cani! 4.2.145 Raro o nessun ch' in alta fama saglia 4.2.146 vidi dopo costui, s' io non m' inganno, 4.2.147 o per arte di pace o di battaglia. 4.2.148 Pur come uomini eletti ultimi vanno, 4.2.149 vidi verso la fine il Saracino 4.2.150 che fece a' nostri assai vergogna e danno; 4.2.151 quel di Luria seguiva il Saladino; 4.2.152 poi 'l duca di Lancastro che pur dianzi 4.2.153 era al regno de' Franchi aspro vicino. 4.2.154 Miro, come uom che volentier s' avanzi, 4.2.155 s' alcuno ivi vedessi qual egli era 4.2.156 altrove agli occhi miei veduto innanzi, 4.2.157 e vidi duo che si partir iersera 4.2.158 di questa nostra etate e del paese; 4.2.159 costor chiudean quell' onorata schiera: 4.2.160 il buon re cicilian che 'n alto intese 4.2.161 e lunge vide e fu veramente Argo; 4.2.162 dall' altra parte il mio gran Colonnese, 4.2.163 magnanimo, gentil, constante e largo.
PARTE III
4.3.1 Io non sapea da tal vista levarme, 4.3.2 quand' io udi': «Pon mente a l' altro lato, 4.3.3 che s' acquista ben pregio altro che d' arme». 4.3.4 Volsimi da man manca, e vidi Plato 4.3.5 che 'n quella schiera andò più presso al segno 4.3.6 al qual aggiunge cui dal Cielo è dato, 4.3.7 Aristotele poi, pien d' alto ingegno, 4.3.8 Pitagora che primo umilemente 4.3.9 filosofia chiamò per nome degno, 4.3.10 Socrate e Senofonte, e quell' ardente 4.3.11 vecchio a cui fur le Muse tanto amiche 4.3.12 ch' Argo e Micena e Troia se ne sente; 4.3.13 questo cantò gli errori e le fatiche 4.3.14 del figliuol di Laerte e d' una diva, 4.3.15 primo pintor delle memorie antiche. 4.3.16 A man a man con lui cantando giva 4.3.17 il Mantovan che di par seco giostra, 4.3.18 ed uno al cui passar l' erba fioriva: 4.3.19 quest' è quel Marco Tullio in cui si mostra 4.3.20 chiaro quanti eloquenzia à frutti e fiori; 4.3.21 questi son gli occhi de la lingua nostra. 4.3.22 Dopo venia Demostene che fori 4.3.23 è di speranza omai del primo loco, 4.3.24 non ben contento de' secondi onori; 4.3.25 un gran folgor parea tutto di foco; 4.3.26 Eschine il dica che 'l poteo sentire, 4.3.27 quando presso al suo tuon parve già fioco. 4.3.28 Io non posso per ordine ridire 4.3.29 questo o quel dove mi vedessi o quando 4.3.30 e qual andar innanzi e qual seguire, 4.3.31 che, cose innumerabili pensando 4.3.32 e mirando la turba tale e tanta, 4.3.33 l' occhio e 'l pensier m' andava disviando. 4.3.34 Vidi Solon di cui fu l' util pianta 4.3.35 che s' è mal colta, e mal frutto produce, 4.3.36 cogli altri sei di che Grecia si vanta. 4.3.37 Qui vid' io nostra gente aver per duce 4.3.38 Varrone, il terzo gran lume romano, 4.3.39 che quando 'l miri più tanto più luce; 4.3.40 Crispo Sallustio, e seco a mano a mano 4.3.41 un che già l' ebbe a schifo e 'l vide torto: 4.3.42 ciò è 'l gran Tito Livio padovano. 4.3.43 Mentr' io 'l mirava, subito ebbi scorto 4.3.44 quel Plinio veronese suo vicino, 4.3.45 a scriver molto, a morir poco accorto. 4.3.46 Poi vidi 'l gran platonico Plotino, 4.3.47 che credendosi in ozio viver salvo 4.3.48 prevento fu dal suo fiero destino, 4.3.49 il qual seco venìa dal materno alvo, 4.3.50 e però providenzia ivi non valse; 4.3.51 poi Crasso, Antonio, Ortensio, Galba e Calvo 4.3.52 con Pollion che 'n tal superbia salse, 4.3.53 che contra quel d' Arpino armar le lingue 4.3.54 cercando ambeduo fame indegne e false. 