Dante, Divina commedia

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Inferno

CANTO I
1.1.1 Nel mezzo del cammin di nostra vita 1.1.2 mi ritrovai per una selva oscura, 1.1.3 ché la diritta via era smarrita. 1.1.4 Ahi quanto a dir qual era è cosa dura 1.1.5 esta selva selvaggia e aspra e forte 1.1.6 che nel pensier rinova la paura! 1.1.7 Tant' è amara che poco è più morte; 1.1.8 ma per trattar del ben ch' i' vi trovai, 1.1.9 dirò de l' altre cose ch' i' v' ho scorte. 1.1.10 Io non so ben ridir com' i' v' intrai, 1.1.11 tant' era pien di sonno a quel punto 1.1.12 che la verace via abbandonai. 1.1.13 Ma poi ch' i' fui al piè d' un colle giunto, 1.1.14 là dove terminava quella valle 1.1.15 che m' avea di paura il cor compunto, 1.1.16 guardai in alto e vidi le sue spalle 1.1.17 vestite già de' raggi del pianeta 1.1.18 che mena dritto altrui per ogne calle. 1.1.19 Allor fu la paura un poco queta, 1.1.20 che nel lago del cor m' era durata 1.1.21 la notte ch' i' passai con tanta pieta. 1.1.22 E come quei che con lena affannata, 1.1.23 uscito fuor del pelago a la riva, 1.1.24 si volge a l' acqua perigliosa e guata, 1.1.25 così l' animo mio, ch' ancor fuggiva, 1.1.26 si volse a retro a rimirar lo passo 1.1.27 che non lasciò già mai persona viva. 1.1.28 Poi ch' èi posato un poco il corpo lasso, 1.1.29 ripresi via per la piaggia diserta, 1.1.30 sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso. 1.1.31 Ed ecco, quasi al cominciar de l' erta, 1.1.32 una lonza leggera e presta molto, 1.1.33 che di pel macolato era coverta; 1.1.34 e non mi si partia dinanzi al volto, 1.1.35 anzi 'mpediva tanto il mio cammino, 1.1.36 ch' i' fui per ritornar più volte vòlto. 1.1.37 Temp' era dal principio del mattino, 1.1.38 e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle 1.1.39 ch' eran con lui quando l' amor divino 1.1.40 mosse di prima quelle cose belle; 1.1.41 sì ch' a bene sperar m' era cagione 1.1.42 di quella fiera a la gaetta pelle 1.1.43 l' ora del tempo e la dolce stagione; 1.1.44 ma non sì che paura non mi desse 1.1.45 la vista che m' apparve d' un leone. 1.1.46 Questi parea che contra me venisse 1.1.47 con la test' alta e con rabbiosa fame, 1.1.48 sì che parea che l' aere ne tremesse. 1.1.49 Ed una lupa, che di tutte brame 1.1.50 sembiava carca ne la sua magrezza, 1.1.51 e molte genti fé già viver grame, 1.1.52 questa mi porse tanto di gravezza 1.1.53 con la paura ch' uscia di sua vista, 1.1.54 ch' io perdei la speranza de l' altezza. 1.1.55 E qual è quei che volontieri acquista, 1.1.56 e giugne 'l tempo che perder lo face, 1.1.57 che 'n tutti suoi pensier piange e s' attrista; 1.1.58 tal mi fece la bestia sanza pace, 1.1.59 che, venendomi 'ncontro, a poco a poco 1.1.60 mi ripigneva là dove 'l sol tace. 1.1.61 Mentre ch' i' rovinava in basso loco, 1.1.62 dinanzi a li occhi mi si fu offerto 1.1.63 chi per lungo silenzio parea fioco. 1.1.64 Quando vidi costui nel gran diserto, 1.1.65 «Miserere di me», gridai a lui, 1.1.66 «qual che tu sii, od ombra od omo certo!». 1.1.67 Rispuosemi: «Non omo, omo già fui, 1.1.68 e li parenti miei furon lombardi, 1.1.69 mantoani per patrïa ambedui. 1.1.70 Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, 1.1.71 e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto 1.1.72 nel tempo de li dèi falsi e bugiardi. 1.1.73 Poeta fui, e cantai di quel giusto 1.1.74 figliuol d' Anchise che venne di Troia, 1.1.75 poi che 'l superbo Ilïón fu combusto. 1.1.76 Ma tu perché ritorni a tanta noia? 1.1.77 perché non sali il dilettoso monte 1.1.78 ch' è principio e cagion di tutta gioia?». 1.1.79 «Or se' tu quel Virgilio e quella fonte 1.1.80 che spandi di parlar sì largo fiume?», 1.1.81 rispuos' io lui con vergognosa fronte. 1.1.82 «O de li altri poeti onore e lume, 1.1.83 vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore 1.1.84 che m' ha fatto cercar lo tuo volume. 1.1.85 Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore, 1.1.86 tu se' solo colui da cu' io tolsi 1.1.87 lo bello stilo che m' ha fatto onore. 1.1.88 Vedi la bestia per cu' io mi volsi; 1.1.89 aiutami da lei, famoso saggio, 1.1.90 ch' ella mi fa tremar le vene e i polsi». 1.1.91 «A te convien tenere altro vïaggio», 1.1.92 rispuose, poi che lagrimar mi vide, 1.1.93 «se vuo' campar d' esto loco selvaggio; 1.1.94 ché questa bestia, per la qual tu gride, 1.1.95 non lascia altrui passar per la sua via, 1.1.96 ma tanto lo 'mpedisce che l' uccide; 1.1.97 e ha natura sì malvagia e ria, 1.1.98 che mai non empie la bramosa voglia, 1.1.99 e dopo 'l pasto ha più fame che pria. 1.1.100 Molti son li animali a cui s' ammoglia, 1.1.101 e più saranno ancora, infin che 'l veltro 1.1.102 verrà, che la farà morir con doglia. 1.1.103 Questi non ciberà terra né peltro, 1.1.104 ma sapïenza, amore e virtute, 1.1.105 e sua nazion sarà tra feltro e feltro. 1.1.106 Di quella umile Italia fia salute 1.1.107 per cui morì la vergine Cammilla, 1.1.108 Eurialo e Turno e Niso di ferute. 1.1.109 Questi la caccerà per ogne villa, 1.1.110 fin che l' avrà rimessa ne lo 'nferno, 1.1.111 là onde 'nvidia prima dipartilla. 1.1.112 Ond' io per lo tuo me' penso e discerno 1.1.113 che tu mi segui, e io sarò tua guida, 1.1.114 e trarrotti di qui per loco etterno; 1.1.115 ove udirai le disperate strida, 1.1.116 vedrai li antichi spiriti dolenti, 1.1.117 ch' a la seconda morte ciascun grida; 1.1.118 e vederai color che son contenti 1.1.119 nel foco, perché speran di venire 1.1.120 quando che sia a le beate genti. 1.1.121 A le quai poi se tu vorrai salire, 1.1.122 anima fia a ciò più di me degna: 1.1.123 con lei ti lascerò nel mio partire; 1.1.124 ché quello imperador che là sù regna, 1.1.125 perch' i' fu' ribellante a la sua legge, 1.1.126 non vuol che 'n sua città per me si vegna. 1.1.127 In tutte parti impera e quivi regge; 1.1.128 quivi è la sua città e l' alto seggio: 1.1.129 oh felice colui cu' ivi elegge!». 1.1.130 E io a lui: «Poeta, io ti richeggio 1.1.131 per quello Dio che tu non conoscesti, 1.1.132 acciò ch' io fugga questo male e peggio, 1.1.133 che tu mi meni là dov' or dicesti, 1.1.134 sì ch' io veggia la porta di san Pietro 1.1.135 e color cui tu fai cotanto mesti». 1.1.136 Allor si mosse, e io li tenni dietro.
CANTO II
1.2.1 Lo giorno se n' andava, e l' aere bruno 1.2.2 toglieva li animai che sono in terra 1.2.3 da le fatiche loro; e io sol uno 1.2.4 m' apparecchiava a sostener la guerra 1.2.5 sì del cammino e sì de la pietate, 1.2.6 che ritrarrà la mente che non erra. 1.2.7 O muse, o alto ingegno, or m' aiutate; 1.2.8 o mente che scrivesti ciò ch' io vidi, 1.2.9 qui si parrà la tua nobilitate. 1.2.10 Io cominciai: «Poeta che mi guidi, 1.2.11 guarda la mia virtù s' ell' è possente, 1.2.12 prima ch' a l' alto passo tu mi fidi. 1.2.13 Tu dici che di Silvïo il parente, 1.2.14 corruttibile ancora, ad immortale 1.2.15 secolo andò, e fu sensibilmente. 1.2.16 Però, se l' avversario d' ogne male 1.2.17 cortese i fu, pensando l' alto effetto 1.2.18 ch' uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale 1.2.19 non pare indegno ad omo d' intelletto; 1.2.20 ch' e' fu de l' alma Roma e di suo impero 1.2.21 ne l' empireo ciel per padre eletto: 1.2.22 la quale e 'l quale, a voler dir lo vero, 1.2.23 fu stabilita per lo loco santo 1.2.24 u' siede il successor del maggior Piero. 1.2.25 Per quest' andata onde li dai tu vanto, 1.2.26 intese cose che furon cagione 1.2.27 di sua vittoria e del papale ammanto. 1.2.28 Andovvi poi lo Vas d' elezïone, 1.2.29 per recarne conforto a quella fede 1.2.30 ch' è principio a la via di salvazione. 1.2.31 Ma io, perché venirvi? o chi 'l concede? 1.2.32 Io non Enëa, io non Paulo sono; 1.2.33 me degno a ciò né io né altri 'l crede. 1.2.34 Per che, se del venire io m' abbandono, 1.2.35 temo che la venuta non sia folle. 1.2.36 Se' savio; intendi me' ch' i' non ragiono». 1.2.37 E qual è quei che disvuol ciò che volle 1.2.38 e per novi pensier cangia proposta, 1.2.39 sì che dal cominciar tutto si tolle, 1.2.40 tal mi fec' ïo 'n quella oscura costa, 1.2.41 perché, pensando, consumai la 'mpresa 1.2.42 che fu nel cominciar cotanto tosta. 1.2.43 «S' i' ho ben la parola tua intesa», 1.2.44 rispuose del magnanimo quell' ombra, 1.2.45 «l' anima tua è da viltade offesa; 1.2.46 la qual molte fïate l' omo ingombra 1.2.47 sì che d' onrata impresa lo rivolve, 1.2.48 come falso veder bestia quand' ombra. 1.2.49 Da questa tema acciò che tu ti solve, 1.2.50 dirotti perch' io venni e quel ch' io 'ntesi 1.2.51 nel primo punto che di te mi dolve. 1.2.52 Io era tra color che son sospesi, 1.2.53 e donna mi chiamò beata e bella, 1.2.54 tal che di comandare io la richiesi. 1.2.55 Lucevan li occhi suoi più che la stella; 1.2.56 e cominciommi a dir soave e piana, 1.2.57 con angelica voce, in sua favella: 1.2.58 "O anima cortese mantoana, 1.2.59 di cui la fama ancor nel mondo dura, 1.2.60 e durerà quanto 'l mondo lontana, 1.2.61 l' amico mio, e non de la ventura, 1.2.62 ne la diserta piaggia è impedito 1.2.63 sì nel cammin, che vòlt' è per paura; 1.2.64 e temo che non sia già sì smarrito, 1.2.65 ch' io mi sia tardi al soccorso levata, 1.2.66 per quel ch' i' ho di lui nel cielo udito. 1.2.67 Or movi, e con la tua parola ornata 1.2.68 e con ciò c' ha mestieri al suo campare, 1.2.69 l' aiuta sì ch' i' ne sia consolata. 1.2.70 I' son Beatrice che ti faccio andare; 1.2.71 vegno del loco ove tornar disio; 1.2.72 amor mi mosse, che mi fa parlare. 1.2.73 Quando sarò dinanzi al segnor mio, 1.2.74 di te mi loderò sovente a lui". 1.2.75 Tacette allora, e poi comincia' io: 1.2.76 "O donna di virtù sola per cui 1.2.77 l' umana spezie eccede ogne contento 1.2.78 di quel ciel c' ha minor li cerchi sui, 1.2.79 tanto m' aggrada il tuo comandamento, 1.2.80 che l' ubidir, se già fosse, m' è tardi; 1.2.81 più non t' è uo' ch' aprirmi il tuo talento. 1.2.82 Ma dimmi la cagion che non ti guardi 1.2.83 de lo scender qua giuso in questo centro 1.2.84 de l' ampio loco ove tornar tu ardi". 1.2.85 "Da che tu vuo' saver cotanto a dentro, 1.2.86 dirotti brievemente", mi rispuose, 1.2.87 "perch' i' non temo di venir qua entro. 1.2.88 Temer si dee di sole quelle cose 1.2.89 c' hanno potenza di fare altrui male; 1.2.90 de l' altre no, ché non son paurose. 1.2.91 I' son fatta da Dio, sua mercé, tale, 1.2.92 che la vostra miseria non mi tange, 1.2.93 né fiamma d' esto 'ncendio non m' assale. 1.2.94 Donna è gentil nel ciel che si compiange 1.2.95 di questo 'mpedimento ov' io ti mando, 1.2.96 sì che duro giudicio là sù frange. 1.2.97 Questa chiese Lucia in suo dimando 1.2.98 e disse: --Or ha bisogno il tuo fedele 1.2.99 di te, e io a te lo raccomando --. 1.2.100 Lucia, nimica di ciascun crudele, 1.2.101 si mosse, e venne al loco dov' i' era, 1.2.102 che mi sedea con l' antica Rachele. 1.2.103 Disse: --Beatrice, loda di Dio vera, 1.2.104 ché non soccorri quei che t' amò tanto, 1.2.105 ch' uscì per te de la volgare schiera? 1.2.106 Non odi tu la pieta del suo pianto, 1.2.107 non vedi tu la morte che 'l combatte 1.2.108 su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? --. 1.2.109 Al mondo non fur mai persone ratte 1.2.110 a far lor pro o a fuggir lor danno, 1.2.111 com' io, dopo cotai parole fatte, 1.2.112 venni qua giù del mio beato scanno, 1.2.113 fidandomi del tuo parlare onesto, 1.2.114 ch' onora te e quei ch' udito l' hanno". 1.2.115 Poscia che m' ebbe ragionato questo, 1.2.116 li occhi lucenti lagrimando volse, 1.2.117 per che mi fece del venir più presto. 1.2.118 E venni a te così com' ella volse: 1.2.119 d' inanzi a quella fiera ti levai 1.2.120 che del bel monte il corto andar ti tolse. 1.2.121 Dunque: che è? perché, perché restai, 1.2.122 perché tanta viltà nel core allette, 1.2.123 perché ardire e franchezza non hai, 1.2.124 poscia che tai tre donne benedette 1.2.125 curan di te ne la corte del cielo, 1.2.126 e 'l mio parlar tanto ben ti promette?». 1.2.127 Quali fioretti dal notturno gelo 1.2.128 chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca, 1.2.129 si drizzan tutti aperti in loro stelo, 1.2.130 tal mi fec' io di mia virtude stanca, 1.2.131 e tanto buono ardire al cor mi corse, 1.2.132 ch' i' cominciai come persona franca: 1.2.133 «Oh pietosa colei che mi soccorse! 1.2.134 e te cortese ch' ubidisti tosto 1.2.135 a le vere parole che ti porse! 1.2.136 Tu m' hai con disiderio il cor disposto 1.2.137 sì al venir con le parole tue, 1.2.138 ch' i' son tornato nel primo proposto. 1.2.139 Or va, ch' un sol volere è d' ambedue: 1.2.140 tu duca, tu segnore e tu maestro». 1.2.141 Così li dissi; e poi che mosso fue, 1.2.142 intrai per lo cammino alto e silvestro.
CANTO III
1.3.1 "Per me si va ne la città dolente, 1.3.2 per me si va ne l' etterno dolore, 1.3.3 per me si va tra la perduta gente. 1.3.4 Giustizia mosse il mio alto fattore; 1.3.5 fecemi la divina podestate, 1.3.6 la somma sapïenza e 'l primo amore. 1.3.7 Dinanzi a me non fuor cose create 1.3.8 se non etterne, e io etterno duro. 1.3.9 Lasciate ogne speranza, voi ch' intrate". 1.3.10 Queste parole di colore oscuro 1.3.11 vid' ïo scritte al sommo d' una porta; 1.3.12 per ch' io: «Maestro, il senso lor m' è duro». 1.3.13 Ed elli a me, come persona accorta: 1.3.14 «Qui si convien lasciare ogne sospetto; 1.3.15 ogne viltà convien che qui sia morta. 1.3.16 Noi siam venuti al loco ov' i' t' ho detto 1.3.17 che tu vedrai le genti dolorose 1.3.18 c' hanno perduto il ben de l' intelletto». 1.3.19 E poi che la sua mano a la mia puose 1.3.20 con lieto volto, ond' io mi confortai, 1.3.21 mi mise dentro a le segrete cose. 1.3.22 Quivi sospiri, pianti e alti guai 1.3.23 risonavan per l' aere sanza stelle, 1.3.24 per ch' io al cominciar ne lagrimai. 1.3.25 Diverse lingue, orribili favelle, 1.3.26 parole di dolore, accenti d' ira, 1.3.27 voci alte e fioche, e suon di man con elle 1.3.28 facevano un tumulto, il qual s' aggira 1.3.29 sempre in quell' aura sanza tempo tinta, 1.3.30 come la rena quando turbo spira. 1.3.31 E io ch' avea d' error la testa cinta, 1.3.32 dissi: «Maestro, che è quel ch' i' odo? 1.3.33 e che gent' è che par nel duol sì vinta?». 1.3.34 Ed elli a me: «Questo misero modo 1.3.35 tegnon l' anime triste di coloro 1.3.36 che visser sanza 'nfamia e sanza lodo. 1.3.37 Mischiate sono a quel cattivo coro 1.3.38 de li angeli che non furon ribelli 1.3.39 né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. 1.3.40 Caccianli i ciel per non esser men belli, 1.3.41 né lo profondo inferno li riceve, 1.3.42 ch' alcuna gloria i rei avrebber d' elli». 1.3.43 E io: «Maestro, che è tanto greve 1.3.44 a lor che lamentar li fa sì forte?». 1.3.45 Rispuose: «Dicerolti molto breve. 1.3.46 Questi non hanno speranza di morte, 1.3.47 e la lor cieca vita è tanto bassa, 1.3.48 che 'nvidïosi son d' ogne altra sorte. 1.3.49 Fama di loro il mondo esser non lassa; 1.3.50 misericordia e giustizia li sdegna: 1.3.51 non ragioniam di lor, ma guarda e passa». 1.3.52 E io, che riguardai, vidi una 'nsegna 1.3.53 che girando correva tanto ratta, 1.3.54 che d' ogne posa mi parea indegna; 1.3.55 e dietro le venìa sì lunga tratta 1.3.56 di gente, ch' i' non averei creduto 1.3.57 che morte tanta n' avesse disfatta. 1.3.58 Poscia ch' io v' ebbi alcun riconosciuto, 1.3.59 vidi e conobbi l' ombra di colui 1.3.60 che fece per viltade il gran rifiuto. 1.3.61 Incontanente intesi e certo fui 1.3.62 che questa era la setta d' i cattivi, 1.3.63 a Dio spiacenti e a' nemici sui. 1.3.64 Questi sciaurati, che mai non fur vivi, 1.3.65 erano ignudi e stimolati molto 1.3.66 da mosconi e da vespe ch' eran ivi. 1.3.67 Elle rigavan lor di sangue il volto, 1.3.68 che, mischiato di lagrime, a' lor piedi 1.3.69 da fastidiosi vermi era ricolto. 1.3.70 E poi ch' a riguardar oltre mi diedi, 1.3.71 vidi genti a la riva d' un gran fiume; 1.3.72 per ch' io dissi: «Maestro, or mi concedi 1.3.73 ch' i' sappia quali sono, e qual costume 1.3.74 le fa di trapassar parer sì pronte, 1.3.75 com' i' discerno per lo fioco lume». 1.3.76 Ed elli a me: «Le cose ti fier conte 1.3.77 quando noi fermerem li nostri passi 1.3.78 su la trista riviera d' Acheronte». 1.3.79 Allor con li occhi vergognosi e bassi, 1.3.80 temendo no 'l mio dir li fosse grave, 1.3.81 infino al fiume del parlar mi trassi. 1.3.82 Ed ecco verso noi venir per nave 1.3.83 un vecchio, bianco per antico pelo, 1.3.84 gridando: «Guai a voi, anime prave! 1.3.85 Non isperate mai veder lo cielo: 1.3.86 i' vegno per menarvi a l' altra riva 1.3.87 ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo. 1.3.88 E tu che se' costì, anima viva, 1.3.89 pàrtiti da cotesti che son morti». 1.3.90 Ma poi che vide ch' io non mi partiva, 1.3.91 disse: «Per altra via, per altri porti 1.3.92 verrai a piaggia, non qui, per passare: 1.3.93 più lieve legno convien che ti porti». 1.3.94 E 'l duca lui: «Caron, non ti crucciare: 1.3.95 vuolsi così colà dove si puote 1.3.96 ciò che si vuole, e più non dimandare». 1.3.97 Quinci fuor quete le lanose gote 1.3.98 al nocchier de la livida palude, 1.3.99 che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote. 1.3.100 Ma quell' anime, ch' eran lasse e nude, 1.3.101 cangiar colore e dibattero i denti, 1.3.102 ratto che 'nteser le parole crude. 1.3.103 Bestemmiavano Dio e lor parenti, 1.3.104 l' umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme 1.3.105 di lor semenza e di lor nascimenti. 1.3.106 Poi si ritrasser tutte quante insieme, 1.3.107 forte piangendo, a la riva malvagia 1.3.108 ch' attende ciascun uom che Dio non teme. 1.3.109 Caron dimonio, con occhi di bragia 1.3.110 loro accennando, tutte le raccoglie; 1.3.111 batte col remo qualunque s' adagia. 1.3.112 Come d' autunno si levan le foglie 1.3.113 l' una appresso de l' altra, fin che 'l ramo 1.3.114 vede a la terra tutte le sue spoglie, 1.3.115 similemente il mal seme d' Adamo 1.3.116 gittansi di quel lito ad una ad una, 1.3.117 per cenni come augel per suo richiamo. 1.3.118 Così sen vanno su per l' onda bruna, 1.3.119 e avanti che sien di là discese, 1.3.120 anche di qua nuova schiera s' auna. 1.3.121 «Figliuol mio», disse 'l maestro cortese, 1.3.122 «quelli che muoion ne l' ira di Dio 1.3.123 tutti convegnon qui d' ogne paese; 1.3.124 e pronti sono a trapassar lo rio, 1.3.125 ché la divina giustizia li sprona, 1.3.126 sì che la tema si volve in disio. 1.3.127 Quinci non passa mai anima buona; 1.3.128 e però, se Caron di te si lagna, 1.3.129 ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona». 1.3.130 Finito questo, la buia campagna 1.3.131 tremò sì forte, che de lo spavento 1.3.132 la mente di sudore ancor mi bagna. 1.3.133 La terra lagrimosa diede vento, 1.3.134 che balenò una luce vermiglia 1.3.135 la qual mi vinse ciascun sentimento; 1.3.136 e caddi come l' uom cui sonno piglia.