4.3.55 Tucidide vid' io, che ben distingue 4.3.56 i tempi e' luoghi e l' opere leggiadre 4.3.57 e di che sangue qual campo s' impingue; 4.3.58 Erodoto di greca istoria padre 4.3.59 vidi, e dipinto il nobil geometra 4.3.60 di triangoli e tondi e forme quadre; 4.3.61 e quel che 'nver di noi divenne petra: 4.3.62 Porfirio, che d' acuti silogismi 4.3.63 empié la dialettica faretra 4.3.64 facendo contra 'l vero arme i sofismi; 4.3.65 e quel di Coo che fe' vie miglior l' opra, 4.3.66 se ben intesi fusser gli aforismi. 4.3.67 Apollo ed Esculapio gli son sopra, 4.3.68 chiusi ch' appena il viso gli comprende, 4.3.69 sì par che i nomi il tempo limi e copra. 4.3.70 Un di Pergamo il segue, e in lui pende 4.3.71 l' arte guasta fra noi, allor non vile, 4.3.72 ma breve e 'scura; e' la dichiara e stende. 4.3.73 Vidi Anassarco intrepido e virile, 4.3.74 e Senocrate più saldo ch' un sasso 4.3.75 che nulla forza volse ad atto vile; 4.3.76 vidi Archimede star col viso basso 4.3.77 e Democrito andar tutto pensoso, 4.3.78 per suo voler di lume e d' oro casso; 4.3.79 vidi Ippia e 'l vecchiarel che già fu oso 4.3.80 dir «Io so tutto», e poi di nulla certo 4.3.81 ma d' ogni cosa Archesilao dubbioso; 4.3.82 vidi in suoi detti Eraclito coverto 4.3.83 e Diogene cinico, in suo' fatti 4.3.84 assai più che non vuol vergogna aperto, 4.3.85 e quel che lieto i suoi campi disfatti 4.3.86 vide e deserti, d' altre merci carco, 4.3.87 credendo averne invidiosi patti. 4.3.88 Ivi era il curioso Dicearco 4.3.89 ed in suoi magisteri assai dispari 4.3.90 Quintiliano e Seneca e Plutarco. 4.3.91 Vidivi alquanti ch' àn turbati i mari 4.3.92 con venti avversi e con ingegni vaghi, 4.3.93 non per saver, ma per contender chiari, 4.3.94 urtar come leoni, e come draghi 4.3.95 colle code avvinghiarsi: or che è questo 4.3.96 ch' ognun del suo saper par che s' appaghi? 4.3.97 Carneade vidi in suo' studi sì desto 4.3.98 che, parlando egli, il vero e 'l falso a pena 4.3.99 si discernea, così nel dir fu presto; 4.3.100 la lunga vita e la sua larga vena 4.3.101 d' ingegno pose in accordar le parti 4.3.102 che 'l furor litterato a guerra mena, 4.3.103 né 'l poteo far, che come crebber l' arti 4.3.104 crebbe l' invidia, e col savere inseme 4.3.105 ne' cuori enfiati i suo' veneni à sparti. 4.3.106 Contra 'l buon Siro che l' umana speme 4.3.107 alzò ponendo l' anima immortale 4.3.108 s' armò Epicuro, onde sua fama geme, 4.3.109 ardito a dir ch' ella non fusse tale; 4.3.110 così al lume fu fumoso e lippo 4.3.111 co la brigata al suo maestro eguale: 4.3.112 di Metrodoro parlo e d' Aristippo. 4.3.113 Poi con gran subbio e con mirabil fuso 4.3.114 vidi tela sottil ordir Crisippo. 4.3.115 Degli Stoici 'l padre alzato in suso 4.3.116 per far chiaro suo dir, vidi Zenone 4.3.117 mostrar la palma aperta e 'l pugno chiuso; 4.3.118 e per fermar sua bella intenzione 4.3.119 la tavola gentil pinger Cleante 4.3.120 che tira al ver la vaga opinione.

Triumphus Temporis

5.1.1 De l' aureo albergo co l' aurora innanzi 5.1.2 sì ratto usciva il Sol cinto di raggi 5.1.3 che detto avresti: «e' si corcò pur dianzi». 5.1.4 Alzato un poco, come fanno i saggi 5.1.5 guardosss' intorno ed a se stesso disse: 5.1.6 «Che pensi? omai convien che più cura aggi. 5.1.7 Ecco, s' un che famoso in terra visse, 5.1.8 de la sua fama per morir non esce, 5.1.9 che sarà de la legge che 'l Ciel fisse? 5.1.10 E se fama mortal morendo cresce, 5.1.11 che spegner si devea in breve veggio 5.1.12 nostra eccellenzia al fine, onde m' incresce. 5.1.13 Che più s' aspetta? e che puote esser peggio? 5.1.14 che più nel ciel ò io che 'n terra un uomo? 5.1.15 a cui esser egual per grazia cheggio? 5.1.16 Quattro cavài con quanto studio como, 5.1.17 pasco nell' oceàno e sprono e sferzo, 5.1.18 e pur la fama d' un mortal non domo! 5.1.19 Ingiuria da corruccio e non da scherzo 5.1.20 avvenir questo a me, s' io fossi in cielo 5.1.21 non dirò primo, ma secondo o terzo! 5.1.22 Or conven che s' accenda ogni mio zelo, 5.1.23 sì ch' al mio volo l' ira addoppi i vanni, 5.1.24 ch' io porto invidia agli uomini e nol celo, 5.1.25 de' quali io veggio alcun dopo mille anni 5.1.26 e mille e mille, più chiari che 'n vita, 5.1.27 ed io m' avanzo di perpetui affanni: 5.1.28 tal son qual era anzi che stabilita 5.1.29 fosse la terra, dì e notte rotando 5.1.30 per la strada ritonda ch' è infinita». 5.1.31 Poi che questo ebbe detto, disdegnando 5.1.32 riprese il corso, più veloce assai 5.1.33 che falcon d' alto a sua preda volando: 5.1.34 più, dico, né pensier poria già mai 5.1.35 seguir suo volo, non che lingua o stile, 5.1.36 tal che con gran paura il rimirai. 5.1.37 Allor tenn' io il viver nostro a vile 5.1.38 per la mirabil sua velocitate 5.1.39 vie più ch' innanzi nol tenea gentile, 5.1.40 e parvemi terribil vanitate 5.1.41 fermare in cose il cor che 'l Tempo preme, 5.1.42 che, mentre più le stringi, son passate. 5.1.43 Però chi di suo stato cura o teme, 5.1.44 provveggia ben, mentr' è l' arbitrio intero, 5.1.45 fondar in loco stabile sua speme, 5.1.46 che quant' io vidi il Tempo andar leggero 5.1.47 dopo la guida sua che mai non posa, 5.1.48 io nol dirò perché poter non spero. 5.1.49 I' vidi 'l ghiaccio, e lì stesso la rosa, 5.1.50 quasi in un punto il gran freddo e 'l gran caldo, 5.1.51 che pur udendo par mirabil cosa; 5.1.52 ma chi ben mira col giudizio saldo, 5.1.53 vedrà esser così; ché nol vidi io? 5.1.54 di che contra me stesso or mi riscaldo. 5.1.55 Segui' già le speranze e 'l van desio, 5.1.56 or ò dinanzi agli occhi un chiaro specchio 5.1.57 ov' io veggio me stesso e 'l fallir mio, 5.1.58 e quanto posso al fine m' apparecchio, 5.1.59 pensando al breve viver mio, nel quale 5.1.60 stamani era un fanciullo ed or son vecchio. 5.1.61 Che più d' un giorno è la vita mortale? 5.1.62 Nubil' e brev' e freddo e pien di noia, 5.1.63 che po bella parer ma nulla vale. 5.1.64 Qui l' umana speranza e qui la gioia, 5.1.65 qui' miseri mortali alzan la testa 5.1.66 e nessun sa quanto si viva o moia. 5.1.67 Veggio or la fuga del mio viver presta, 5.1.68 anzi di tutti, e nel fuggir del sole 5.1.69 la ruina del mondo manifesta. 5.1.70 Or vi riconfortate in vostre fole, 5.1.71 gioveni, e misurate il tempo largo! 