CANTO IV
1.4.1 Ruppemi l' alto sonno ne la testa 1.4.2 un greve truono, sì ch' io mi riscossi 1.4.3 come persona ch' è per forza desta; 1.4.4 e l' occhio riposato intorno mossi, 1.4.5 dritto levato, e fiso riguardai 1.4.6 per conoscer lo loco dov' io fossi. 1.4.7 Vero è che 'n su la proda mi trovai 1.4.8 de la valle d' abisso dolorosa 1.4.9 che 'ntrono accoglie d' infiniti guai. 1.4.10 Oscura e profonda era e nebulosa 1.4.11 tanto che, per ficcar lo viso a fondo, 1.4.12 io non vi discernea alcuna cosa. 1.4.13 «Or discendiam qua giù nel cieco mondo», 1.4.14 cominciò il poeta tutto smorto. 1.4.15 «Io sarò primo, e tu sarai secondo». 1.4.16 E io, che del color mi fui accorto, 1.4.17 dissi: «Come verrò, se tu paventi 1.4.18 che suoli al mio dubbiare esser conforto?». 1.4.19 Ed elli a me: «L' angoscia de le genti 1.4.20 che son qua giù, nel viso mi dipigne 1.4.21 quella pietà che tu per tema senti. 1.4.22 Andiam, ché la via lunga ne sospigne». 1.4.23 Così si mise e così mi fé intrare 1.4.24 nel primo cerchio che l' abisso cigne. 1.4.25 Quivi, secondo che per ascoltare, 1.4.26 non avea pianto mai che di sospiri 1.4.27 che l' aura etterna facevan tremare; 1.4.28 ciò avvenia di duol sanza martìri, 1.4.29 ch' avean le turbe, ch' eran molte e grandi, 1.4.30 d' infanti e di femmine e di viri. 1.4.31 Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi 1.4.32 che spiriti son questi che tu vedi? 1.4.33 Or vo' che sappi, innanzi che più andi, 1.4.34 ch' ei non peccaro; e s' elli hanno mercedi, 1.4.35 non basta, perché non ebber battesmo, 1.4.36 ch' è porta de la fede che tu credi; 1.4.37 e s' e' furon dinanzi al cristianesmo, 1.4.38 non adorar debitamente a Dio: 1.4.39 e di questi cotai son io medesmo. 1.4.40 Per tai difetti, non per altro rio, 1.4.41 semo perduti, e sol di tanto offesi 1.4.42 che sanza speme vivemo in disio». 1.4.43 Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi, 1.4.44 però che gente di molto valore 1.4.45 conobbi che 'n quel limbo eran sospesi. 1.4.46 «Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore», 1.4.47 comincia' io per volere esser certo 1.4.48 di quella fede che vince ogne errore: 1.4.49 «uscicci mai alcuno, o per suo merto 1.4.50 o per altrui, che poi fosse beato?». 1.4.51 E quei che 'ntese il mio parlar coverto, 1.4.52 rispuose: «Io era nuovo in questo stato, 1.4.53 quando ci vidi venire un possente, 1.4.54 con segno di vittoria coronato. 1.4.55 Trasseci l' ombra del primo parente, 1.4.56 d' Abèl suo figlio e quella di Noè, 1.4.57 di Möisè legista e ubidente; 1.4.58 Abraàm patrïarca e Davìd re, 1.4.59 Israèl con lo padre e co' suoi nati 1.4.60 e con Rachele, per cui tanto fé, 1.4.61 e altri molti, e feceli beati. 1.4.62 E vo' che sappi che, dinanzi ad essi, 1.4.63 spiriti umani non eran salvati». 1.4.64 Non lasciavam l' andar perch' ei dicessi, 1.4.65 ma passavam la selva tuttavia, 1.4.66 la selva, dico, di spiriti spessi. 1.4.67 Non era lunga ancor la nostra via 1.4.68 di qua dal sonno, quand' io vidi un foco 1.4.69 ch' emisperio di tenebre vincia. 1.4.70 Di lungi n' eravamo ancora un poco, 1.4.71 ma non sì ch' io non discernessi in parte 1.4.72 ch' orrevol gente possedea quel loco. 1.4.73 «O tu ch' onori scïenzïa e arte, 1.4.74 questi chi son c' hanno cotanta onranza, 1.4.75 che dal modo de li altri li diparte?». 1.4.76 E quelli a me: «L' onrata nominanza 1.4.77 che di lor suona sù ne la tua vita, 1.4.78 grazïa acquista in ciel che sì li avanza». 1.4.79 Intanto voce fu per me udita: 1.4.80 «Onorate l' altissimo poeta; 1.4.81 l' ombra sua torna, ch' era dipartita». 1.4.82 Poi che la voce fu restata e queta, 1.4.83 vidi quattro grand' ombre a noi venire: 1.4.84 sembianz' avevan né trista né lieta. 1.4.85 Lo buon maestro cominciò a dire: 1.4.86 «Mira colui con quella spada in mano, 1.4.87 che vien dinanzi ai tre sì come sire: 1.4.88 quelli è Omero poeta sovrano; 1.4.89 l' altro è Orazio satiro che vene; 1.4.90 Ovidio è 'l terzo, e l' ultimo Lucano. 1.4.91 Però che ciascun meco si convene 1.4.92 nel nome che sonò la voce sola, 1.4.93 fannomi onore, e di ciò fanno bene». 1.4.94 Così vid' i' adunar la bella scola 1.4.95 di quel segnor de l' altissimo canto 1.4.96 che sovra li altri com' aquila vola. 1.4.97 Da ch' ebber ragionato insieme alquanto, 1.4.98 volsersi a me con salutevol cenno, 1.4.99 e 'l mio maestro sorrise di tanto; 1.4.100 e più d' onore ancora assai mi fenno, 1.4.101 ch' e' sì mi fecer de la loro schiera, 1.4.102 sì ch' io fui sesto tra cotanto senno. 1.4.103 Così andammo infino a la lumera, 1.4.104 parlando cose che 'l tacere è bello, 1.4.105 sì com' era 'l parlar colà dov' era. 1.4.106 Venimmo al piè d' un nobile castello, 1.4.107 sette volte cerchiato d' alte mura, 1.4.108 difeso intorno d' un bel fiumicello. 1.4.109 Questo passammo come terra dura; 1.4.110 per sette porte intrai con questi savi: 1.4.111 giugnemmo in prato di fresca verdura. 1.4.112 Genti v' eran con occhi tardi e gravi, 1.4.113 di grande autorità ne' lor sembianti: 1.4.114 parlavan rado, con voci soavi. 1.4.115 Traemmoci così da l' un de' canti, 1.4.116 in loco aperto, luminoso e alto, 1.4.117 sì che veder si potien tutti quanti. 1.4.118 Colà diritto, sovra 'l verde smalto, 1.4.119 mi fuor mostrati li spiriti magni, 1.4.120 che del vedere in me stesso m' essalto. 1.4.121 I' vidi Eletra con molti compagni, 1.4.122 tra ' quai conobbi Ettòr ed Enea, 1.4.123 Cesare armato con li occhi grifagni. 1.4.124 Vidi Cammilla e la Pantasilea; 1.4.125 da l' altra parte vidi 'l re Latino 1.4.126 che con Lavina sua figlia sedea. 1.4.127 Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino, 1.4.128 Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia; 1.4.129 e solo, in parte, vidi 'l Saladino. 1.4.130 Poi ch' innalzai un poco più le ciglia, 1.4.131 vidi 'l maestro di color che sanno 1.4.132 seder tra filosofica famiglia. 1.4.133 Tutti lo miran, tutti onor li fanno: 1.4.134 quivi vid' ïo Socrate e Platone, 1.4.135 che 'nnanzi a li altri più presso li stanno; 1.4.136 Democrito che 'l mondo a caso pone, 1.4.137 Dïogenès, Anassagora e Tale, 1.4.138 Empedoclès, Eraclito e Zenone; 1.4.139 e vidi il buono accoglitor del quale, 1.4.140 Dïascoride dico; e vidi Orfeo, 1.4.141 Tulïo e Lino e Seneca morale; 1.4.142 Euclide geomètra e Tolomeo, 1.4.143 Ipocràte, Avicenna e Galïeno, 1.4.144 Averoìs che 'l gran comento feo. 1.4.145 Io non posso ritrar di tutti a pieno, 1.4.146 però che sì mi caccia il lungo tema, 1.4.147 che molte volte al fatto il dir vien meno. 1.4.148 La sesta compagnia in due si scema: 1.4.149 per altra via mi mena il savio duca, 1.4.150 fuor de la queta, ne l' aura che trema. 1.4.151 E vegno in parte ove non è che luca.
CANTO V
1.5.1 Così discesi del cerchio primaio 1.5.2 giù nel secondo, che men loco cinghia 1.5.3 e tanto più dolor, che punge a guaio. 1.5.4 Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: 1.5.5 essamina le colpe ne l' intrata; 1.5.6 giudica e manda secondo ch' avvinghia. 1.5.7 Dico che quando l' anima mal nata 1.5.8 li vien dinanzi, tutta si confessa; 1.5.9 e quel conoscitor de le peccata 1.5.10 vede qual loco d' inferno è da essa; 1.5.11 cignesi con la coda tante volte 1.5.12 quantunque gradi vuol che giù sia messa. 1.5.13 Sempre dinanzi a lui ne stanno molte: 1.5.14 vanno a vicenda ciascuna al giudizio, 1.5.15 dicono e odono e poi son giù volte. 1.5.16 «O tu che vieni al doloroso ospizio», 1.5.17 disse Minòs a me quando mi vide, 1.5.18 lasciando l' atto di cotanto offizio, 1.5.19 «guarda com' entri e di cui tu ti fide; 1.5.20 non t' inganni l' ampiezza de l' intrare!». 1.5.21 E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride? 1.5.22 Non impedir lo suo fatale andare: 1.5.23 vuolsi così colà dove si puote 1.5.24 ciò che si vuole, e più non dimandare». 1.5.25 Or incomincian le dolenti note 1.5.26 a farmisi sentire; or son venuto 1.5.27 là dove molto pianto mi percuote. 1.5.28 Io venni in loco d' ogne luce muto, 1.5.29 che mugghia come fa mar per tempesta, 1.5.30 se da contrari venti è combattuto. 1.5.31 La bufera infernal, che mai non resta, 1.5.32 mena li spirti con la sua rapina; 1.5.33 voltando e percotendo li molesta. 1.5.34 Quando giungon davanti a la ruina, 1.5.35 quivi le strida, il compianto, il lamento; 1.5.36 bestemmian quivi la virtù divina. 1.5.37 Intesi ch' a così fatto tormento 1.5.38 enno dannati i peccator carnali, 1.5.39 che la ragion sommettono al talento. 1.5.40 E come li stornei ne portan l' ali 1.5.41 nel freddo tempo, a schiera larga e piena, 1.5.42 così quel fiato li spiriti mali 1.5.43 di qua, di là, di giù, di sù li mena; 1.5.44 nulla speranza li conforta mai, 1.5.45 non che di posa, ma di minor pena. 1.5.46 E come i gru van cantando lor lai, 1.5.47 faccendo in aere di sé lunga riga, 1.5.48 così vid' io venir, traendo guai, 1.5.49 ombre portate da la detta briga; 1.5.50 per ch' i' dissi: «Maestro, chi son quelle 1.5.51 genti che l' aura nera sì gastiga?». 1.5.52 «La prima di color di cui novelle 1.5.53 tu vuo' saper», mi disse quelli allotta, 1.5.54 «fu imperadrice di molte favelle. 1.5.55 A vizio di lussuria fu sì rotta, 1.5.56 che libito fé licito in sua legge, 1.5.57 per tòrre il biasmo in che era condotta. 1.5.58 Ell' è Semiramìs, di cui si legge 1.5.59 che succedette a Nino e fu sua sposa: 1.5.60 tenne la terra che 'l Soldan corregge. 1.5.61 L' altra è colei che s' ancise amorosa, 1.5.62 e ruppe fede al cener di Sicheo; 1.5.63 poi è Cleopatràs lussurïosa. 1.5.64 Elena vedi, per cui tanto reo 1.5.65 tempo si volse, e vedi 'l grande Achille, 1.5.66 che con amore al fine combatteo. 1.5.67 Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille 1.5.68 ombre mostrommi e nominommi a dito, 1.5.69 ch' amor di nostra vita dipartille. 1.5.70 Poscia ch' io ebbi 'l mio dottore udito 1.5.71 nomar le donne antiche e ' cavalieri, 1.5.72 pietà mi giunse, e fui quasi smarrito. 1.5.73 I' cominciai: «Poeta, volontieri 1.5.74 parlerei a quei due che 'nsieme vanno, 1.5.75 e paion sì al vento esser leggeri». 1.5.76 Ed elli a me: «Vedrai quando saranno 1.5.77 più presso a noi; e tu allor li priega 1.5.78 per quello amor che i mena, ed ei verranno». 1.5.79 Sì tosto come il vento a noi li piega, 1.5.80 mossi la voce: «O anime affannate, 1.5.81 venite a noi parlar, s' altri nol niega!». 1.5.82 Quali colombe dal disio chiamate 1.5.83 con l' ali alzate e ferme al dolce nido 1.5.84 vegnon per l' aere, dal voler portate; 1.5.85 cotali uscir de la schiera ov' è Dido, 1.5.86 a noi venendo per l' aere maligno, 1.5.87 sì forte fu l' affettüoso grido. 1.5.88 «O animal grazïoso e benigno 1.5.89 che visitando vai per l' aere perso 1.5.90 noi che tignemmo il mondo di sanguigno, 1.5.91 se fosse amico il re de l' universo, 1.5.92 noi pregheremmo lui de la tua pace, 1.5.93 poi c' hai pietà del nostro mal perverso. 1.5.94 Di quel che udire e che parlar vi piace, 1.5.95 noi udiremo e parleremo a voi, 1.5.96 mentre che 'l vento, come fa, ci tace. 1.5.97 Siede la terra dove nata fui 1.5.98 su la marina dove 'l Po discende 1.5.99 per aver pace co' seguaci sui. 1.5.100 Amor, ch' al cor gentil ratto s' apprende, 1.5.101 prese costui de la bella persona 1.5.102 che mi fu tolta; e 'l modo ancor m' offende. 1.5.103 Amor, ch' a nullo amato amar perdona, 1.5.104 mi prese del costui piacer sì forte, 1.5.105 che, come vedi, ancor non m' abbandona. 1.5.106 Amor condusse noi ad una morte. 1.5.107 Caina attende chi a vita ci spense». 1.5.108 Queste parole da lor ci fuor porte. 1.5.109 Quand' io intesi quell' anime offense, 1.5.110 china' il viso, e tanto il tenni basso, 1.5.111 fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?». 1.5.112 Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, 1.5.113 quanti dolci pensier, quanto disio 1.5.114 menò costoro al doloroso passo!». 1.5.115 Poi mi rivolsi a loro e parla' io, 1.5.116 e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri 1.5.117 a lagrimar mi fanno tristo e pio. 1.5.118 Ma dimmi: al tempo d' i dolci sospiri, 1.5.119 a che e come concedette amore 1.5.120 che conosceste i dubbiosi disiri?». 1.5.121 E quella a me: «Nessun maggior dolore 1.5.122 che ricordarsi del tempo felice 1.5.123 ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore. 1.5.124 Ma s' a conoscer la prima radice 1.5.125 del nostro amor tu hai cotanto affetto, 1.5.126 dirò come colui che piange e dice. 1.5.127 Noi leggiavamo un giorno per diletto 1.5.128 di Lancialotto come amor lo strinse; 1.5.129 soli eravamo e sanza alcun sospetto. 1.5.130 Per più fïate li occhi ci sospinse 1.5.131 quella lettura, e scolorocci il viso; 1.5.132 ma solo un punto fu quel che ci vinse. 1.5.133 Quando leggemmo il disïato riso 1.5.134 esser basciato da cotanto amante, 1.5.135 questi, che mai da me non fia diviso, 1.5.136 la bocca mi basciò tutto tremante. 1.5.137 Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse: 1.5.138 quel giorno più non vi leggemmo avante». 1.5.139 Mentre che l' uno spirto questo disse, 1.5.140 l' altro piangëa; sì che di pietade 1.5.141 io venni men così com' io morisse. 1.5.142 E caddi come corpo morto cade.