5.1.72 Ma piaga antiveduta assai men dole: 5.1.73 forse che 'ndarno mie parole spargo, 5.1.74 ma io v' annunzio che voi sete offesi 5.1.75 da un grave e mortifero letargo, 5.1.76 che volan l' ore e' giorni e gli anni e' mesi: 5.1.77 insieme, con brevissimo intervallo, 5.1.78 tutti avemo a cercar altri paesi. 5.1.79 Non fate contra 'l vero al core un callo, 5.1.80 come sete usi, anzi volgete gli occhi 5.1.81 mentr' emendar si puote il vostro fallo; 5.1.82 non aspettate che la morte scocchi, 5.1.83 come fa la più parte, che per certo 5.1.84 infinita è la schiera degli sciocchi. 5.1.85 Poi ch' i' ebbi veduto e veggio aperto 5.1.86 il volar e 'l fuggir del gran pianeta, 5.1.87 ond' i' ò danni ed inganni assai sofferto, 5.1.88 vidi una gente andarsen queta queta 5.1.89 senza temer di Tempo o di sua rabbia, 5.1.90 che gli avea in guardia istorico o poeta. 5.1.91 Di lor par che più d' altri invidia s' abbia, 5.1.92 che per se stessi son levati a volo 5.1.93 uscendo for della comune gabbia. 5.1.94 Contra costor colui che splende solo 5.1.95 s' apparecchiava con maggiore sforzo, 5.1.96 e riprendeva un più spedito volo; 5.1.97 a' suoi corsier raddoppiato era l' orzo; 5.1.98 e la reina di ch' io sopra dissi 5.1.99 d' alcun' de' suoi già volea far divorzo. 5.1.100 Udi' dir, non so a chi, ma 'l detto scrissi: 5.1.101 «In questi umani, a dir proprio, ligustri, 5.1.102 di cieca oblivion che 'scuri abissi! 5.1.103 Volgerà il sol non pure anni ma lustri 5.1.104 e secoli, vittor d' ogni cerebro, 5.1.105 e vedrà il vaneggiar di questi illustri: 5.1.106 quanti fur chiari fra Peneo ed Ebro 5.1.107 che son venuti e verran tosto meno! 5.1.108 quanti sul Xanto e quant' in val di Tebro! 5.1.109 Un dubbio inverno, instabile sereno 5.1.110 è vostra fama, e poca nebbia il rompe, 5.1.111 e 'l gran tempo a' gran nomi è gran veneno. 5.1.112 Passan vostre grandezze e vostre pompe, 5.1.113 passan le signorie, passano i regni: 5.1.114 ogni cosa mortal Tempo interrompe, 5.1.115 e ritolta a' men buon, non dà a' più degni; 5.1.116 e non pur quel di fuori il Tempo solve, 5.1.117 ma le vostre eloquenzie e' vostri ingegni. 5.1.118 Così fuggendo il mondo seco volve, 5.1.119 né mai si posa né s' arresta o torna, 5.1.120 fin che v' à ricondotti in poca polve. 5.1.121 Or perché umana gloria à tante corna, 5.1.122 non è mirabil cosa, s' a fiaccarle 5.1.123 alquanto oltra l' usanza si soggiorna; 5.1.124 ma, quantunque si pensi il volgo o parle, 5.1.125 se 'l viver vostro non fosse sì breve 5.1.126 tosto vedresti in fumo ritornarle». 5.1.127 Udito questo, perché al ver si deve 5.1.128 non contrastar, ma dar perfetta fede, 5.1.129 vidi ogni nostra gloria al sol di neve, 5.1.130 e vidi il Tempo rimenar tal prede 5.1.131 de' nostri nomi ch' io gli ebbi per nulla, 5.1.132 benché la gente ciò non sa né crede: 5.1.133 cieca, che sempre al vento si trastulla 5.1.134 e pur di false opinion si pasce, 5.1.135 lodando più il morir vecchio che 'n culla. 5.1.136 Quanti son già felici morti in fasce! 5.1.137 Quanti miseri in ultima vecchiezza! 5.1.138 Alcun dice: «Beato chi non nasce!» 5.1.139 Ma per la turba a' grandi errori avvezza 5.1.140 dopo la lunga età sia 'l nome chiaro: 5.1.141 che è questo però che sì s' apprezza? 5.1.142 Tutto vince e ritoglie il Tempo avaro; 5.1.143 chiamasi Fama ed è morir secondo, 5.1.144 né più che contra 'l primo è alcun riparo; 5.1.145 così 'l Tempo trionfa i nomi e 'l mondo!