CANTO VI
1.6.1 Al tornar de la mente, che si chiuse 1.6.2 dinanzi a la pietà d' i due cognati, 1.6.3 che di trestizia tutto mi confuse, 1.6.4 novi tormenti e novi tormentati 1.6.5 mi veggio intorno, come ch' io mi mova 1.6.6 e ch' io mi volga, e come che io guati. 1.6.7 Io sono al terzo cerchio, de la piova 1.6.8 etterna, maladetta, fredda e greve; 1.6.9 regola e qualità mai non l' è nova. 1.6.10 Grandine grossa, acqua tinta e neve 1.6.11 per l' aere tenebroso si riversa; 1.6.12 pute la terra che questo riceve. 1.6.13 Cerbero, fiera crudele e diversa, 1.6.14 con tre gole caninamente latra 1.6.15 sovra la gente che quivi è sommersa. 1.6.16 Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, 1.6.17 e 'l ventre largo, e unghiate le mani; 1.6.18 graffia li spirti ed iscoia ed isquatra. 1.6.19 Urlar li fa la pioggia come cani; 1.6.20 de l' un de' lati fanno a l' altro schermo; 1.6.21 volgonsi spesso i miseri profani. 1.6.22 Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, 1.6.23 le bocche aperse e mostrocci le sanne; 1.6.24 non avea membro che tenesse fermo. 1.6.25 E 'l duca mio distese le sue spanne, 1.6.26 prese la terra, e con piene le pugna 1.6.27 la gittò dentro a le bramose canne. 1.6.28 Qual è quel cane ch' abbaiando agogna, 1.6.29 e si racqueta poi che 'l pasto morde, 1.6.30 ché solo a divorarlo intende e pugna, 1.6.31 cotai si fecer quelle facce lorde 1.6.32 de lo demonio Cerbero, che 'ntrona 1.6.33 l' anime sì, ch' esser vorrebber sorde. 1.6.34 Noi passavam su per l' ombre che adona 1.6.35 la greve pioggia, e ponavam le piante 1.6.36 sovra lor vanità che par persona. 1.6.37 Elle giacean per terra tutte quante, 1.6.38 fuor d' una ch' a seder si levò, ratto 1.6.39 ch' ella ci vide passarsi davante. 1.6.40 «O tu che se' per questo 'nferno tratto», 1.6.41 mi disse, «riconoscimi, se sai: 1.6.42 tu fosti, prima ch' io disfatto, fatto». 1.6.43 E io a lui: «L' angoscia che tu hai 1.6.44 forse ti tira fuor de la mia mente, 1.6.45 sì che non par ch' i' ti vedessi mai. 1.6.46 Ma dimmi chi tu se' che 'n sì dolente 1.6.47 loco se' messo, e hai sì fatta pena, 1.6.48 che, s' altra è maggio, nulla è sì spiacente». 1.6.49 Ed elli a me: «La tua città, ch' è piena 1.6.50 d' invidia sì che già trabocca il sacco, 1.6.51 seco mi tenne in la vita serena. 1.6.52 Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: 1.6.53 per la dannosa colpa de la gola, 1.6.54 come tu vedi, a la pioggia mi fiacco. 1.6.55 E io anima trista non son sola, 1.6.56 ché tutte queste a simil pena stanno 1.6.57 per simil colpa». E più non fé parola. 1.6.58 Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno 1.6.59 mi pesa sì, ch' a lagrimar mi 'nvita; 1.6.60 ma dimmi, se tu sai, a che verranno 1.6.61 li cittadin de la città partita; 1.6.62 s' alcun v' è giusto; e dimmi la cagione 1.6.63 per che l' ha tanta discordia assalita». 1.6.64 E quelli a me: «Dopo lunga tencione 1.6.65 verranno al sangue, e la parte selvaggia 1.6.66 caccerà l' altra con molta offensione. 1.6.67 Poi appresso convien che questa caggia 1.6.68 infra tre soli, e che l' altra sormonti 1.6.69 con la forza di tal che testé piaggia. 1.6.70 Alte terrà lungo tempo le fronti, 1.6.71 tenendo l' altra sotto gravi pesi, 1.6.72 come che di ciò pianga o che n' aonti. 1.6.73 Giusti son due, e non vi sono intesi; 1.6.74 superbia, invidia e avarizia sono 1.6.75 le tre faville c' hanno i cuori accesi». 1.6.76 Qui puose fine al lagrimabil suono. 1.6.77 E io a lui: «Ancor vo' che mi 'nsegni 1.6.78 e che di più parlar mi facci dono. 1.6.79 Farinata e 'l Tegghiaio, che fuor sì degni, 1.6.80 Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca 1.6.81 e li altri ch' a ben far puoser li 'ngegni, 1.6.82 dimmi ove sono e fa ch' io li conosca; 1.6.83 ché gran disio mi stringe di savere 1.6.84 se 'l ciel li addolcia o lo 'nferno li attosca». 1.6.85 E quelli: «Ei son tra l' anime più nere; 1.6.86 diverse colpe giù li grava al fondo: 1.6.87 se tanto scendi, là i potrai vedere. 1.6.88 Ma quando tu sarai nel dolce mondo, 1.6.89 priegoti ch' a la mente altrui mi rechi: 1.6.90 più non ti dico e più non ti rispondo». 1.6.91 Li diritti occhi torse allora in biechi; 1.6.92 guardommi un poco e poi chinò la testa: 1.6.93 cadde con essa a par de li altri ciechi. 1.6.94 E 'l duca disse a me: «Più non si desta 1.6.95 di qua dal suon de l' angelica tromba, 1.6.96 quando verrà la nimica podesta: 1.6.97 ciascun rivederà la trista tomba, 1.6.98 ripiglierà sua carne e sua figura, 1.6.99 udirà quel ch' in etterno rimbomba». 1.6.100 Sì trapassammo per sozza mistura 1.6.101 de l' ombre e de la pioggia, a passi lenti, 1.6.102 toccando un poco la vita futura; 1.6.103 per ch' io dissi: «Maestro, esti tormenti 1.6.104 crescerann' ei dopo la gran sentenza, 1.6.105 o fier minori, o saran sì cocenti?». 1.6.106 Ed elli a me: «Ritorna a tua scïenza, 1.6.107 che vuol, quanto la cosa è più perfetta, 1.6.108 più senta il bene, e così la doglienza. 1.6.109 Tutto che questa gente maladetta 1.6.110 in vera perfezion già mai non vada, 1.6.111 di là più che di qua essere aspetta». 1.6.112 Noi aggirammo a tondo quella strada, 1.6.113 parlando più assai ch' i' non ridico; 1.6.114 venimmo al punto dove si digrada: 1.6.115 quivi trovammo Pluto, il gran nemico.
CANTO VII
1.7.1 «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!», 1.7.2 cominciò Pluto con la voce chioccia; 1.7.3 e quel savio gentil, che tutto seppe, 1.7.4 disse per confortarmi: «Non ti noccia 1.7.5 la tua paura; ché, poder ch' elli abbia, 1.7.6 non ci torrà lo scender questa roccia». 1.7.7 Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia, 1.7.8 e disse: «Taci, maladetto lupo! 1.7.9 consuma dentro te con la tua rabbia. 1.7.10 Non è sanza cagion l' andare al cupo: 1.7.11 vuolsi ne l' alto, là dove Michele 1.7.12 fé la vendetta del superbo strupo». 1.7.13 Quali dal vento le gonfiate vele 1.7.14 caggiono avvolte, poi che l' alber fiacca, 1.7.15 tal cadde a terra la fiera crudele. 1.7.16 Così scendemmo ne la quarta lacca, 1.7.17 pigliando più de la dolente ripa 1.7.18 che 'l mal de l' universo tutto insacca. 1.7.19 Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa 1.7.20 nove travaglie e pene quant' io viddi? 1.7.21 e perché nostra colpa sì ne scipa? 1.7.22 Come fa l' onda là sovra Cariddi, 1.7.23 che si frange con quella in cui s' intoppa, 1.7.24 così convien che qui la gente riddi. 1.7.25 Qui vid' i' gente più ch' altrove troppa, 1.7.26 e d' una parte e d' altra, con grand' urli, 1.7.27 voltando pesi per forza di poppa. 1.7.28 Percotëansi 'ncontro; e poscia pur lì 1.7.29 si rivolgea ciascun, voltando a retro, 1.7.30 gridando: «Perché tieni?»e «Perché burli?». 1.7.31 Così tornavan per lo cerchio tetro 1.7.32 da ogne mano a l' opposito punto, 1.7.33 gridandosi anche loro ontoso metro; 1.7.34 poi si volgea ciascun, quand' era giunto, 1.7.35 per lo suo mezzo cerchio a l' altra giostra. 1.7.36 E io, ch' avea lo cor quasi compunto, 1.7.37 dissi: «Maestro mio, or mi dimostra 1.7.38 che gente è questa, e se tutti fuor cherci 1.7.39 questi chercuti a la sinistra nostra». 1.7.40 Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci 1.7.41 sì de la mente in la vita primaia, 1.7.42 che con misura nullo spendio ferci. 1.7.43 Assai la voce lor chiaro l' abbaia, 1.7.44 quando vegnono a' due punti del cerchio 1.7.45 dove colpa contraria li dispaia. 1.7.46 Questi fuor cherci, che non han coperchio 1.7.47 piloso al capo, e papi e cardinali, 1.7.48 in cui usa avarizia il suo soperchio». 1.7.49 E io: «Maestro, tra questi cotali 1.7.50 dovre' io ben riconoscere alcuni 1.7.51 che furo immondi di cotesti mali». 1.7.52 Ed elli a me: «Vano pensiero aduni: 1.7.53 la sconoscente vita che i fé sozzi, 1.7.54 ad ogne conoscenza or li fa bruni. 1.7.55 In etterno verranno a li due cozzi: 1.7.56 questi resurgeranno del sepulcro 1.7.57 col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi. 1.7.58 Mal dare e mal tener lo mondo pulcro 1.7.59 ha tolto loro, e posti a questa zuffa: 1.7.60 qual ella sia, parole non ci appulcro. 1.7.61 Or puoi, figliuol, veder la corta buffa 1.7.62 d' i ben che son commessi a la fortuna, 1.7.63 per che l' umana gente si rabuffa; 1.7.64 ché tutto l' oro ch' è sotto la luna 1.7.65 e che già fu, di quest' anime stanche 1.7.66 non poterebbe farne posare una». 1.7.67 «Maestro mio», diss' io, «or mi dì anche: 1.7.68 questa fortuna di che tu mi tocche, 1.7.69 che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?». 1.7.70 E quelli a me: «Oh creature sciocche, 1.7.71 quanta ignoranza è quella che v' offende! 1.7.72 Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche. 1.7.73 Colui lo cui saver tutto trascende, 1.7.74 fece li cieli e diè lor chi conduce 1.7.75 sì, ch' ogne parte ad ogne parte splende, 1.7.76 distribuendo igualmente la luce. 1.7.77 Similemente a li splendor mondani 1.7.78 ordinò general ministra e duce 1.7.79 che permutasse a tempo li ben vani 1.7.80 di gente in gente e d' uno in altro sangue, 1.7.81 oltre la difension d' i senni umani; 1.7.82 per ch' una gente impera e l' altra langue, 1.7.83 seguendo lo giudicio di costei, 1.7.84 che è occulto come in erba l' angue. 1.7.85 Vostro saver non ha contasto a lei: 1.7.86 questa provede, giudica, e persegue 1.7.87 suo regno come il loro li altri dèi. 1.7.88 Le sue permutazion non hanno triegue: 1.7.89 necessità la fa esser veloce; 1.7.90 sì spesso vien chi vicenda consegue. 1.7.91 Quest' è colei ch' è tanto posta in croce 1.7.92 pur da color che le dovrien dar lode, 1.7.93 dandole biasmo a torto e mala voce; 1.7.94 ma ella s' è beata e ciò non ode: 1.7.95 con l' altre prime creature lieta 1.7.96 volve sua spera e beata si gode. 1.7.97 Or discendiamo omai a maggior pieta; 1.7.98 già ogne stella cade che saliva 1.7.99 quand' io mi mossi, e 'l troppo star si vieta». 1.7.100 Noi ricidemmo il cerchio a l' altra riva 1.7.101 sovr' una fonte che bolle e riversa 1.7.102 per un fossato che da lei deriva. 1.7.103 L' acqua era buia assai più che persa; 1.7.104 e noi, in compagnia de l' onde bige, 1.7.105 intrammo giù per una via diversa. 1.7.106 In la palude va c' ha nome Stige 1.7.107 questo tristo ruscel, quand' è disceso 1.7.108 al piè de le maligne piagge grige. 1.7.109 E io, che di mirare stava inteso, 1.7.110 vidi genti fangose in quel pantano, 1.7.111 ignude tutte, con sembiante offeso. 1.7.112 Queste si percotean non pur con mano, 1.7.113 ma con la testa e col petto e coi piedi, 1.7.114 troncandosi co' denti a brano a brano. 1.7.115 Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi 1.7.116 l' anime di color cui vinse l' ira; 1.7.117 e anche vo' che tu per certo credi 1.7.118 che sotto l' acqua è gente che sospira, 1.7.119 e fanno pullular quest' acqua al summo, 1.7.120 come l' occhio ti dice, u' che s' aggira. 1.7.121 Fitti nel limo dicon: "Tristi fummo 1.7.122 ne l' aere dolce che dal sol s' allegra, 1.7.123 portando dentro accidïoso fummo: 1.7.124 or ci attristiam ne la belletta negra". 1.7.125 Quest' inno si gorgoglian ne la strozza, 1.7.126 ché dir nol posson con parola integra». 1.7.127 Così girammo de la lorda pozza 1.7.128 grand' arco, tra la ripa secca e 'l mézzo, 1.7.129 con li occhi vòlti a chi del fango ingozza. 1.7.130 Venimmo al piè d' una torre al da sezzo.
CANTO VIII
1.8.1 Io dico, seguitando, ch' assai prima 1.8.2 che noi fossimo al piè de l' alta torre, 1.8.3 li occhi nostri n' andar suso a la cima 1.8.4 per due fiammette che i vedemmo porre, 1.8.5 e un' altra da lungi render cenno, 1.8.6 tanto ch' a pena il potea l' occhio tòrre. 1.8.7 E io mi volsi al mar di tutto 'l senno; 1.8.8 dissi: «Questo che dice? e che risponde 1.8.9 quell' altro foco? e chi son quei che 'l fenno?». 1.8.10 Ed elli a me: «Su per le sucide onde 1.8.11 già scorgere puoi quello che s' aspetta, 1.8.12 se 'l fummo del pantan nol ti nasconde». 1.8.13 Corda non pinse mai da sé saetta 1.8.14 che sì corresse via per l' aere snella, 1.8.15 com' io vidi una nave piccioletta 1.8.16 venir per l' acqua verso noi in quella, 1.8.17 sotto 'l governo d' un sol galeoto, 1.8.18 che gridava: «Or se' giunta, anima fella!». 1.8.19 «Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto», 1.8.20 disse lo mio segnore, «a questa volta: 1.8.21 più non ci avrai che sol passando il loto». 1.8.22 Qual è colui che grande inganno ascolta 1.8.23 che li sia fatto, e poi se ne rammarca, 1.8.24 fecesi Flegïàs ne l' ira accolta. 1.8.25 Lo duca mio discese ne la barca, 1.8.26 e poi mi fece intrare appresso lui; 1.8.27 e sol quand' io fui dentro parve carca. 1.8.28 Tosto che 'l duca e io nel legno fui, 1.8.29 segando se ne va l' antica prora 1.8.30 de l' acqua più che non suol con altrui. 1.8.31 Mentre noi corravam la morta gora, 1.8.32 dinanzi mi si fece un pien di fango, 1.8.33 e disse: «Chi se' tu che vieni anzi ora?». 1.8.34 E io a lui: «S' i' vegno, non rimango; 1.8.35 ma tu chi se', che sì se' fatto brutto?». 1.8.36 Rispuose: «Vedi che son un che piango». 1.8.37 E io a lui: «Con piangere e con lutto, 1.8.38 spirito maladetto, ti rimani; 1.8.39 ch' i' ti conosco, ancor sie lordo tutto». 1.8.40 Allor distese al legno ambo le mani; 1.8.41 per che 'l maestro accorto lo sospinse, 1.8.42 dicendo: «Via costà con li altri cani!». 1.8.43 Lo collo poi con le braccia mi cinse; 1.8.44 basciommi 'l volto e disse: «Alma sdegnosa, 1.8.45 benedetta colei che 'n te s' incinse! 1.8.46 Quei fu al mondo persona orgogliosa; 1.8.47 bontà non è che sua memoria fregi: 1.8.48 così s' è l' ombra sua qui furïosa. 1.8.49 Quanti si tegnon or là sù gran regi 1.8.50 che qui staranno come porci in brago, 1.8.51 di sé lasciando orribili dispregi!». 1.8.52 E io: «Maestro, molto sarei vago 1.8.53 di vederlo attuffare in questa broda 1.8.54 prima che noi uscissimo del lago». 1.8.55 Ed elli a me: «Avante che la proda 1.8.56 ti si lasci veder, tu sarai sazio: 1.8.57 di tal disïo convien che tu goda». 1.8.58 Dopo ciò poco vid' io quello strazio 1.8.59 far di costui a le fangose genti, 1.8.60 che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. 1.8.61 Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»; 1.8.62 e 'l fiorentino spirito bizzarro 1.8.63 in sé medesmo si volvea co' denti. 1.8.64 Quivi il lasciammo, che più non ne narro; 1.8.65 ma ne l' orecchie mi percosse un duolo, 1.8.66 per ch' io avante l' occhio intento sbarro. 1.8.67 Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo, 1.8.68 s' appressa la città c' ha nome Dite, 1.8.69 coi gravi cittadin, col grande stuolo». 1.8.70 E io: «Maestro, già le sue meschite 1.8.71 là entro certe ne la valle cerno, 1.8.72 vermiglie come se di foco uscite 1.8.73 fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno 1.8.74 ch' entro l' affoca le dimostra rosse, 1.8.75 come tu vedi in questo basso inferno». 1.8.76 Noi pur giugnemmo dentro a l' alte fosse 1.8.77 che vallan quella terra sconsolata: 1.8.78 le mura mi parean che ferro fosse. 1.8.79 Non sanza prima far grande aggirata, 1.8.80 venimmo in parte dove il nocchier forte 1.8.81 «Usciteci», gridò: «qui è l' intrata». 1.8.82 Io vidi più di mille in su le porte 1.8.83 da ciel piovuti, che stizzosamente 1.8.84 dicean: «Chi è costui che sanza morte 1.8.85 va per lo regno de la morta gente?». 1.8.86 E 'l savio mio maestro fece segno 1.8.87 di voler lor parlar segretamente. 1.8.88 Allor chiusero un poco il gran disdegno 1.8.89 e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada 1.8.90 che sì ardito intrò per questo regno. 1.8.91 Sol si ritorni per la folle strada: 1.8.92 pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai, 1.8.93 che li ha' iscorta sì buia contrada». 1.8.94 Pensa, lettor, se io mi sconfortai 1.8.95 nel suon de le parole maladette, 1.8.96 ché non credetti ritornarci mai. 1.8.97 «O caro duca mio, che più di sette 1.8.98 volte m' hai sicurtà renduta e tratto 1.8.99 d' alto periglio che 'ncontra mi stette, 1.8.100 non mi lasciar», diss' io, «così disfatto; 1.8.101 e se 'l passar più oltre ci è negato, 1.8.102 ritroviam l' orme nostre insieme ratto». 1.8.103 E quel segnor che lì m' avea menato, 1.8.104 mi disse: «Non temer; ché 'l nostro passo 1.8.105 non ci può tòrre alcun: da tal n' è dato. 1.8.106 Ma qui m' attendi, e lo spirito lasso 1.8.107 conforta e ciba di speranza buona, 1.8.108 ch' i' non ti lascerò nel mondo basso». 1.8.109 Così sen va, e quivi m' abbandona 1.8.110 lo dolce padre, e io rimagno in forse, 1.8.111 che sì e no nel capo mi tenciona. 1.8.112 Udir non potti quello ch' a lor porse; 1.8.113 ma ei non stette là con essi guari, 1.8.114 che ciascun dentro a pruova si ricorse. 1.8.115 Chiuser le porte que' nostri avversari 1.8.116 nel petto al mio segnor, che fuor rimase 1.8.117 e rivolsesi a me con passi rari. 1.8.118 Li occhi a la terra e le ciglia avea rase 1.8.119 d' ogne baldanza, e dicea ne' sospiri: 1.8.120 «Chi m' ha negate le dolenti case!». 1.8.121 E a me disse: «Tu, perch' io m' adiri, 1.8.122 non sbigottir, ch' io vincerò la prova, 1.8.123 qual ch' a la difension dentro s' aggiri. 1.8.124 Questa lor tracotanza non è nova; 1.8.125 ché già l' usaro a men segreta porta, 1.8.126 la qual sanza serrame ancor si trova. 1.8.127 Sovr' essa vedestù la scritta morta: 1.8.128 e già di qua da lei discende l' erta, 1.8.129 passando per li cerchi sanza scorta, 1.8.130 tal che per lui ne fia la terra aperta».
CANTO IX
1.9.1 Quel color che viltà di fuor mi pinse 1.9.2 veggendo il duca mio tornare in volta, 1.9.3 più tosto dentro il suo novo ristrinse. 1.9.4 Attento si fermò com' uom ch' ascolta; 1.9.5 ché l' occhio nol potea menare a lunga 1.9.6 per l' aere nero e per la nebbia folta. 1.9.7 «Pur a noi converrà vincer la punga», 1.9.8 cominciò el, «se non... Tal ne s' offerse. 1.9.9 Oh quanto tarda a me ch' altri qui giunga!». 1.9.10 I' vidi ben sì com' ei ricoperse 1.9.11 lo cominciar con l' altro che poi venne, 1.9.12 che fur parole a le prime diverse; 1.9.13 ma nondimen paura il suo dir dienne, 1.9.14 perch' io traeva la parola tronca 1.9.15 forse a peggior sentenzia che non tenne. 1.9.16 «In questo fondo de la trista conca 1.9.17 discende mai alcun del primo grado, 1.9.18 che sol per pena ha la speranza cionca?». 1.9.19 Questa question fec' io; e quei «Di rado 1.9.20 incontra», mi rispuose, «che di noi 1.9.21 faccia il cammino alcun per qual io vado. 1.9.22 Ver è ch' altra fïata qua giù fui, 1.9.23 congiurato da quella Eritón cruda 1.9.24 che richiamava l' ombre a' corpi sui. 1.9.25 Di poco era di me la carne nuda, 1.9.26 ch' ella mi fece intrar dentr' a quel muro, 1.9.27 per trarne un spirto del cerchio di Giuda. 1.9.28 Quell' è 'l più basso loco e 'l più oscuro, 1.9.29 e 'l più lontan dal ciel che tutto gira: 1.9.30 ben so 'l cammin; però ti fa sicuro. 1.9.31 Questa palude che 'l gran puzzo spira 1.9.32 cigne dintorno la città dolente, 1.9.33 u' non potemo intrare omai sanz' ira». 1.9.34 E altro disse, ma non l' ho a mente; 1.9.35 però che l' occhio m' avea tutto tratto 1.9.36 ver' l' alta torre a la cima rovente, 1.9.37 dove in un punto furon dritte ratto 1.9.38 tre furïe infernal di sangue tinte, 1.9.39 che membra feminine avieno e atto, 1.9.40 e con idre verdissime eran cinte; 1.9.41 serpentelli e ceraste avien per crine, 1.9.42 onde le fiere tempie erano avvinte. 1.9.43 E quei, che ben conobbe le meschine 1.9.44 de la regina de l' etterno pianto, 1.9.45 «Guarda», mi disse, «le feroci Erine. 1.9.46 Quest' è Megera dal sinistro canto; 1.9.47 quella che piange dal destro è Aletto; 1.9.48 Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto. 1.9.49 Con l' unghie si fendea ciascuna il petto; 1.9.50 battiensi a palme e gridavan sì alto, 1.9.51 ch' i' mi strinsi al poeta per sospetto. 1.9.52 «Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto», 1.9.53 dicevan tutte riguardando in giuso; 1.9.54 «mal non vengiammo in Tesëo l' assalto». 1.9.55 «Volgiti 'n dietro e tien lo viso chiuso; 1.9.56 ché se 'l Gorgón si mostra e tu 'l vedessi, 1.9.57 nulla sarebbe di tornar mai suso». 1.9.58 Così disse 'l maestro; ed elli stessi 1.9.59 mi volse, e non si tenne a le mie mani, 1.9.60 che con le sue ancor non mi chiudessi. 1.9.61 O voi ch' avete li 'ntelletti sani, 1.9.62 mirate la dottrina che s' asconde 1.9.63 sotto 'l velame de li versi strani. 1.9.64 E già venìa su per le torbide onde 1.9.65 un fracasso d' un suon, pien di spavento, 1.9.66 per cui tremavano amendue le sponde, 1.9.67 non altrimenti fatto che d' un vento 1.9.68 impetüoso per li avversi ardori, 1.9.69 che fier la selva e sanz' alcun rattento 1.9.70 li rami schianta, abbatte e porta fori; 1.9.71 dinanzi polveroso va superbo, 1.9.72 e fa fuggir le fiere e li pastori. 1.9.73 Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo 1.9.74 del viso su per quella schiuma antica 1.9.75 per indi ove quel fummo è più acerbo». 1.9.76 Come le rane innanzi a la nimica 1.9.77 biscia per l' acqua si dileguan tutte, 1.9.78 fin ch' a la terra ciascuna s' abbica, 1.9.79 vid' io più di mille anime distrutte 1.9.80 fuggir così dinanzi ad un ch' al passo 1.9.81 passava Stige con le piante asciutte. 1.9.82 Dal volto rimovea quell' aere grasso, 1.9.83 menando la sinistra innanzi spesso; 1.9.84 e sol di quell' angoscia parea lasso. 1.9.85 Ben m' accorsi ch' elli era da ciel messo, 1.9.86 e volsimi al maestro; e quei fé segno 1.9.87 ch' i' stessi queto ed inchinassi ad esso. 1.9.88 Ahi quanto mi parea pien di disdegno! 1.9.89 Venne a la porta e con una verghetta 1.9.90 l' aperse, che non v' ebbe alcun ritegno. 1.9.91 «O cacciati del ciel, gente dispetta», 1.9.92 cominciò elli in su l' orribil soglia, 1.9.93 «ond' esta oltracotanza in voi s' alletta? 1.9.94 Perché recalcitrate a quella voglia 1.9.95 a cui non puote il fin mai esser mozzo, 1.9.96 e che più volte v' ha cresciuta doglia? 1.9.97 Che giova ne le fata dar di cozzo? 1.9.98 Cerbero vostro, se ben vi ricorda, 1.9.99 ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo». 1.9.100 Poi si rivolse per la strada lorda, 1.9.101 e non fé motto a noi, ma fé sembiante 1.9.102 d' omo cui altra cura stringa e morda 1.9.103 che quella di colui che li è davante; 1.9.104 e noi movemmo i piedi inver' la terra, 1.9.105 sicuri appresso le parole sante. 1.9.106 Dentro li 'ntrammo sanz' alcuna guerra; 1.9.107 e io, ch' avea di riguardar disio 1.9.108 la condizion che tal fortezza serra, 1.9.109 com' io fui dentro, l' occhio intorno invio: 1.9.110 e veggio ad ogne man grande campagna, 1.9.111 piena di duolo e di tormento rio. 1.9.112 Sì come ad Arli, ove Rodano stagna, 1.9.113 sì com' a Pola, presso del Carnaro 1.9.114 ch' Italia chiude e suoi termini bagna, 1.9.115 fanno i sepulcri tutt' il loco varo, 1.9.116 così facevan quivi d' ogne parte, 1.9.117 salvo che 'l modo v' era più amaro; 1.9.118 ché tra li avelli fiamme erano sparte, 1.9.119 per le quali eran sì del tutto accesi, 1.9.120 che ferro più non chiede verun' arte. 1.9.121 Tutti li lor coperchi eran sospesi, 1.9.122 e fuor n' uscivan sì duri lamenti, 1.9.123 che ben parean di miseri e d' offesi. 1.9.124 E io: «Maestro, quai son quelle genti 1.9.125 che, seppellite dentro da quell' arche, 1.9.126 si fan sentir coi sospiri dolenti?». 1.9.127 E quelli a me: «Qui son li eresïarche 1.9.128 con lor seguaci, d' ogne setta, e molto 1.9.129 più che non credi son le tombe carche. 1.9.130 Simile qui con simile è sepolto, 1.9.131 e i monimenti son più e men caldi». 1.9.132 E poi ch' a la man destra si fu vòlto, 1.9.133 passammo tra i martìri e li alti spaldi.
CANTO X
1.10.1 Ora sen va per un secreto calle, 1.10.2 tra 'l muro de la terra e li martìri, 1.10.3 lo mio maestro, e io dopo le spalle. 1.10.4 «O virtù somma, che per li empi giri 1.10.5 mi volvi», cominciai, «com' a te piace, 1.10.6 parlami, e sodisfammi a' miei disiri. 1.10.7 La gente che per li sepolcri giace 1.10.8 potrebbesi veder? già son levati 1.10.9 tutt' i coperchi, e nessun guardia face». 1.10.10 E quelli a me: «Tutti saran serrati 1.10.11 quando di Iosafàt qui torneranno 1.10.12 coi corpi che là sù hanno lasciati. 1.10.13 Suo cimitero da questa parte hanno 1.10.14 con Epicuro tutti suoi seguaci, 1.10.15 che l' anima col corpo morta fanno. 1.10.16 Però a la dimanda che mi faci 1.10.17 quinc' entro satisfatto sarà tosto, 1.10.18 e al disio ancor che tu mi taci». 1.10.19 E io: «Buon duca, non tegno riposto 1.10.20 a te mio cuor se non per dicer poco, 1.10.21 e tu m' hai non pur mo a ciò disposto». 1.10.22 «O Tosco che per la città del foco 1.10.23 vivo ten vai così parlando onesto, 1.10.24 piacciati di restare in questo loco. 1.10.25 La tua loquela ti fa manifesto 1.10.26 di quella nobil patrïa natio, 1.10.27 a la qual forse fui troppo molesto». 1.10.28 Subitamente questo suono uscìo 1.10.29 d' una de l' arche; però m' accostai, 1.10.30 temendo, un poco più al duca mio. 1.10.31 Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai? 1.10.32 Vedi là Farinata che s' è dritto: 1.10.33 da la cintola in sù tutto 'l vedrai». 1.10.34 Io avea già il mio viso nel suo fitto; 1.10.35 ed el s' ergea col petto e con la fronte 1.10.36 com' avesse l' inferno a gran dispitto. 1.10.37 E l' animose man del duca e pronte 1.10.38 mi pinser tra le sepulture a lui, 1.10.39 dicendo: «Le parole tue sien conte». 1.10.40 Com' io al piè de la sua tomba fui, 1.10.41 guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, 1.10.42 mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?». 1.10.43 Io ch' era d' ubidir disideroso, 1.10.44 non gliel celai, ma tutto gliel' apersi; 1.10.45 ond' ei levò le ciglia un poco in suso; 1.10.46 poi disse: «Fieramente furo avversi 1.10.47 a me e a miei primi e a mia parte, 1.10.48 sì che per due fïate li dispersi». 1.10.49 «S' ei fur cacciati, ei tornar d' ogne parte», 1.10.50 rispuos' io lui, «l' una e l' altra fïata; 1.10.51 ma i vostri non appreser ben quell' arte». 1.10.52 Allor surse a la vista scoperchiata 1.10.53 un' ombra, lungo questa, infino al mento: 1.10.54 credo che s' era in ginocchie levata. 1.10.55 Dintorno mi guardò, come talento 1.10.56 avesse di veder s' altri era meco; 1.10.57 e poi che 'l sospecciar fu tutto spento, 1.10.58 piangendo disse: «Se per questo cieco 1.10.59 carcere vai per altezza d' ingegno, 1.10.60 mio figlio ov' è? e perché non è teco?». 1.10.61 E io a lui: «Da me stesso non vegno: 1.10.62 colui ch' attende là, per qui mi mena 1.10.63 forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». 1.10.64 Le sue parole e 'l modo de la pena 1.10.65 m' avean di costui già letto il nome; 1.10.66 però fu la risposta così piena. 1.10.67 Di sùbito drizzato gridò: «Come? 1.10.68 dicesti "elli ebbe"? non viv' elli ancora? 1.10.69 non fiere li occhi suoi lo dolce lume?». 1.10.70 Quando s' accorse d' alcuna dimora 1.10.71 ch' io facëa dinanzi a la risposta, 1.10.72 supin ricadde e più non parve fora. 1.10.73 Ma quell' altro magnanimo, a cui posta 1.10.74 restato m' era, non mutò aspetto, 1.10.75 né mosse collo, né piegò sua costa; 1.10.76 e sé continüando al primo detto, 1.10.77 «S' elli han quell' arte», disse, «male appresa, 1.10.78 ciò mi tormenta più che questo letto. 1.10.79 Ma non cinquanta volte fia raccesa 1.10.80 la faccia de la donna che qui regge, 1.10.81 che tu saprai quanto quell' arte pesa. 1.10.82 E se tu mai nel dolce mondo regge, 1.10.83 dimmi: perché quel popolo è sì empio 1.10.84 incontr' a' miei in ciascuna sua legge?». 1.10.85 Ond' io a lui: «Lo strazio e 'l grande scempio 1.10.86 che fece l' Arbia colorata in rosso, 1.10.87 tal orazion fa far nel nostro tempio». 1.10.88 Poi ch' ebbe sospirando il capo mosso, 1.10.89 «A ciò non fu' io sol», disse, «né certo 1.10.90 sanza cagion con li altri sarei mosso. 1.10.91 Ma fu' io solo, là dove sofferto 1.10.92 fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, 1.10.93 colui che la difesi a viso aperto». 1.10.94 «Deh, se riposi mai vostra semenza», 1.10.95 prega' io lui, «solvetemi quel nodo 1.10.96 che qui ha 'nviluppata mia sentenza. 1.10.97 El par che voi veggiate, se ben odo, 1.10.98 dinanzi quel che 'l tempo seco adduce, 1.10.99 e nel presente tenete altro modo». 1.10.100 «Noi veggiam, come quei c' ha mala luce, 1.10.101 le cose», disse, «che ne son lontano; 1.10.102 cotanto ancor ne splende il sommo duce. 1.10.103 Quando s' appressano o son, tutto è vano 1.10.104 nostro intelletto; e s' altri non ci apporta, 1.10.105 nulla sapem di vostro stato umano. 1.10.106 Però comprender puoi che tutta morta 1.10.107 fia nostra conoscenza da quel punto 1.10.108 che del futuro fia chiusa la porta». 1.10.109 Allor, come di mia colpa compunto, 1.10.110 dissi: «Or direte dunque a quel caduto 1.10.111 che 'l suo nato è co' vivi ancor congiunto; 1.10.112 e s' i' fui, dianzi, a la risposta muto, 1.10.113 fate i saper che 'l fei perché pensava 1.10.114 già ne l' error che m' avete soluto». 1.10.115 E già 'l maestro mio mi richiamava; 1.10.116 per ch' i' pregai lo spirto più avaccio 1.10.117 che mi dicesse chi con lu' istava. 1.10.118 Dissemi: «Qui con più di mille giaccio: 1.10.119 qua dentro è 'l secondo Federico 1.10.120 e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio». 1.10.121 Indi s' ascose; e io inver' l' antico 1.10.122 poeta volsi i passi, ripensando 1.10.123 a quel parlar che mi parea nemico. 1.10.124 Elli si mosse; e poi, così andando, 1.10.125 mi disse: «Perché se' tu sì smarrito?». 1.10.126 E io li sodisfeci al suo dimando. 1.10.127 «La mente tua conservi quel ch' udito 1.10.128 hai contra te», mi comandò quel saggio; 1.10.129 «e ora attendi qui», e drizzò 'l dito: 1.10.130 «quando sarai dinanzi al dolce raggio 1.10.131 di quella il cui bell' occhio tutto vede, 1.10.132 da lei saprai di tua vita il vïaggio». 1.10.133 Appresso mosse a man sinistra il piede: 1.10.134 lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo 1.10.135 per un sentier ch' a una valle fiede, 1.10.136 che 'nfin là sù facea spiacer suo lezzo.