Triumphus Eternitatis

6.1.1 Dapoi che sotto 'l ciel cosa non vidi 6.1.2 stabile e ferma, tutto sbigottito 6.1.3 mi volsi al cor e dissi: «In che ti fidi?» 6.1.4 Rispose: «Nel Signor, che mai fallito 6.1.5 non à promessa a chi si fida in lui; 6.1.6 ma ben veggio che 'l mondo m' à schernito, 6.1.7 e sento quel ch' i' sono e quel ch' i' fui, 6.1.8 e veggio andar, anzi volare, il tempo, 6.1.9 e doler mi vorrei, né so di cui, 6.1.10 ché la colpa è pur mia, che più per tempo 6.1.11 deve' aprir gli occhi, e non tardar al fine, 6.1.12 ch' a dir il vero, omai troppo m' attempo. 6.1.13 Ma tarde non fur mai grazie divine; 6.1.14 in quelle spero che 'n me ancor faranno 6.1.15 alte operazioni e pellegrine». 6.1.16 Così detto e risposto: or, se non stanno 6.1.17 queste cose che 'l ciel volge e governa, 6.1.18 dopo molto voltar che fine avranno? 6.1.19 Questo pensava, e mentre più s' interna 6.1.20 la mente mia, veder mi parve un mondo 6.1.21 novo, in etate immobile ed eterna, 6.1.22 e 'l sole e tutto 'l ciel disfar a tondo 6.1.23 con le sue stelle, ancor la terra e 'l mare, 6.1.24 e rifarne un più bello e più giocondo. 6.1.25 Qual meraviglia ebb' io quando ristare 6.1.26 vidi in un punto quel che mai non stette, 6.1.27 ma discorrendo suol tutto cangiare! 6.1.28 E le tre parti sue vidi ristrette 6.1.29 ad una sola, e quella una esser ferma 6.1.30 sì che, come solea, più non s' affrette; 6.1.31 e quasi in terra d' erbe ignuda ed erma, 6.1.32 né «fia» né «fu» né «mai» né «innanzi» o «'ndietro» 6.1.33 ch' umana vita fanno varia e 'nferma! 6.1.34 Passa il penser sì come sole in vetro, 6.1.35 anzi più assai, però che nulla il tene; 6.1.36 o qual grazia mi fia, se mai l' impetro, 6.1.37 ch' i' veggia ivi presente il sommo bene, 6.1.38 non alcun mal, che solo il tempo mesce 6.1.39 e con lui si diparte e con lui vene! 6.1.40 Non avrà albergo il sol Tauro né Pesce, 6.1.41 per lo cui variar nostro lavoro 6.1.42 or nasce or more, ed ora scema or cresce. 6.1.43 Beat' i spirti che nel sommo coro 6.1.44 si troveranno, o trovano, in tal grado 6.1.45 che sia in memoria eterna il nome loro! 6.1.46 O felice colui che trova il guado 6.1.47 di questo alpestro e rapido torrente 6.1.48 ch' à nome vita e a molti è sì a grado! 6.1.49 Misera la volgare e cieca gente 6.1.50 che pon qui sue speranze in cose tali 6.1.51 che 'l tempo le ne porta sì repente! 6.1.52 O veramente sordi, ignudi e frali, 6.1.53 poveri d' argomenti e di consiglio, 6.1.54 egri del tutto e miseri mortali! 6.1.55 Quei che governa il ciel solo col ciglio, 6.1.56 che conturba ed acqueta gli elementi, 6.1.57 al cui saver non pur io non m' appiglio, 6.1.58 ma li angeli ne son lieti e contenti 6.1.59 di veder de le mille parti l' una, 6.1.60 ed in ciò stanno desiosi e 'ntenti... 6.1.61 O mente vaga, al fin sempre digiuna, 6.1.62 a che tanti pensieri? un' ora sgombra 6.1.63 quanto in molt' anni a pena si raguna. 6.1.64 Quel che l' anima nostra preme e 'ngombra: 6.1.65 «dianzi, adesso, ier, diman, mattino e sera» 6.1.66 tutti in un punto passeran com' ombra; 6.1.67 non avrà loco «fu» «sarà» né «era», 6.1.68 ma «è» solo in presente, ed «ora» ed «oggi» 6.1.69 e sola eternità raccolta e 'ntera; 6.1.70 quasi spianati dietro e 'nnanzi i poggi 6.1.71 ch' occupavan la vista, non fia in cui 6.1.72 vostro sperare e rimembrar s' appoggi; 6.1.73 la qual varietà fa spesso altrui 6.1.74 vaneggiar sì che 'l viver pare un gioco, 6.1.75 pensando pur: «che sarò io? che fui?» 6.1.76 Non sarà più diviso a poco a poco, 6.1.77 ma tutto insieme, e non più state o verno, 6.1.78 ma morto il tempo e variato il loco; 6.1.79 e non avranno in man li anni 'l governo 6.1.80 de le fame mortali, anzi chi fia 6.1.81 chiaro una volta fia chiaro in eterno. 