CANTO XI
1.11.1 In su l' estremità d' un' alta ripa 1.11.2 che facevan gran pietre rotte in cerchio, 1.11.3 venimmo sopra più crudele stipa; 1.11.4 e quivi, per l' orribile soperchio 1.11.5 del puzzo che 'l profondo abisso gitta, 1.11.6 ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio 1.11.7 d' un grand' avello, ov' io vidi una scritta 1.11.8 che dicea: "Anastasio papa guardo, 1.11.9 lo qual trasse Fotin de la via dritta". 1.11.10 «Lo nostro scender conviene esser tardo, 1.11.11 sì che s' ausi un poco in prima il senso 1.11.12 al tristo fiato; e poi no i fia riguardo». 1.11.13 Così 'l maestro; e io «Alcun compenso», 1.11.14 dissi lui, «trova che 'l tempo non passi 1.11.15 perduto». Ed elli: «Vedi ch' a ciò penso». 1.11.16 «Figliuol mio, dentro da cotesti sassi», 1.11.17 cominciò poi a dir, «son tre cerchietti 1.11.18 di grado in grado, come que' che lassi. 1.11.19 Tutti son pien di spirti maladetti; 1.11.20 ma perché poi ti basti pur la vista, 1.11.21 intendi come e perché son costretti. 1.11.22 D' ogne malizia, ch' odio in cielo acquista, 1.11.23 ingiuria è 'l fine, ed ogne fin cotale 1.11.24 o con forza o con frode altrui contrista. 1.11.25 Ma perché frode è de l' uom proprio male, 1.11.26 più spiace a Dio; e però stan di sotto 1.11.27 li frodolenti, e più dolor li assale. 1.11.28 Di vïolenti il primo cerchio è tutto; 1.11.29 ma perché si fa forza a tre persone, 1.11.30 in tre gironi è distinto e costrutto. 1.11.31 A Dio, a sé, al prossimo si pòne 1.11.32 far forza, dico in loro e in lor cose, 1.11.33 come udirai con aperta ragione. 1.11.34 Morte per forza e ferute dogliose 1.11.35 nel prossimo si danno, e nel suo avere 1.11.36 ruine, incendi e tollette dannose; 1.11.37 onde omicide e ciascun che mal fiere, 1.11.38 guastatori e predon, tutti tormenta 1.11.39 lo giron primo per diverse schiere. 1.11.40 Puote omo avere in sé man vïolenta 1.11.41 e ne' suoi beni; e però nel secondo 1.11.42 giron convien che sanza pro si penta 1.11.43 qualunque priva sé del vostro mondo, 1.11.44 biscazza e fonde la sua facultade, 1.11.45 e piange là dov' esser de' giocondo. 1.11.46 Puossi far forza ne la dëitade, 1.11.47 col cor negando e bestemmiando quella, 1.11.48 e spregiando natura e sua bontade; 1.11.49 e però lo minor giron suggella 1.11.50 del segno suo e Soddoma e Caorsa 1.11.51 e chi, spregiando Dio col cor, favella. 1.11.52 La frode, ond' ogne coscïenza è morsa, 1.11.53 può l' omo usare in colui che 'n lui fida 1.11.54 e in quel che fidanza non imborsa. 1.11.55 Questo modo di retro par ch' incida 1.11.56 pur lo vinco d' amor che fa natura; 1.11.57 onde nel cerchio secondo s' annida 1.11.58 ipocresia, lusinghe e chi affattura, 1.11.59 falsità, ladroneccio e simonia, 1.11.60 ruffian, baratti e simile lordura. 1.11.61 Per l' altro modo quell' amor s' oblia 1.11.62 che fa natura, e quel ch' è poi aggiunto, 1.11.63 di che la fede spezïal si cria; 1.11.64 onde nel cerchio minore, ov' è 'l punto 1.11.65 de l' universo in su che Dite siede, 1.11.66 qualunque trade in etterno è consunto». 1.11.67 E io: «Maestro, assai chiara procede 1.11.68 la tua ragione, e assai ben distingue 1.11.69 questo baràtro e 'l popol ch' e' possiede. 1.11.70 Ma dimmi: quei de la palude pingue, 1.11.71 che mena il vento, e che batte la pioggia, 1.11.72 e che s' incontran con sì aspre lingue, 1.11.73 perché non dentro da la città roggia 1.11.74 sono ei puniti, se Dio li ha in ira? 1.11.75 e se non li ha, perché sono a tal foggia?». 1.11.76 Ed elli a me «Perché tanto delira», 1.11.77 disse, «lo 'ngegno tuo da quel che sòle? 1.11.78 o ver la mente dove altrove mira? 1.11.79 Non ti rimembra di quelle parole 1.11.80 con le quai la tua Etica pertratta 1.11.81 le tre disposizion che 'l ciel non vole, 1.11.82 incontenenza, malizia e la matta 1.11.83 bestialitade? e come incontenenza 1.11.84 men Dio offende e men biasimo accatta? 1.11.85 Se tu riguardi ben questa sentenza, 1.11.86 e rechiti a la mente chi son quelli 1.11.87 che sù di fuor sostegnon penitenza, 1.11.88 tu vedrai ben perché da questi felli 1.11.89 sien dipartiti, e perché men crucciata 1.11.90 la divina vendetta li martelli». 1.11.91 «O sol che sani ogne vista turbata, 1.11.92 tu mi contenti sì quando tu solvi, 1.11.93 che, non men che saver, dubbiar m' aggrata. 1.11.94 Ancora in dietro un poco ti rivolvi», 1.11.95 diss' io, «là dove di' ch' usura offende 1.11.96 la divina bontade, e 'l groppo solvi». 1.11.97 «Filosofia», mi disse, «a chi la 'ntende, 1.11.98 nota, non pure in una sola parte, 1.11.99 come natura lo suo corso prende 1.11.100 dal divino 'ntelletto e da sua arte; 1.11.101 e se tu ben la tua Fisica note, 1.11.102 tu troverai, non dopo molte carte, 1.11.103 che l' arte vostra quella, quanto pote, 1.11.104 segue, come 'l maestro fa 'l discente; 1.11.105 sì che vostr' arte a Dio quasi è nepote. 1.11.106 Da queste due, se tu ti rechi a mente 1.11.107 lo Genesì dal principio, convene 1.11.108 prender sua vita e avanzar la gente; 1.11.109 e perché l' usuriere altra via tene, 1.11.110 per sé natura e per la sua seguace 1.11.111 dispregia, poi ch' in altro pon la spene. 1.11.112 Ma seguimi oramai che 'l gir mi piace; 1.11.113 ché i Pesci guizzan su per l' orizzonta, 1.11.114 e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace, 1.11.115 e 'l balzo via là oltra si dismonta».
CANTO XII
1.12.1 Era lo loco ov' a scender la riva 1.12.2 venimmo, alpestro e, per quel che v' er' anco, 1.12.3 tal, ch' ogne vista ne sarebbe schiva. 1.12.4 Qual è quella ruina che nel fianco 1.12.5 di qua da Trento l' Adice percosse, 1.12.6 o per tremoto o per sostegno manco, 1.12.7 che da cima del monte, onde si mosse, 1.12.8 al piano è sì la roccia discoscesa, 1.12.9 ch' alcuna via darebbe a chi sù fosse: 1.12.10 cotal di quel burrato era la scesa; 1.12.11 e 'n su la punta de la rotta lacca 1.12.12 l' infamïa di Creti era distesa 1.12.13 che fu concetta ne la falsa vacca; 1.12.14 e quando vide noi, sé stesso morse, 1.12.15 sì come quei cui l' ira dentro fiacca. 1.12.16 Lo savio mio inver' lui gridò: «Forse 1.12.17 tu credi che qui sia 'l duca d' Atene, 1.12.18 che sù nel mondo la morte ti porse? 1.12.19 Pàrtiti, bestia, ché questi non vene 1.12.20 ammaestrato da la tua sorella, 1.12.21 ma vassi per veder le vostre pene». 1.12.22 Qual è quel toro che si slaccia in quella 1.12.23 c' ha ricevuto già 'l colpo mortale, 1.12.24 che gir non sa, ma qua e là saltella, 1.12.25 vid' io lo Minotauro far cotale; 1.12.26 e quello accorto gridò: «Corri al varco; 1.12.27 mentre ch' e' 'nfuria, è buon che tu ti cale». 1.12.28 Così prendemmo via giù per lo scarco 1.12.29 di quelle pietre, che spesso moviensi 1.12.30 sotto i miei piedi per lo novo carco. 1.12.31 Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi 1.12.32 forse a questa ruina, ch' è guardata 1.12.33 da quell' ira bestial ch' i' ora spensi. 1.12.34 Or vo' che sappi che l' altra fïata 1.12.35 ch' i' discesi qua giù nel basso inferno, 1.12.36 questa roccia non era ancor cascata. 1.12.37 Ma certo poco pria, se ben discerno, 1.12.38 che venisse colui che la gran preda 1.12.39 levò a Dite del cerchio superno, 1.12.40 da tutte parti l' alta valle feda 1.12.41 tremò sì, ch' i' pensai che l' universo 1.12.42 sentisse amor, per lo qual è chi creda 1.12.43 più volte il mondo in caòsso converso; 1.12.44 e in quel punto questa vecchia roccia, 1.12.45 qui e altrove, tal fece riverso. 1.12.46 Ma ficca li occhi a valle, ché s' approccia 1.12.47 la riviera del sangue in la qual bolle 1.12.48 qual che per vïolenza in altrui noccia». 1.12.49 Oh cieca cupidigia e ira folle, 1.12.50 che sì ci sproni ne la vita corta, 1.12.51 e ne l' etterna poi sì mal c' immolle! 1.12.52 Io vidi un' ampia fossa in arco torta, 1.12.53 come quella che tutto 'l piano abbraccia, 1.12.54 secondo ch' avea detto la mia scorta; 1.12.55 e tra 'l piè de la ripa ed essa, in traccia 1.12.56 corrien centauri, armati di saette, 1.12.57 come solien nel mondo andare a caccia. 1.12.58 Veggendoci calar, ciascun ristette, 1.12.59 e de la schiera tre si dipartiro 1.12.60 con archi e asticciuole prima elette; 1.12.61 e l' un gridò da lungi: «A qual martiro 1.12.62 venite voi che scendete la costa? 1.12.63 Ditel costinci; se non, l' arco tiro». 1.12.64 Lo mio maestro disse: «La risposta 1.12.65 farem noi a Chirón costà di presso: 1.12.66 mal fu la voglia tua sempre sì tosta». 1.12.67 Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso, 1.12.68 che morì per la bella Deianira, 1.12.69 e fé di sé la vendetta elli stesso. 1.12.70 E quel di mezzo, ch' al petto si mira, 1.12.71 è il gran Chirón, il qual nodrì Achille; 1.12.72 quell' altro è Folo, che fu sì pien d' ira. 1.12.73 Dintorno al fosso vanno a mille a mille, 1.12.74 saettando qual anima si svelle 1.12.75 del sangue più che sua colpa sortille». 1.12.76 Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: 1.12.77 Chirón prese uno strale, e con la cocca 1.12.78 fece la barba in dietro a le mascelle. 1.12.79 Quando s' ebbe scoperta la gran bocca, 1.12.80 disse a' compagni: «Siete voi accorti 1.12.81 che quel di retro move ciò ch' el tocca? 1.12.82 Così non soglion far li piè d' i morti». 1.12.83 E 'l mio buon duca, che già li er' al petto, 1.12.84 dove le due nature son consorti, 1.12.85 rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto 1.12.86 mostrar li mi convien la valle buia; 1.12.87 necessità 'l ci 'nduce, e non diletto. 1.12.88 Tal si partì da cantare alleluia 1.12.89 che mi commise quest' officio novo: 1.12.90 non è ladron, né io anima fuia. 1.12.91 Ma per quella virtù per cu' io movo 1.12.92 li passi miei per sì selvaggia strada, 1.12.93 danne un de' tuoi, a cui noi siamo a provo, 1.12.94 e che ne mostri là dove si guada, 1.12.95 e che porti costui in su la groppa, 1.12.96 ché non è spirto che per l' aere vada». 1.12.97 Chirón si volse in su la destra poppa, 1.12.98 e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida, 1.12.99 e fa cansar s' altra schiera v' intoppa». 1.12.100 Or ci movemmo con la scorta fida 1.12.101 lungo la proda del bollor vermiglio, 1.12.102 dove i bolliti facieno alte strida. 1.12.103 Io vidi gente sotto infino al ciglio; 1.12.104 e 'l gran centauro disse: «E' son tiranni 1.12.105 che dier nel sangue e ne l' aver di piglio. 1.12.106 Quivi si piangon li spietati danni; 1.12.107 quivi è Alessandro, e Dïonisio fero 1.12.108 che fé Cicilia aver dolorosi anni. 1.12.109 E quella fronte c' ha 'l pel così nero, 1.12.110 è Azzolino; e quell' altro ch' è biondo, 1.12.111 è Opizzo da Esti, il qual per vero 1.12.112 fu spento dal figliastro sù nel mondo». 1.12.113 Allor mi volsi al poeta, e quei disse: 1.12.114 «Questi ti sia or primo, e io secondo». 1.12.115 Poco più oltre il centauro s' affisse 1.12.116 sovr' una gente che 'nfino a la gola 1.12.117 parea che di quel bulicame uscisse. 1.12.118 Mostrocci un' ombra da l' un canto sola, 1.12.119 dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio 1.12.120 lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola». 1.12.121 Poi vidi gente che di fuor del rio 1.12.122 tenean la testa e ancor tutto 'l casso; 1.12.123 e di costoro assai riconobb' io. 1.12.124 Così a più a più si facea basso 1.12.125 quel sangue, sì che cocea pur li piedi; 1.12.126 e quindi fu del fosso il nostro passo. 1.12.127 «Sì come tu da questa parte vedi 1.12.128 lo bulicame che sempre si scema», 1.12.129 disse 'l centauro, «voglio che tu credi 1.12.130 che da quest' altra a più a più giù prema 1.12.131 lo fondo suo, infin ch' el si raggiunge 1.12.132 ove la tirannia convien che gema. 1.12.133 La divina giustizia di qua punge 1.12.134 quell' Attila che fu flagello in terra, 1.12.135 e Pirro e Sesto; e in etterno munge 1.12.136 le lagrime, che col bollor diserra, 1.12.137 a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, 1.12.138 che fecero a le strade tanta guerra». 1.12.139 Poi si rivolse e ripassossi 'l guazzo.
CANTO XIII
1.13.1 Non era ancor di là Nesso arrivato, 1.13.2 quando noi ci mettemmo per un bosco 1.13.3 che da neun sentiero era segnato. 1.13.4 Non fronda verde, ma di color fosco; 1.13.5 non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; 1.13.6 non pomi v' eran, ma stecchi con tòsco. 1.13.7 Non han sì aspri sterpi né sì folti 1.13.8 quelle fiere selvagge che 'n odio hanno 1.13.9 tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. 1.13.10 Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, 1.13.11 che cacciar de le Strofade i Troiani 1.13.12 con tristo annunzio di futuro danno. 1.13.13 Ali hanno late, e colli e visi umani, 1.13.14 piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre; 1.13.15 fanno lamenti in su li alberi strani. 1.13.16 E 'l buon maestro «Prima che più entre, 1.13.17 sappi che se' nel secondo girone», 1.13.18 mi cominciò a dire, «e sarai mentre 1.13.19 che tu verrai ne l' orribil sabbione. 1.13.20 Però riguarda ben; sì vederai 1.13.21 cose che torrien fede al mio sermone». 1.13.22 Io sentia d' ogne parte trarre guai 1.13.23 e non vedea persona che 'l facesse; 1.13.24 per ch' io tutto smarrito m' arrestai. 1.13.25 Cred' ïo ch' ei credette ch' io credesse 1.13.26 che tante voci uscisser, tra quei bronchi, 1.13.27 da gente che per noi si nascondesse. 1.13.28 Però disse 'l maestro: «Se tu tronchi 1.13.29 qualche fraschetta d' una d' este piante, 1.13.30 li pensier c' hai si faran tutti monchi». 1.13.31 Allor porsi la mano un poco avante 1.13.32 e colsi un ramicel da un gran pruno; 1.13.33 e 'l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?». 1.13.34 Da che fatto fu poi di sangue bruno, 1.13.35 ricominciò a dir: «Perché mi scerpi? 1.13.36 non hai tu spirto di pietade alcuno? 1.13.37 Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: 1.13.38 ben dovrebb' esser la tua man più pia, 1.13.39 se state fossimo anime di serpi». 1.13.40 Come d' un stizzo verde ch' arso sia 1.13.41 da l' un de' capi, che da l' altro geme 1.13.42 e cigola per vento che va via, 1.13.43 sì de la scheggia rotta usciva insieme 1.13.44 parole e sangue; ond' io lasciai la cima 1.13.45 cadere, e stetti come l' uom che teme. 1.13.46 «S' elli avesse potuto creder prima», 1.13.47 rispuose 'l savio mio, «anima lesa, 1.13.48 ciò c' ha veduto pur con la mia rima, 1.13.49 non averebbe in te la man distesa; 1.13.50 ma la cosa incredibile mi fece 1.13.51 indurlo ad ovra ch' a me stesso pesa. 1.13.52 Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece 1.13.53 d' alcun' ammenda tua fama rinfreschi 1.13.54 nel mondo sù, dove tornar li lece». 1.13.55 E 'l tronco: «Sì col dolce dir m' adeschi, 1.13.56 ch' i' non posso tacere; e voi non gravi 1.13.57 perch' ïo un poco a ragionar m' inveschi. 1.13.58 Io son colui che tenni ambo le chiavi 1.13.59 del cor di Federigo, e che le volsi, 1.13.60 serrando e diserrando, sì soavi, 1.13.61 che dal secreto suo quasi ogn' uom tolsi; 1.13.62 fede portai al glorïoso offizio, 1.13.63 tanto ch' i' ne perde' li sonni e ' polsi. 1.13.64 La meretrice che mai da l' ospizio 1.13.65 di Cesare non torse li occhi putti, 1.13.66 morte comune e de le corti vizio, 1.13.67 infiammò contra me li animi tutti; 1.13.68 e li 'nfiammati infiammar sì Augusto, 1.13.69 che ' lieti onor tornaro in tristi lutti. 1.13.70 L' animo mio, per disdegnoso gusto, 1.13.71 credendo col morir fuggir disdegno, 1.13.72 ingiusto fece me contra me giusto. 1.13.73 Per le nove radici d' esto legno 1.13.74 vi giuro che già mai non ruppi fede 1.13.75 al mio segnor, che fu d' onor sì degno. 1.13.76 E se di voi alcun nel mondo riede, 1.13.77 conforti la memoria mia, che giace 1.13.78 ancor del colpo che 'nvidia le diede». 1.13.79 Un poco attese, e poi «Da ch' el si tace», 1.13.80 disse 'l poeta a me, «non perder l' ora; 1.13.81 ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace». 1.13.82 Ond' ïo a lui: «Domandal tu ancora 1.13.83 di quel che credi ch' a me satisfaccia; 1.13.84 ch' i' non potrei, tanta pietà m' accora». 1.13.85 Perciò ricominciò: «Se l' om ti faccia 1.13.86 liberamente ciò che 'l tuo dir priega, 1.13.87 spirito incarcerato, ancor ti piaccia 1.13.88 di dirne come l' anima si lega 1.13.89 in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, 1.13.90 s' alcuna mai di tai membra si spiega». 1.13.91 Allor soffiò il tronco forte, e poi 1.13.92 si convertì quel vento in cotal voce: 1.13.93 «Brievemente sarà risposto a voi. 1.13.94 Quando si parte l' anima feroce 1.13.95 dal corpo ond' ella stessa s' è disvelta, 1.13.96 Minòs la manda a la settima foce. 1.13.97 Cade in la selva, e non l' è parte scelta; 1.13.98 ma là dove fortuna la balestra, 1.13.99 quivi germoglia come gran di spelta. 1.13.100 Surge in vermena e in pianta silvestra: 1.13.101 l' Arpie, pascendo poi de le sue foglie, 1.13.102 fanno dolore, e al dolor fenestra. 1.13.103 Come l' altre verrem per nostre spoglie, 1.13.104 ma non però ch' alcuna sen rivesta, 1.13.105 ché non è giusto aver ciò ch' om si toglie. 1.13.106 Qui le strascineremo, e per la mesta 1.13.107 selva saranno i nostri corpi appesi, 1.13.108 ciascuno al prun de l' ombra sua molesta». 1.13.109 Noi eravamo ancora al tronco attesi, 1.13.110 credendo ch' altro ne volesse dire, 1.13.111 quando noi fummo d' un romor sorpresi, 1.13.112 similemente a colui che venire 1.13.113 sente 'l porco e la caccia a la sua posta, 1.13.114 ch' ode le bestie, e le frasche stormire. 1.13.115 Ed ecco due da la sinistra costa, 1.13.116 nudi e graffiati, fuggendo sì forte, 1.13.117 che de la selva rompieno ogne rosta. 1.13.118 Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!». 1.13.119 E l' altro, cui pareva tardar troppo, 1.13.120 gridava: «Lano, sì non furo accorte 1.13.121 le gambe tue a le giostre dal Toppo!». 1.13.122 E poi che forse li fallia la lena, 1.13.123 di sé e d' un cespuglio fece un groppo. 1.13.124 Di rietro a loro era la selva piena 1.13.125 di nere cagne, bramose e correnti 1.13.126 come veltri ch' uscisser di catena. 1.13.127 In quel che s' appiattò miser li denti, 1.13.128 e quel dilaceraro a brano a brano; 1.13.129 poi sen portar quelle membra dolenti. 1.13.130 Presemi allor la mia scorta per mano, 1.13.131 e menommi al cespuglio che piangea 1.13.132 per le rotture sanguinenti in vano. 1.13.133 «O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea, 1.13.134 che t' è giovato di me fare schermo? 1.13.135 che colpa ho io de la tua vita rea?». 1.13.136 Quando 'l maestro fu sovr' esso fermo, 1.13.137 disse: «Chi fosti, che per tante punte 1.13.138 soffi con sangue doloroso sermo?». 1.13.139 Ed elli a noi: «O anime che giunte 1.13.140 siete a veder lo strazio disonesto 1.13.141 c' ha le mie fronde sì da me disgiunte, 1.13.142 raccoglietele al piè del tristo cesto. 1.13.143 I' fui de la città che nel Batista 1.13.144 mutò 'l primo padrone; ond' ei per questo 1.13.145 sempre con l' arte sua la farà trista; 1.13.146 e se non fosse che 'n sul passo d' Arno 1.13.147 rimane ancor di lui alcuna vista, 1.13.148 que' cittadin che poi la rifondarno 1.13.149 sovra 'l cener che d' Attila rimase, 1.13.150 avrebber fatto lavorare indarno. 1.13.151 Io fei gibetto a me de le mie case».
CANTO XIV
1.14.1 Poi che la carità del natio loco 1.14.2 mi strinse, raunai le fronde sparte 1.14.3 e rende'le a colui, ch' era già fioco. 1.14.4 Indi venimmo al fine ove si parte 1.14.5 lo secondo giron dal terzo, e dove 1.14.6 si vede di giustizia orribil arte. 1.14.7 A ben manifestar le cose nove, 1.14.8 dico che arrivammo ad una landa 1.14.9 che dal suo letto ogne pianta rimove. 1.14.10 La dolorosa selva l' è ghirlanda 1.14.11 intorno, come 'l fosso tristo ad essa; 1.14.12 quivi fermammo i passi a randa a randa. 1.14.13 Lo spazzo era una rena arida e spessa, 1.14.14 non d' altra foggia fatta che colei 1.14.15 che fu da' piè di Caton già soppressa. 1.14.16 O vendetta di Dio, quanto tu dei 1.14.17 esser temuta da ciascun che legge 1.14.18 ciò che fu manifesto a li occhi mei! 1.14.19 D' anime nude vidi molte gregge 1.14.20 che piangean tutte assai miseramente, 1.14.21 e parea posta lor diversa legge. 1.14.22 Supin giacea in terra alcuna gente, 1.14.23 alcuna si sedea tutta raccolta, 1.14.24 e altra andava continüamente. 1.14.25 Quella che giva 'ntorno era più molta, 1.14.26 e quella men che giacëa al tormento, 1.14.27 ma più al duolo avea la lingua sciolta. 1.14.28 Sovra tutto 'l sabbion, d' un cader lento, 1.14.29 piovean di foco dilatate falde, 1.14.30 come di neve in alpe sanza vento. 1.14.31 Quali Alessandro in quelle parti calde 1.14.32 d' Indïa vide sopra 'l süo stuolo 1.14.33 fiamme cadere infino a terra salde, 1.14.34 per ch' ei provide a scalpitar lo suolo 1.14.35 con le sue schiere, acciò che lo vapore 1.14.36 mei si stingueva mentre ch' era solo: 1.14.37 tale scendeva l' etternale ardore; 1.14.38 onde la rena s' accendea, com' esca 1.14.39 sotto focile, a doppiar lo dolore. 1.14.40 Sanza riposo mai era la tresca 1.14.41 de le misere mani, or quindi or quinci 1.14.42 escotendo da sé l' arsura fresca. 1.14.43 I' cominciai: «Maestro, tu che vinci 1.14.44 tutte le cose, fuor che ' demon duri 1.14.45 ch' a l' intrar de la porta incontra uscinci, 1.14.46 chi è quel grande che non par che curi 1.14.47 lo 'ncendio e giace dispettoso e torto, 1.14.48 sì che la pioggia non par che 'l marturi?». 1.14.49 E quel medesmo, che si fu accorto 1.14.50 ch' io domandava il mio duca di lui, 1.14.51 gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto. 1.14.52 Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cui 1.14.53 crucciato prese la folgore aguta 1.14.54 onde l' ultimo dì percosso fui; 1.14.55 o s' elli stanchi li altri a muta a muta 1.14.56 in Mongibello a la focina negra, 1.14.57 chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta!", 1.14.58 sì com' el fece a la pugna di Flegra, 1.14.59 e me saetti con tutta sua forza: 1.14.60 non ne potrebbe aver vendetta allegra». 1.14.61 Allora il duca mio parlò di forza 1.14.62 tanto, ch' i' non l' avea sì forte udito: 1.14.63 «O Capaneo, in ciò che non s' ammorza 1.14.64 la tua superbia, se' tu più punito; 1.14.65 nullo martiro, fuor che la tua rabbia, 1.14.66 sarebbe al tuo furor dolor compito». 1.14.67 Poi si rivolse a me con miglior labbia, 1.14.68 dicendo: «Quei fu l' un d' i sette regi 1.14.69 ch' assiser Tebe; ed ebbe e par ch' elli abbia 1.14.70 Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi; 1.14.71 ma, com' io dissi lui, li suoi dispetti 1.14.72 sono al suo petto assai debiti fregi. 1.14.73 Or mi vien dietro, e guarda che non metti, 1.14.74 ancor, li piedi ne la rena arsiccia; 1.14.75 ma sempre al bosco tien li piedi stretti». 1.14.76 Tacendo divenimmo là 've spiccia 1.14.77 fuor de la selva un picciol fiumicello, 1.14.78 lo cui rossore ancor mi raccapriccia. 1.14.79 Quale del Bulicame esce ruscello 1.14.80 che parton poi tra lor le peccatrici, 1.14.81 tal per la rena giù sen giva quello. 1.14.82 Lo fondo suo e ambo le pendici 1.14.83 fatt' era 'n pietra, e ' margini dallato; 1.14.84 per ch' io m' accorsi che 'l passo era lici. 1.14.85 «Tra tutto l' altro ch' i' t' ho dimostrato, 1.14.86 poscia che noi intrammo per la porta 1.14.87 lo cui sogliare a nessuno è negato, 1.14.88 cosa non fu da li tuoi occhi scorta 1.14.89 notabile com' è 'l presente rio, 1.14.90 che sovra sé tutte fiammelle ammorta». 1.14.91 Queste parole fuor del duca mio; 1.14.92 per ch' io 'l pregai che mi largisse 'l pasto 1.14.93 di cui largito m' avëa il disio. 1.14.94 «In mezzo mar siede un paese guasto», 1.14.95 diss' elli allora, «che s' appella Creta, 1.14.96 sotto 'l cui rege fu già 'l mondo casto. 1.14.97 Una montagna v' è che già fu lieta 1.14.98 d' acqua e di fronde, che si chiamò Ida; 1.14.99 or è diserta come cosa vieta. 1.14.100 Rëa la scelse già per cuna fida 1.14.101 del suo figliuolo, e per celarlo meglio, 1.14.102 quando piangea, vi facea far le grida. 1.14.103 Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, 1.14.104 che tien volte le spalle inver' Dammiata 1.14.105 e Roma guarda come süo speglio. 1.14.106 La sua testa è di fin oro formata, 1.14.107 e puro argento son le braccia e 'l petto, 1.14.108 poi è di rame infino a la forcata; 1.14.109 da indi in giuso è tutto ferro eletto, 1.14.110 salvo che 'l destro piede è terra cotta; 1.14.111 e sta 'n su quel, più che 'n su l' altro, eretto. 1.14.112 Ciascuna parte, fuor che l' oro, è rotta 1.14.113 d' una fessura che lagrime goccia, 1.14.114 le quali, accolte, fóran quella grotta. 1.14.115 Lor corso in questa valle si diroccia; 1.14.116 fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; 1.14.117 poi sen van giù per questa stretta doccia, 1.14.118 infin, là dove più non si dismonta, 1.14.119 fanno Cocito; e qual sia quello stagno 1.14.120 tu lo vedrai, però qui non si conta». 1.14.121 E io a lui: «Se 'l presente rigagno 1.14.122 si diriva così dal nostro mondo, 1.14.123 perché ci appar pur a questo vivagno?». 1.14.124 Ed elli a me: «Tu sai che 'l loco è tondo; 1.14.125 e tutto che tu sie venuto molto, 1.14.126 pur a sinistra, giù calando al fondo, 1.14.127 non se' ancor per tutto 'l cerchio vòlto; 1.14.128 per che, se cosa n' apparisce nova, 1.14.129 non de' addur maraviglia al tuo volto». 1.14.130 E io ancor: «Maestro, ove si trova 1.14.131 Flegetonta e Letè? ché de l' un taci, 1.14.132 e l' altro di' che si fa d' esta piova». 1.14.133 «In tutte tue question certo mi piaci», 1.14.134 rispuose, «ma 'l bollor de l' acqua rossa 1.14.135 dovea ben solver l' una che tu faci. 1.14.136 Letè vedrai, ma fuor di questa fossa, 1.14.137 là dove vanno l' anime a lavarsi 1.14.138 quando la colpa pentuta è rimossa». 1.14.139 Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi 1.14.140 dal bosco; fa che di retro a me vegne: 1.14.141 li margini fan via, che non son arsi, 1.14.142 e sopra loro ogne vapor si spegne».
CANTO XV
1.15.1 Ora cen porta l' un de' duri margini; 1.15.2 e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia, 1.15.3 sì che dal foco salva l' acqua e li argini. 1.15.4 Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, 1.15.5 temendo 'l fiotto che 'nver' lor s' avventa, 1.15.6 fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia; 1.15.7 e quali Padoan lungo la Brenta, 1.15.8 per difender lor ville e lor castelli, 1.15.9 anzi che Carentana il caldo senta: 1.15.10 a tale imagine eran fatti quelli, 1.15.11 tutto che né sì alti né sì grossi, 1.15.12 qual che si fosse, lo maestro félli. 1.15.13 Già eravam da la selva rimossi 1.15.14 tanto, ch' i' non avrei visto dov' era, 1.15.15 perch' io in dietro rivolto mi fossi, 1.15.16 quando incontrammo d' anime una schiera 1.15.17 che venian lungo l' argine, e ciascuna 1.15.18 ci riguardava come suol da sera 1.15.19 guardare uno altro sotto nuova luna; 1.15.20 e sì ver' noi aguzzavan le ciglia 1.15.21 come 'l vecchio sartor fa ne la cruna. 1.15.22 Così adocchiato da cotal famiglia, 1.15.23 fui conosciuto da un, che mi prese 1.15.24 per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!». 1.15.25 E io, quando 'l suo braccio a me distese, 1.15.26 ficcäi li occhi per lo cotto aspetto, 1.15.27 sì che 'l viso abbrusciato non difese 1.15.28 la conoscenza süa al mio 'ntelletto; 1.15.29 e chinando la mano a la sua faccia, 1.15.30 rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?». 1.15.31 E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia 1.15.32 se Brunetto Latino un poco teco 1.15.33 ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia». 1.15.34 I' dissi lui: «Quanto posso, ven preco; 1.15.35 e se volete che con voi m' asseggia, 1.15.36 faròl, se piace a costui che vo seco». 1.15.37 «O figliuol», disse, «qual di questa greggia 1.15.38 s' arresta punto, giace poi cent' anni 1.15.39 sanz' arrostarsi quando 'l foco il feggia. 1.15.40 Però va oltre: i' ti verrò a' panni; 1.15.41 e poi rigiugnerò la mia masnada, 1.15.42 che va piangendo i suoi etterni danni». 1.15.43 Io non osava scender de la strada 1.15.44 per andar par di lui; ma 'l capo chino 1.15.45 tenea com' uom che reverente vada. 1.15.46 El cominciò: «Qual fortuna o destino 1.15.47 anzi l' ultimo dì qua giù ti mena? 1.15.48 e chi è questi che mostra 'l cammino?». 1.15.49 «Là sù di sopra, in la vita serena», 1.15.50 rispuos' io lui, «mi smarri' in una valle, 1.15.51 avanti che l' età mia fosse piena. 1.15.52 Pur ier mattina le volsi le spalle: 1.15.53 questi m' apparve, tornand' ïo in quella, 1.15.54 e reducemi a ca per questo calle». 1.15.55 Ed elli a me: «Se tu segui tua stella, 1.15.56 non puoi fallire a glorïoso porto, 1.15.57 se ben m' accorsi ne la vita bella; 1.15.58 e s' io non fossi sì per tempo morto, 1.15.59 veggendo il cielo a te così benigno, 1.15.60 dato t' avrei a l' opera conforto. 1.15.61 Ma quello ingrato popolo maligno 1.15.62 che discese di Fiesole ab antico, 1.15.63 e tiene ancor del monte e del macigno, 1.15.64 ti si farà, per tuo ben far, nimico; 1.15.65 ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi 1.15.66 si disconvien fruttare al dolce fico. 1.15.67 Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; 1.15.68 gent' è avara, invidiosa e superba: 1.15.69 dai lor costumi fa che tu ti forbi. 1.15.70 La tua fortuna tanto onor ti serba, 1.15.71 che l' una parte e l' altra avranno fame 1.15.72 di te; ma lungi fia dal becco l' erba. 1.15.73 Faccian le bestie fiesolane strame 1.15.74 di lor medesme, e non tocchin la pianta, 1.15.75 s' alcuna surge ancora in lor letame, 1.15.76 in cui riviva la sementa santa 1.15.77 di que' Roman che vi rimaser quando 1.15.78 fu fatto il nido di malizia tanta». 1.15.79 «Se fosse tutto pieno il mio dimando», 1.15.80 rispuos' io lui, «voi non sareste ancora 1.15.81 de l' umana natura posto in bando; 1.15.82 ché 'n la mente m' è fitta, e or m' accora, 1.15.83 la cara e buona imagine paterna 1.15.84 di voi quando nel mondo ad ora ad ora 1.15.85 m' insegnavate come l' uom s' etterna: 1.15.86 e quant' io l' abbia in grado, mentr' io vivo 1.15.87 convien che ne la mia lingua si scerna. 1.15.88 Ciò che narrate di mio corso scrivo, 1.15.89 e serbolo a chiosar con altro testo 1.15.90 a donna che saprà, s' a lei arrivo. 1.15.91 Tanto vogl' io che vi sia manifesto, 1.15.92 pur che mia coscïenza non mi garra, 1.15.93 ch' a la Fortuna, come vuol, son presto. 1.15.94 Non è nuova a li orecchi miei tal arra: 1.15.95 però giri Fortuna la sua rota 1.15.96 come le piace, e 'l villan la sua marra». 1.15.97 Lo mio maestro allora in su la gota 1.15.98 destra si volse in dietro e riguardommi; 1.15.99 poi disse: «Bene ascolta chi la nota». 1.15.100 Né per tanto di men parlando vommi 1.15.101 con ser Brunetto, e dimando chi sono 1.15.102 li suoi compagni più noti e più sommi. 1.15.103 Ed elli a me: «Saper d' alcuno è buono; 1.15.104 de li altri fia laudabile tacerci, 1.15.105 ché 'l tempo saria corto a tanto suono. 1.15.106 In somma sappi che tutti fur cherci 1.15.107 e litterati grandi e di gran fama, 1.15.108 d' un peccato medesmo al mondo lerci. 1.15.109 Priscian sen va con quella turba grama, 1.15.110 e Francesco d' Accorso anche; e vedervi, 1.15.111 s' avessi avuto di tal tigna brama, 1.15.112 colui potei che dal servo de' servi 1.15.113 fu trasmutato d' Arno in Bacchiglione, 1.15.114 dove lasciò li mal protesi nervi. 1.15.115 Di più direi; ma 'l venire e 'l sermone 1.15.116 più lungo esser non può, però ch' i' veggio 1.15.117 là surger nuovo fummo del sabbione. 1.15.118 Gente vien con la quale esser non deggio. 1.15.119 Sieti raccomandato il mio Tesoro, 1.15.120 nel qual io vivo ancora, e più non cheggio». 1.15.121 Poi si rivolse, e parve di coloro 1.15.122 che corrono a Verona il drappo verde 1.15.123 per la campagna; e parve di costoro 1.15.124 quelli che vince, non colui che perde.
CANTO XVI
1.16.1 Già era in loco onde s' udia 'l rimbombo 1.16.2 de l' acqua che cadea ne l' altro giro, 1.16.3 simile a quel che l' arnie fanno rombo, 1.16.4 quando tre ombre insieme si partiro, 1.16.5 correndo, d' una torma che passava 1.16.6 sotto la pioggia de l' aspro martiro. 1.16.7 Venian ver' noi, e ciascuna gridava: 1.16.8 «Sòstati tu ch' a l' abito ne sembri 1.16.9 essere alcun di nostra terra prava». 1.16.10 Ahimè, che piaghe vidi ne' lor membri, 1.16.11 ricenti e vecchie, da le fiamme incese! 1.16.12 Ancor men duol pur ch' i' me ne rimembri. 1.16.13 A le lor grida il mio dottor s' attese; 1.16.14 volse 'l viso ver' me, e «Or aspetta», 1.16.15 disse, «a costor si vuole esser cortese. 1.16.16 E se non fosse il foco che saetta 1.16.17 la natura del loco, i' dicerei 1.16.18 che meglio stesse a te che a lor la fretta». 1.16.19 Ricominciar, come noi restammo, ei 1.16.20 l' antico verso; e quando a noi fuor giunti, 1.16.21 fenno una rota di sé tutti e trei. 1.16.22 Qual sogliono i campion far nudi e unti, 1.16.23 avvisando lor presa e lor vantaggio, 1.16.24 prima che sien tra lor battuti e punti, 1.16.25 così rotando, ciascuno il visaggio 1.16.26 drizzava a me, sì che 'n contraro il collo 1.16.27 faceva ai piè continüo vïaggio. 1.16.28 E «Se miseria d' esto loco sollo 1.16.29 rende in dispetto noi e nostri prieghi», 1.16.30 cominciò l' uno, «e 'l tinto aspetto e brollo, 1.16.31 la fama nostra il tuo animo pieghi 1.16.32 a dirne chi tu se', che i vivi piedi 1.16.33 così sicuro per lo 'nferno freghi. 1.16.34 Questi, l' orme di cui pestar mi vedi, 1.16.35 tutto che nudo e dipelato vada, 1.16.36 fu di grado maggior che tu non credi: 1.16.37 nepote fu de la buona Gualdrada; 1.16.38 Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita 1.16.39 fece col senno assai e con la spada. 1.16.40 L' altro, ch' appresso me la rena trita, 1.16.41 è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce 1.16.42 nel mondo sù dovria esser gradita. 1.16.43 E io, che posto son con loro in croce, 1.16.44 Iacopo Rusticucci fui, e certo 1.16.45 la fiera moglie più ch' altro mi nuoce». 1.16.46 S' i' fossi stato dal foco coperto, 1.16.47 gittato mi sarei tra lor di sotto, 1.16.48 e credo che 'l dottor l' avria sofferto; 1.16.49 ma perch' io mi sarei brusciato e cotto, 1.16.50 vinse paura la mia buona voglia 1.16.51 che di loro abbracciar mi facea ghiotto. 1.16.52 Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia 1.16.53 la vostra condizion dentro mi fisse, 1.16.54 tanta che tardi tutta si dispoglia, 1.16.55 tosto che questo mio segnor mi disse 1.16.56 parole per le quali i' mi pensai 1.16.57 che qual voi siete, tal gente venisse. 1.16.58 Di vostra terra sono, e sempre mai 1.16.59 l' ovra di voi e li onorati nomi 1.16.60 con affezion ritrassi e ascoltai. 1.16.61 Lascio lo fele e vo per dolci pomi 1.16.62 promessi a me per lo verace duca; 1.16.63 ma 'nfino al centro pria convien ch' i' tomi». 1.16.64 «Se lungamente l' anima conduca 1.16.65 le membra tue», rispuose quelli ancora, 1.16.66 «e se la fama tua dopo te luca, 1.16.67 cortesia e valor dì se dimora 1.16.68 ne la nostra città sì come suole, 1.16.69 o se del tutto se n' è gita fora; 1.16.70 ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole 1.16.71 con noi per poco e va là coi compagni, 1.16.72 assai ne cruccia con le sue parole». 1.16.73 «La gente nuova e i sùbiti guadagni 1.16.74 orgoglio e dismisura han generata, 1.16.75 Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni». 1.16.76 Così gridai con la faccia levata; 1.16.77 e i tre, che ciò inteser per risposta, 1.16.78 guardar l' un l' altro com' al ver si guata. 1.16.79 «Se l' altre volte sì poco ti costa», 1.16.80 rispuoser tutti, «il satisfare altrui, 1.16.81 felice te se sì parli a tua posta! 1.16.82 Però, se campi d' esti luoghi bui 1.16.83 e torni a riveder le belle stelle, 1.16.84 quando ti gioverà dicere "I' fui", 1.16.85 fa che di noi a la gente favelle». 1.16.86 Indi rupper la rota, e a fuggirsi 1.16.87 ali sembiar le gambe loro isnelle. 1.16.88 Un amen non saria possuto dirsi 1.16.89 tosto così com' e' fuoro spariti; 1.16.90 per ch' al maestro parve di partirsi. 1.16.91 Io lo seguiva, e poco eravam iti, 1.16.92 che 'l suon de l' acqua n' era sì vicino, 1.16.93 che per parlar saremmo a pena uditi. 1.16.94 Come quel fiume c' ha proprio cammino 1.16.95 prima dal Monte Viso 'nver' levante, 1.16.96 da la sinistra costa d' Apennino, 1.16.97 che si chiama Acquacheta suso, avante 1.16.98 che si divalli giù nel basso letto, 1.16.99 e a Forlì di quel nome è vacante, 1.16.100 rimbomba là sovra San Benedetto 1.16.101 de l' Alpe per cadere ad una scesa 1.16.102 ove dovea per mille esser recetto; 1.16.103 così, giù d' una ripa discoscesa, 1.16.104 trovammo risonar quell' acqua tinta, 1.16.105 sì che 'n poc' ora avria l' orecchia offesa. 1.16.106 Io avea una corda intorno cinta, 1.16.107 e con essa pensai alcuna volta 1.16.108 prender la lonza a la pelle dipinta. 1.16.109 Poscia ch' io l' ebbi tutta da me sciolta, 1.16.110 sì come 'l duca m' avea comandato, 1.16.111 porsila a lui aggroppata e ravvolta. 1.16.112 Ond' ei si volse inver' lo destro lato, 1.16.113 e alquanto di lunge da la sponda 1.16.114 la gittò giuso in quell' alto burrato. 1.16.115 «E' pur convien che novità risponda», 1.16.116 dicea fra me medesmo, «al novo cenno 1.16.117 che 'l maestro con l' occhio sì seconda». 1.16.118 Ahi quanto cauti li uomini esser dienno 1.16.119 presso a color che non veggion pur l' ovra, 1.16.120 ma per entro i pensier miran col senno! 1.16.121 El disse a me: «Tosto verrà di sovra 1.16.122 ciò ch' io attendo e che il tuo pensier sogna; 1.16.123 tosto convien ch' al tuo viso si scovra». 1.16.124 Sempre a quel ver c' ha faccia di menzogna 1.16.125 de' l' uom chiuder le labbra fin ch' el puote, 1.16.126 però che sanza colpa fa vergogna; 1.16.127 ma qui tacer nol posso; e per le note 1.16.128 di questa comedìa, lettor, ti giuro, 1.16.129 s' elle non sien di lunga grazia vòte, 1.16.130 ch' i' vidi per quell' aere grosso e scuro 1.16.131 venir notando una figura in suso, 1.16.132 maravigliosa ad ogne cor sicuro, 1.16.133 sì come torna colui che va giuso 1.16.134 talora a solver l' àncora ch' aggrappa 1.16.135 o scoglio o altro che nel mare è chiuso, 1.16.136 che 'n sù si stende e da piè si rattrappa.