6.1.82 O felici quelle anime che 'n via 6.1.83 sono o seranno di venire al fine 6.1.84 di ch' io ragiono, quandunque e' si sia! 6.1.85 E tra l' altre leggiadre e pellegrine 6.1.86 beatissima lei che Morte occise 6.1.87 assai di qua dal natural confine! 6.1.88 Parranno allor l' angeliche divise 6.1.89 e l' oneste parole e i pensier casti 6.1.90 che nel cor giovenil Natura mise. 6.1.91 Tanti volti, che Morte e 'l Tempo ha guasti, 6.1.92 torneranno al suo più fiorito stato, 6.1.93 e vedrassi ove, Amor, tu mi legasti, 6.1.94 ond' io a dito ne sarò mostrato: 6.1.95 «Ecco chi pianse sempre, e nel suo pianto 6.1.96 sovra 'l riso d' ogni altro fu beato!» 6.1.97 E quella di ch' ancor piangendo canto 6.1.98 avrà gran maraviglia di se stessa, 6.1.99 vedendosi fra tutte dar il vanto. 6.1.100 Quando ciò fia, nol so; se fu soppressa 6.1.101 tanta credenza a' più fidi compagni, 6.1.102 a sì alto segreto chi s' appressa? 6.1.103 Credo io che s' avvicini, e de' guadagni 6.1.104 veri e de' falsi si farà ragione, 6.1.105 che tutti fien allor opre d' aragni; 6.1.106 vedrassi quanto in van cura si pone, 6.1.107 e quanto indarno s' affatica e suda, 6.1.108 come sono ingannate le persone; 6.1.109 nessun segreto fia chi copra o chiuda. 6.1.110 Fia ogni conscienza, o chiara o fosca, 6.1.111 dinanzi a tutto 'l mondo aperta e nuda; 6.1.112 e fia chi ragion giudichi e conosca. 6.1.113 Ciascun poi vedrem prender suo viaggio 6.1.114 come fiera scacciata che s' imbosca; 6.1.115 e vedrassi quel poco di paraggio 6.1.116 che vi fa ir superbi, e oro, e terreno, 6.1.117 esservi stato danno, e non vantaggio; 6.1.118 e 'n disparte color che sotto 'l freno 6.1.119 di modesta fortuna ebbero in uso 6.1.120 senz' altra pompa di godersi in seno. 6.1.121 Questi trionfi, i cinque in terra giuso 6.1.122 avem veduto ed alla fine il sesto, 6.1.123 Dio permettente, vederem lassuso. 6.1.124 E 'l Tempo, a disfar tutto così presto, 6.1.125 e Morte in sua ragion cotanto avara, 6.1.126 morti insieme saranno e quella e questo. 6.1.127 E quei che Fama meritaron chiara, 6.1.128 che 'l Tempo spense, e i be' visi leggiadri 6.1.129 che 'mpallidir fe' 'l Tempo e Morte amara, 6.1.130 l' oblivion, gli aspetti oscuri ed adri, 6.1.131 più che mai bei tornando, lasceranno 6.1.132 a morte impetuosa, a' giorni ladri; 6.1.133 ne l' età più fiorita e verde avranno 6.1.134 con immortal bellezza eterna fama. 6.1.135 Ma innanzi a tutte ch' a rifar si vanno, 6.1.136 è quella che piangendo il mondo chiama 6.1.137 con la mia lingua e con la stanca penna; 6.1.138 ma 'l ciel pur di vederla intera brama. 6.1.139 A riva un fiume che nasce in Gebenna 6.1.140 amor mi diè per lei sì lunga guerra 6.1.141 che la memoria ancora il cor accenna. 6.1.142 Felice sasso che 'l bel viso serra! 6.1.143 che, poi ch' avrà ripreso il suo bel velo, 6.1.144 se fu beato chi la vide in terra, 6.1.145 or che fia dunque a rivederla in cielo!