CANTO XVII
1.17.1 «Ecco la fiera con la coda aguzza, 1.17.2 che passa i monti e rompe i muri e l' armi! 1.17.3 Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!». 1.17.4 Sì cominciò lo mio duca a parlarmi; 1.17.5 e accennolle che venisse a proda, 1.17.6 vicino al fin d' i passeggiati marmi. 1.17.7 E quella sozza imagine di froda 1.17.8 sen venne, e arrivò la testa e 'l busto, 1.17.9 ma 'n su la riva non trasse la coda. 1.17.10 La faccia sua era faccia d' uom giusto, 1.17.11 tanto benigna avea di fuor la pelle, 1.17.12 e d' un serpente tutto l' altro fusto; 1.17.13 due branche avea pilose insin l' ascelle; 1.17.14 lo dosso e 'l petto e ambedue le coste 1.17.15 dipinti avea di nodi e di rotelle. 1.17.16 Con più color, sommesse e sovraposte 1.17.17 non fer mai drappi Tartari né Turchi, 1.17.18 né fuor tai tele per Aragne imposte. 1.17.19 Come talvolta stanno a riva i burchi, 1.17.20 che parte sono in acqua e parte in terra, 1.17.21 e come là tra li Tedeschi lurchi 1.17.22 lo bivero s' assetta a far sua guerra, 1.17.23 così la fiera pessima si stava 1.17.24 su l' orlo ch' è di pietra e 'l sabbion serra. 1.17.25 Nel vano tutta sua coda guizzava, 1.17.26 torcendo in sù la venenosa forca 1.17.27 ch' a guisa di scorpion la punta armava. 1.17.28 Lo duca disse: «Or convien che si torca 1.17.29 la nostra via un poco insino a quella 1.17.30 bestia malvagia che colà si corca». 1.17.31 Però scendemmo a la destra mammella, 1.17.32 e diece passi femmo in su lo stremo, 1.17.33 per ben cessar la rena e la fiammella. 1.17.34 E quando noi a lei venuti semo, 1.17.35 poco più oltre veggio in su la rena 1.17.36 gente seder propinqua al loco scemo. 1.17.37 Quivi 'l maestro «Acciò che tutta piena 1.17.38 esperïenza d' esto giron porti», 1.17.39 mi disse, «va, e vedi la lor mena. 1.17.40 Li tuoi ragionamenti sian là corti; 1.17.41 mentre che torni, parlerò con questa, 1.17.42 che ne conceda i suoi omeri forti». 1.17.43 Così ancor su per la strema testa 1.17.44 di quel settimo cerchio tutto solo 1.17.45 andai, dove sedea la gente mesta. 1.17.46 Per li occhi fora scoppiava lor duolo; 1.17.47 di qua, di là soccorrien con le mani 1.17.48 quando a' vapori, e quando al caldo suolo: 1.17.49 non altrimenti fan di state i cani 1.17.50 or col ceffo or col piè, quando son morsi 1.17.51 o da pulci o da mosche o da tafani. 1.17.52 Poi che nel viso a certi li occhi porsi, 1.17.53 ne' quali 'l doloroso foco casca, 1.17.54 non ne conobbi alcun; ma io m' accorsi 1.17.55 che dal collo a ciascun pendea una tasca 1.17.56 ch' avea certo colore e certo segno, 1.17.57 e quindi par che 'l loro occhio si pasca. 1.17.58 E com' io riguardando tra lor vegno, 1.17.59 in una borsa gialla vidi azzurro 1.17.60 che d' un leone avea faccia e contegno. 1.17.61 Poi, procedendo di mio sguardo il curro, 1.17.62 vidine un' altra come sangue rossa, 1.17.63 mostrando un' oca bianca più che burro. 1.17.64 E un che d' una scrofa azzurra e grossa 1.17.65 segnato avea lo suo sacchetto bianco, 1.17.66 mi disse: «Che fai tu in questa fossa? 1.17.67 Or te ne va; e perché se' vivo anco, 1.17.68 sappi che 'l mio vicin Vitalïano 1.17.69 sederà qui dal mio sinistro fianco. 1.17.70 Con questi Fiorentin son padoano: 1.17.71 spesse fïate mi 'ntronan li orecchi 1.17.72 gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano, 1.17.73 che recherà la tasca con tre becchi!"». 1.17.74 Qui distorse la bocca e di fuor trasse 1.17.75 la lingua, come bue che 'l naso lecchi. 1.17.76 E io, temendo no 'l più star crucciasse 1.17.77 lui che di poco star m' avea 'mmonito, 1.17.78 torna'mi in dietro da l' anime lasse. 1.17.79 Trova' il duca mio ch' era salito 1.17.80 già su la groppa del fiero animale, 1.17.81 e disse a me: «Or sie forte e ardito. 1.17.82 Omai si scende per sì fatte scale; 1.17.83 monta dinanzi, ch' i' voglio esser mezzo, 1.17.84 sì che la coda non possa far male». 1.17.85 Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo 1.17.86 de la quartana, c' ha già l' unghie smorte, 1.17.87 e triema tutto pur guardando 'l rezzo, 1.17.88 tal divenn' io a le parole porte; 1.17.89 ma vergogna mi fé le sue minacce, 1.17.90 che innanzi a buon segnor fa servo forte. 1.17.91 I' m' assettai in su quelle spallacce; 1.17.92 sì volli dir, ma la voce non venne 1.17.93 com' io credetti: «Fa che tu m' abbracce». 1.17.94 Ma esso, ch' altra volta mi sovvenne 1.17.95 ad altro forse, tosto ch' i' montai 1.17.96 con le braccia m' avvinse e mi sostenne; 1.17.97 e disse: «Gerïon, moviti omai: 1.17.98 le rote larghe, e lo scender sia poco; 1.17.99 pensa la nova soma che tu hai». 1.17.100 Come la navicella esce di loco 1.17.101 in dietro in dietro, sì quindi si tolse; 1.17.102 e poi ch' al tutto si sentì a gioco, 1.17.103 là 'v' era 'l petto, la coda rivolse, 1.17.104 e quella tesa, come anguilla, mosse, 1.17.105 e con le branche l' aere a sé raccolse. 1.17.106 Maggior paura non credo che fosse 1.17.107 quando Fetonte abbandonò li freni, 1.17.108 per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse; 1.17.109 né quando Icaro misero le reni 1.17.110 sentì spennar per la scaldata cera, 1.17.111 gridando il padre a lui «Mala via tieni!», 1.17.112 che fu la mia, quando vidi ch' i' era 1.17.113 ne l' aere d' ogne parte, e vidi spenta 1.17.114 ogne veduta fuor che de la fera. 1.17.115 Ella sen va notando lenta lenta; 1.17.116 rota e discende, ma non me n' accorgo 1.17.117 se non che al viso e di sotto mi venta. 1.17.118 Io sentia già da la man destra il gorgo 1.17.119 far sotto noi un orribile scroscio, 1.17.120 per che con li occhi 'n giù la testa sporgo. 1.17.121 Allor fu' io più timido a lo stoscio, 1.17.122 però ch' i' vidi fuochi e senti' pianti; 1.17.123 ond' io tremando tutto mi raccoscio. 1.17.124 E vidi poi, ché nol vedea davanti, 1.17.125 lo scendere e 'l girar per li gran mali 1.17.126 che s' appressavan da diversi canti. 1.17.127 Come 'l falcon ch' è stato assai su l' ali, 1.17.128 che sanza veder logoro o uccello 1.17.129 fa dire al falconiere «Omè, tu cali!», 1.17.130 discende lasso onde si move isnello, 1.17.131 per cento rote, e da lunge si pone 1.17.132 dal suo maestro, disdegnoso e fello; 1.17.133 così ne puose al fondo Gerïone 1.17.134 al piè al piè de la stagliata rocca, 1.17.135 e, discarcate le nostre persone, 1.17.136 si dileguò come da corda cocca.
CANTO XVIII
1.18.1 Luogo è in inferno detto Malebolge, 1.18.2 tutto di pietra di color ferrigno, 1.18.3 come la cerchia che dintorno il volge. 1.18.4 Nel dritto mezzo del campo maligno 1.18.5 vaneggia un pozzo assai largo e profondo, 1.18.6 di cui suo loco dicerò l' ordigno. 1.18.7 Quel cinghio che rimane adunque è tondo 1.18.8 tra 'l pozzo e 'l piè de l' alta ripa dura, 1.18.9 e ha distinto in dieci valli il fondo. 1.18.10 Quale, dove per guardia de le mura 1.18.11 più e più fossi cingon li castelli, 1.18.12 la parte dove son rende figura, 1.18.13 tale imagine quivi facean quelli; 1.18.14 e come a tai fortezze da' lor sogli 1.18.15 a la ripa di fuor son ponticelli, 1.18.16 così da imo de la roccia scogli 1.18.17 movien che ricidien li argini e ' fossi 1.18.18 infino al pozzo che i tronca e raccogli. 1.18.19 In questo luogo, de la schiena scossi 1.18.20 di Gerïon, trovammoci; e 'l poeta 1.18.21 tenne a sinistra, e io dietro mi mossi. 1.18.22 A la man destra vidi nova pieta, 1.18.23 novo tormento e novi frustatori, 1.18.24 di che la prima bolgia era repleta. 1.18.25 Nel fondo erano ignudi i peccatori; 1.18.26 dal mezzo in qua ci venien verso 'l volto, 1.18.27 di là con noi, ma con passi maggiori, 1.18.28 come i Roman per l' essercito molto, 1.18.29 l' anno del giubileo, su per lo ponte 1.18.30 hanno a passar la gente modo colto, 1.18.31 che da l' un lato tutti hanno la fronte 1.18.32 verso 'l castello e vanno a Santo Pietro, 1.18.33 da l' altra sponda vanno verso 'l monte. 1.18.34 Di qua, di là, su per lo sasso tetro 1.18.35 vidi demon cornuti con gran ferze, 1.18.36 che li battien crudelmente di retro. 1.18.37 Ahi come facean lor levar le berze 1.18.38 a le prime percosse! già nessuno 1.18.39 le seconde aspettava né le terze. 1.18.40 Mentr' io andava, li occhi miei in uno 1.18.41 furo scontrati; e io sì tosto dissi: 1.18.42 «Già di veder costui non son digiuno». 1.18.43 Per ch' ïo a figurarlo i piedi affissi; 1.18.44 e 'l dolce duca meco si ristette, 1.18.45 e assentio ch' alquanto in dietro gissi. 1.18.46 E quel frustato celar si credette 1.18.47 bassando 'l viso; ma poco li valse, 1.18.48 ch' io dissi: «O tu che l' occhio a terra gette, 1.18.49 se le fazion che porti non son false, 1.18.50 Venedico se' tu Caccianemico. 1.18.51 Ma che ti mena a sì pungenti salse?». 1.18.52 Ed elli a me: «Mal volontier lo dico; 1.18.53 ma sforzami la tua chiara favella, 1.18.54 che mi fa sovvenir del mondo antico. 1.18.55 I' fui colui che la Ghisolabella 1.18.56 condussi a far la voglia del marchese, 1.18.57 come che suoni la sconcia novella. 1.18.58 E non pur io qui piango bolognese; 1.18.59 anzi n' è questo loco tanto pieno, 1.18.60 che tante lingue non son ora apprese 1.18.61 a dicer "sipa"tra Sàvena e Reno; 1.18.62 e se di ciò vuoi fede o testimonio, 1.18.63 rècati a mente il nostro avaro seno». 1.18.64 Così parlando il percosse un demonio 1.18.65 de la sua scurïada, e disse: «Via, 1.18.66 ruffian! qui non son femmine da conio». 1.18.67 I' mi raggiunsi con la scorta mia; 1.18.68 poscia con pochi passi divenimmo 1.18.69 là 'v' uno scoglio de la ripa uscia. 1.18.70 Assai leggeramente quel salimmo; 1.18.71 e vòlti a destra su per la sua scheggia, 1.18.72 da quelle cerchie etterne ci partimmo. 1.18.73 Quando noi fummo là dov' el vaneggia 1.18.74 di sotto per dar passo a li sferzati, 1.18.75 lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia 1.18.76 lo viso in te di quest' altri mal nati, 1.18.77 ai quali ancor non vedesti la faccia 1.18.78 però che son con noi insieme andati». 1.18.79 Del vecchio ponte guardavam la traccia 1.18.80 che venìa verso noi da l' altra banda, 1.18.81 e che la ferza similmente scaccia. 1.18.82 E 'l buon maestro, sanza mia dimanda, 1.18.83 mi disse: «Guarda quel grande che vene, 1.18.84 e per dolor non par lagrime spanda: 1.18.85 quanto aspetto reale ancor ritene! 1.18.86 Quelli è Iasón, che per cuore e per senno 1.18.87 li Colchi del monton privati féne. 1.18.88 Ello passò per l' isola di Lenno 1.18.89 poi che l' ardite femmine spietate 1.18.90 tutti li maschi loro a morte dienno. 1.18.91 Ivi con segni e con parole ornate 1.18.92 Isifile ingannò, la giovinetta 1.18.93 che prima avea tutte l' altre ingannate. 1.18.94 Lasciolla quivi, gravida, soletta; 1.18.95 tal colpa a tal martiro lui condanna; 1.18.96 e anche di Medea si fa vendetta. 1.18.97 Con lui sen va chi da tal parte inganna; 1.18.98 e questo basti de la prima valle 1.18.99 sapere e di color che 'n sé assanna». 1.18.100 Già eravam là 've lo stretto calle 1.18.101 con l' argine secondo s' incrocicchia, 1.18.102 e fa di quello ad un altr' arco spalle. 1.18.103 Quindi sentimmo gente che si nicchia 1.18.104 ne l' altra bolgia e che col muso scuffa, 1.18.105 e sé medesma con le palme picchia. 1.18.106 Le ripe eran grommate d' una muffa, 1.18.107 per l' alito di giù che vi s' appasta, 1.18.108 che con li occhi e col naso facea zuffa. 1.18.109 Lo fondo è cupo sì, che non ci basta 1.18.110 loco a veder sanza montare al dosso 1.18.111 de l' arco, ove lo scoglio più sovrasta. 1.18.112 Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso 1.18.113 vidi gente attuffata in uno sterco 1.18.114 che da li uman privadi parea mosso. 1.18.115 E mentre ch' io là giù con l' occhio cerco, 1.18.116 vidi un col capo sì di merda lordo, 1.18.117 che non parëa s' era laico o cherco. 1.18.118 Quei mi sgridò: «Perché se' tu sì gordo 1.18.119 di riguardar più me che li altri brutti?». 1.18.120 E io a lui: «Perché, se ben ricordo, 1.18.121 già t' ho veduto coi capelli asciutti, 1.18.122 e se' Alessio Interminei da Lucca: 1.18.123 però t' adocchio più che li altri tutti». 1.18.124 Ed elli allor, battendosi la zucca: 1.18.125 «Qua giù m' hanno sommerso le lusinghe 1.18.126 ond' io non ebbi mai la lingua stucca». 1.18.127 Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe», 1.18.128 mi disse, «il viso un poco più avante, 1.18.129 sì che la faccia ben con l' occhio attinghe 1.18.130 di quella sozza e scapigliata fante 1.18.131 che là si graffia con l' unghie merdose, 1.18.132 e or s' accoscia e ora è in piedi stante. 1.18.133 Täide è, la puttana che rispuose 1.18.134 al drudo suo quando disse "Ho io grazie 1.18.135 grandi apo te?": "Anzi maravigliose!". 1.18.136 E quinci sian le nostre viste sazie».
CANTO XIX
1.19.1 O Simon mago, o miseri seguaci 1.19.2 che le cose di Dio, che di bontate 1.19.3 deon essere spose, e voi rapaci 1.19.4 per oro e per argento avolterate, 1.19.5 or convien che per voi suoni la tromba, 1.19.6 però che ne la terza bolgia state. 1.19.7 Già eravamo, a la seguente tomba, 1.19.8 montati de lo scoglio in quella parte 1.19.9 ch' a punto sovra mezzo 'l fosso piomba. 1.19.10 O somma sapïenza, quanta è l' arte 1.19.11 che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, 1.19.12 e quanto giusto tua virtù comparte! 1.19.13 Io vidi per le coste e per lo fondo 1.19.14 piena la pietra livida di fóri, 1.19.15 d' un largo tutti e ciascun era tondo. 1.19.16 Non mi parean men ampi né maggiori 1.19.17 che que' che son nel mio bel San Giovanni, 1.19.18 fatti per loco d' i battezzatori; 1.19.19 l' un de li quali, ancor non è molt' anni, 1.19.20 rupp' io per un che dentro v' annegava: 1.19.21 e questo sia suggel ch' ogn' omo sganni. 1.19.22 Fuor de la bocca a ciascun soperchiava 1.19.23 d' un peccator li piedi e de le gambe 1.19.24 infino al grosso, e l' altro dentro stava. 1.19.25 Le piante erano a tutti accese intrambe; 1.19.26 per che sì forte guizzavan le giunte, 1.19.27 che spezzate averien ritorte e strambe. 1.19.28 Qual suole il fiammeggiar de le cose unte 1.19.29 muoversi pur su per la strema buccia, 1.19.30 tal era lì dai calcagni a le punte. 1.19.31 «Chi è colui, maestro, che si cruccia 1.19.32 guizzando più che li altri suoi consorti», 1.19.33 diss' io, «e cui più roggia fiamma succia?». 1.19.34 Ed elli a me: «Se tu vuo' ch' i' ti porti 1.19.35 là giù per quella ripa che più giace, 1.19.36 da lui saprai di sé e de' suoi torti». 1.19.37 E io: «Tanto m' è bel, quanto a te piace: 1.19.38 tu se' segnore, e sai ch' i' non mi parto 1.19.39 dal tuo volere, e sai quel che si tace». 1.19.40 Allor venimmo in su l' argine quarto; 1.19.41 volgemmo e discendemmo a mano stanca 1.19.42 là giù nel fondo foracchiato e arto. 1.19.43 Lo buon maestro ancor de la sua anca 1.19.44 non mi dipuose, sì mi giunse al rotto 1.19.45 di quel che si piangeva con la zanca. 1.19.46 «O qual che se' che 'l di sù tien di sotto, 1.19.47 anima trista come pal commessa», 1.19.48 comincia' io a dir, «se puoi, fa motto». 1.19.49 Io stava come 'l frate che confessa 1.19.50 lo perfido assessin, che, poi ch' è fitto, 1.19.51 richiama lui per che la morte cessa. 1.19.52 Ed el gridò: «Se' tu già costì ritto, 1.19.53 se' tu già costì ritto, Bonifazio? 1.19.54 Di parecchi anni mi mentì lo scritto. 1.19.55 Se' tu sì tosto di quell' aver sazio 1.19.56 per lo qual non temesti tòrre a 'nganno 1.19.57 la bella donna, e poi di farne strazio?». 1.19.58 Tal mi fec' io, quai son color che stanno, 1.19.59 per non intender ciò ch' è lor risposto, 1.19.60 quasi scornati, e risponder non sanno. 1.19.61 Allor Virgilio disse: «Dilli tosto: 1.19.62 "Non son colui, non son colui che credi"»; 1.19.63 e io rispuosi come a me fu imposto. 1.19.64 Per che lo spirto tutti storse i piedi; 1.19.65 poi, sospirando e con voce di pianto, 1.19.66 mi disse: «Dunque che a me richiedi? 1.19.67 Se di saper ch' i' sia ti cal cotanto, 1.19.68 che tu abbi però la ripa corsa, 1.19.69 sappi ch' i' fui vestito del gran manto; 1.19.70 e veramente fui figliuol de l' orsa, 1.19.71 cupido sì per avanzar li orsatti, 1.19.72 che sù l' avere e qui me misi in borsa. 1.19.73 Di sotto al capo mio son li altri tratti 1.19.74 che precedetter me simoneggiando, 1.19.75 per le fessure de la pietra piatti. 1.19.76 Là giù cascherò io altresì quando 1.19.77 verrà colui ch' i' credea che tu fossi, 1.19.78 allor ch' i' feci 'l sùbito dimando. 1.19.79 Ma più è 'l tempo già che i piè mi cossi 1.19.80 e ch' i' son stato così sottosopra, 1.19.81 ch' el non starà piantato coi piè rossi: 1.19.82 ché dopo lui verrà di più laida opra, 1.19.83 di ver' ponente, un pastor sanza legge, 1.19.84 tal che convien che lui e me ricuopra. 1.19.85 Nuovo Iasón sarà, di cui si legge 1.19.86 ne' Maccabei; e come a quel fu molle 1.19.87 suo re, così fia lui chi Francia regge». 1.19.88 Io non so s' i' mi fui qui troppo folle, 1.19.89 ch' i' pur rispuosi lui a questo metro: 1.19.90 «Deh, or mi dì: quanto tesoro volle 1.19.91 Nostro Segnore in prima da san Pietro 1.19.92 ch' ei ponesse le chiavi in sua balìa? 1.19.93 Certo non chiese se non "Viemmi retro". 1.19.94 Né Pier né li altri tolsero a Matia 1.19.95 oro od argento, quando fu sortito 1.19.96 al loco che perdé l' anima ria. 1.19.97 Però ti sta, ché tu se' ben punito; 1.19.98 e guarda ben la mal tolta moneta 1.19.99 ch' esser ti fece contra Carlo ardito. 1.19.100 E se non fosse ch' ancor lo mi vieta 1.19.101 la reverenza de le somme chiavi 1.19.102 che tu tenesti ne la vita lieta, 1.19.103 io userei parole ancor più gravi; 1.19.104 ché la vostra avarizia il mondo attrista, 1.19.105 calcando i buoni e sollevando i pravi. 1.19.106 Di voi pastor s' accorse il Vangelista, 1.19.107 quando colei che siede sopra l' acque 1.19.108 puttaneggiar coi regi a lui fu vista; 1.19.109 quella che con le sette teste nacque, 1.19.110 e da le diece corna ebbe argomento, 1.19.111 fin che virtute al suo marito piacque. 1.19.112 Fatto v' avete dio d' oro e d' argento; 1.19.113 e che altro è da voi a l' idolatre, 1.19.114 se non ch' elli uno, e voi ne orate cento? 1.19.115 Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, 1.19.116 non la tua conversion, ma quella dote 1.19.117 che da te prese il primo ricco patre!». 1.19.118 E mentr' io li cantava cotai note, 1.19.119 o ira o coscïenza che 'l mordesse, 1.19.120 forte spingava con ambo le piote. 1.19.121 I' credo ben ch' al mio duca piacesse, 1.19.122 con sì contenta labbia sempre attese 1.19.123 lo suon de le parole vere espresse. 1.19.124 Però con ambo le braccia mi prese; 1.19.125 e poi che tutto su mi s' ebbe al petto, 1.19.126 rimontò per la via onde discese. 1.19.127 Né si stancò d' avermi a sé distretto, 1.19.128 sì men portò sovra 'l colmo de l' arco 1.19.129 che dal quarto al quinto argine è tragetto. 1.19.130 Quivi soavemente spuose il carco, 1.19.131 soave per lo scoglio sconcio ed erto 1.19.132 che sarebbe a le capre duro varco. 1.19.133 Indi un altro vallon mi fu scoperto.
CANTO XX
1.20.1 Di nova pena mi conven far versi 1.20.2 e dar matera al ventesimo canto 1.20.3 de la prima canzon, ch' è d' i sommersi. 1.20.4 Io era già disposto tutto quanto 1.20.5 a riguardar ne lo scoperto fondo, 1.20.6 che si bagnava d' angoscioso pianto; 1.20.7 e vidi gente per lo vallon tondo 1.20.8 venir, tacendo e lagrimando, al passo 1.20.9 che fanno le letane in questo mondo. 1.20.10 Come 'l viso mi scese in lor più basso, 1.20.11 mirabilmente apparve esser travolto 1.20.12 ciascun tra 'l mento e 'l principio del casso, 1.20.13 ché da le reni era tornato 'l volto, 1.20.14 e in dietro venir li convenia, 1.20.15 perché 'l veder dinanzi era lor tolto. 1.20.16 Forse per forza già di parlasia 1.20.17 si travolse così alcun del tutto; 1.20.18 ma io nol vidi, né credo che sia. 1.20.19 Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto 1.20.20 di tua lezione, or pensa per te stesso 1.20.21 com' io potea tener lo viso asciutto, 1.20.22 quando la nostra imagine di presso 1.20.23 vidi sì torta, che 'l pianto de li occhi 1.20.24 le natiche bagnava per lo fesso. 1.20.25 Certo io piangea, poggiato a un de' rocchi 1.20.26 del duro scoglio, sì che la mia scorta 1.20.27 mi disse: «Ancor se' tu de li altri sciocchi? 1.20.28 Qui vive la pietà quand' è ben morta; 1.20.29 chi è più scellerato che colui 1.20.30 che al giudicio divin passion comporta? 1.20.31 Drizza la testa, drizza, e vedi a cui 1.20.32 s' aperse a li occhi d' i Teban la terra; 1.20.33 per ch' ei gridavan tutti: "Dove rui, 1.20.34 Anfïarao? perché lasci la guerra?". 1.20.35 E non restò di ruinare a valle 1.20.36 fino a Minòs che ciascheduno afferra. 1.20.37 Mira c' ha fatto petto de le spalle; 1.20.38 perché volse veder troppo davante, 1.20.39 di retro guarda e fa retroso calle. 1.20.40 Vedi Tiresia, che mutò sembiante 1.20.41 quando di maschio femmina divenne, 1.20.42 cangiandosi le membra tutte quante; 1.20.43 e prima, poi, ribatter li convenne 1.20.44 li duo serpenti avvolti, con la verga, 1.20.45 che rïavesse le maschili penne. 1.20.46 Aronta è quel ch' al ventre li s' atterga, 1.20.47 che ne' monti di Luni, dove ronca 1.20.48 lo Carrarese che di sotto alberga, 1.20.49 ebbe tra ' bianchi marmi la spelonca 1.20.50 per sua dimora; onde a guardar le stelle 1.20.51 e 'l mar non li era la veduta tronca. 1.20.52 E quella che ricuopre le mammelle, 1.20.53 che tu non vedi, con le trecce sciolte, 1.20.54 e ha di là ogne pilosa pelle, 1.20.55 Manto fu, che cercò per terre molte; 1.20.56 poscia si puose là dove nacqu' io; 1.20.57 onde un poco mi piace che m' ascolte. 1.20.58 Poscia che 'l padre suo di vita uscìo 1.20.59 e venne serva la città di Baco, 1.20.60 questa gran tempo per lo mondo gio. 1.20.61 Suso in Italia bella giace un laco, 1.20.62 a piè de l' Alpe che serra Lamagna 1.20.63 sovra Tiralli, c' ha nome Benaco. 1.20.64 Per mille fonti, credo, e più si bagna 1.20.65 tra Garda e Val Camonica e Pennino 1.20.66 de l' acqua che nel detto laco stagna. 1.20.67 Loco è nel mezzo là dove 'l trentino 1.20.68 pastore e quel di Brescia e 'l veronese 1.20.69 segnar poria, s' e' fesse quel cammino. 1.20.70 Siede Peschiera, bello e forte arnese 1.20.71 da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi, 1.20.72 ove la riva 'ntorno più discese. 1.20.73 Ivi convien che tutto quanto caschi 1.20.74 ciò che 'n grembo a Benaco star non può, 1.20.75 e fassi fiume giù per verdi paschi. 1.20.76 Tosto che l' acqua a correr mette co, 1.20.77 non più Benaco, ma Mencio si chiama 1.20.78 fino a Governol, dove cade in Po. 1.20.79 Non molto ha corso, ch' el trova una lama, 1.20.80 ne la qual si distende e la 'mpaluda; 1.20.81 e suol di state talor esser grama. 1.20.82 Quindi passando la vergine cruda 1.20.83 vide terra, nel mezzo del pantano, 1.20.84 sanza coltura e d' abitanti nuda. 1.20.85 Lì, per fuggire ogne consorzio umano, 1.20.86 ristette con suoi servi a far sue arti, 1.20.87 e visse, e vi lasciò suo corpo vano. 1.20.88 Li uomini poi che 'ntorno erano sparti 1.20.89 s' accolsero a quel loco, ch' era forte 1.20.90 per lo pantan ch' avea da tutte parti. 1.20.91 Fer la città sovra quell' ossa morte; 1.20.92 e per colei che 'l loco prima elesse, 1.20.93 Mantüa l' appellar sanz' altra sorte. 1.20.94 Già fuor le genti sue dentro più spesse, 1.20.95 prima che la mattia da Casalodi 1.20.96 da Pinamonte inganno ricevesse. 1.20.97 Però t' assenno che, se tu mai odi 1.20.98 originar la mia terra altrimenti, 1.20.99 la verità nulla menzogna frodi». 1.20.100 E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti 1.20.101 mi son sì certi e prendon sì mia fede, 1.20.102 che li altri mi sarien carboni spenti. 1.20.103 Ma dimmi, de la gente che procede, 1.20.104 se tu ne vedi alcun degno di nota; 1.20.105 ché solo a ciò la mia mente rifiede». 1.20.106 Allor mi disse: «Quel che da la gota 1.20.107 porge la barba in su le spalle brune, 1.20.108 fu --quando Grecia fu di maschi vòta, 1.20.109 sì ch' a pena rimaser per le cune -- 1.20.110 augure, e diede 'l punto con Calcanta 1.20.111 in Aulide a tagliar la prima fune. 1.20.112 Euripilo ebbe nome, e così 'l canta 1.20.113 l' alta mia tragedìa in alcun loco: 1.20.114 ben lo sai tu che la sai tutta quanta. 1.20.115 Quell' altro che ne' fianchi è così poco, 1.20.116 Michele Scotto fu, che veramente 1.20.117 de le magiche frode seppe 'l gioco. 1.20.118 Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente, 1.20.119 ch' avere inteso al cuoio e a lo spago 1.20.120 ora vorrebbe, ma tardi si pente. 1.20.121 Vedi le triste che lasciaron l' ago, 1.20.122 la spuola e 'l fuso, e fecersi 'ndivine; 1.20.123 fecer malie con erbe e con imago. 1.20.124 Ma vienne omai, ché già tiene 'l confine 1.20.125 d' amendue li emisperi e tocca l' onda 1.20.126 sotto Sobilia Caino e le spine; 1.20.127 e già iernotte fu la luna tonda: 1.20.128 ben ten de' ricordar, ché non ti nocque 1.20.129 alcuna volta per la selva fonda». 1.20.130 Sì mi parlava, e andavamo introcque.
CANTO XXI
1.21.1 Così di ponte in ponte, altro parlando 1.21.2 che la mia comedìa cantar non cura, 1.21.3 venimmo; e tenavamo 'l colmo, quando 1.21.4 restammo per veder l' altra fessura 1.21.5 di Malebolge e li altri pianti vani; 1.21.6 e vidila mirabilmente oscura. 1.21.7 Quale ne l' arzanà de' Viniziani 1.21.8 bolle l' inverno la tenace pece 1.21.9 a rimpalmare i legni lor non sani, 1.21.10 ché navicar non ponno --in quella vece 1.21.11 chi fa suo legno novo e chi ristoppa 1.21.12 le coste a quel che più vïaggi fece; 1.21.13 chi ribatte da proda e chi da poppa; 1.21.14 altri fa remi e altri volge sarte; 1.21.15 chi terzeruolo e artimon rintoppa --: 1.21.16 tal, non per foco ma per divin' arte, 1.21.17 bollia là giuso una pegola spessa, 1.21.18 che 'nviscava la ripa d' ogne parte. 1.21.19 I' vedea lei, ma non vedëa in essa 1.21.20 mai che le bolle che 'l bollor levava, 1.21.21 e gonfiar tutta, e riseder compressa. 1.21.22 Mentr' io là giù fisamente mirava, 1.21.23 lo duca mio, dicendo «Guarda, guarda!», 1.21.24 mi trasse a sé del loco dov' io stava. 1.21.25 Allor mi volsi come l' uom cui tarda 1.21.26 di veder quel che li convien fuggire 1.21.27 e cui paura sùbita sgagliarda, 1.21.28 che, per veder, non indugia 'l partire: 1.21.29 e vidi dietro a noi un diavol nero 1.21.30 correndo su per lo scoglio venire. 1.21.31 Ahi quant' elli era ne l' aspetto fero! 1.21.32 e quanto mi parea ne l' atto acerbo, 1.21.33 con l' ali aperte e sovra i piè leggero! 1.21.34 L' omero suo, ch' era aguto e superbo, 1.21.35 carcava un peccator con ambo l' anche, 1.21.36 e quei tenea de' piè ghermito 'l nerbo. 1.21.37 Del nostro ponte disse: «O Malebranche, 1.21.38 ecco un de li anzïan di Santa Zita! 1.21.39 Mettetel sotto, ch' i' torno per anche 1.21.40 a quella terra, che n' è ben fornita: 1.21.41 ogn' uom v' è barattier, fuor che Bonturo; 1.21.42 del no, per li denar, vi si fa ita». 1.21.43 Là giù 'l buttò, e per lo scoglio duro 1.21.44 si volse; e mai non fu mastino sciolto 1.21.45 con tanta fretta a seguitar lo furo. 1.21.46 Quel s' attuffò, e tornò sù convolto; 1.21.47 ma i demon che del ponte avean coperchio, 1.21.48 gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto! 1.21.49 qui si nuota altrimenti che nel Serchio! 1.21.50 Però, se tu non vuo' di nostri graffi, 1.21.51 non far sopra la pegola soverchio». 1.21.52 Poi l' addentar con più di cento raffi, 1.21.53 disser: «Coverto convien che qui balli, 1.21.54 sì che, se puoi, nascosamente accaffi». 1.21.55 Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli 1.21.56 fanno attuffare in mezzo la caldaia 1.21.57 la carne con li uncin, perché non galli. 1.21.58 Lo buon maestro «Acciò che non si paia 1.21.59 che tu ci sia», mi disse, «giù t' acquatta 1.21.60 dopo uno scheggio, ch' alcun schermo t' aia; 1.21.61 e per nulla offension che mi sia fatta, 1.21.62 non temer tu, ch' i' ho le cose conte, 1.21.63 per ch' altra volta fui a tal baratta». 1.21.64 Poscia passò di là dal co del ponte; 1.21.65 e com' el giunse in su la ripa sesta, 1.21.66 mestier li fu d' aver sicura fronte. 1.21.67 Con quel furore e con quella tempesta 1.21.68 ch' escono i cani a dosso al poverello 1.21.69 che di sùbito chiede ove s' arresta, 1.21.70 usciron quei di sotto al ponticello, 1.21.71 e volser contra lui tutt' i runcigli; 1.21.72 ma el gridò: «Nessun di voi sia fello! 1.21.73 Innanzi che l' uncin vostro mi pigli, 1.21.74 traggasi avante l' un di voi che m' oda, 1.21.75 e poi d' arruncigliarmi si consigli». 1.21.76 Tutti gridaron: «Vada Malacoda!»; 1.21.77 per ch' un si mosse --e li altri stetter fermi -- 1.21.78 e venne a lui dicendo: «Che li approda?». 1.21.79 «Credi tu, Malacoda, qui vedermi 1.21.80 esser venuto», disse 'l mio maestro, 1.21.81 «sicuro già da tutti vostri schermi, 1.21.82 sanza voler divino e fato destro? 1.21.83 Lascian' andar, ché nel cielo è voluto 1.21.84 ch' i' mostri altrui questo cammin silvestro». 1.21.85 Allor li fu l' orgoglio sì caduto, 1.21.86 ch' e' si lasciò cascar l' uncino a' piedi, 1.21.87 e disse a li altri: «Omai non sia feruto». 1.21.88 E 'l duca mio a me: «O tu che siedi 1.21.89 tra li scheggion del ponte quatto quatto, 1.21.90 sicuramente omai a me ti riedi». 1.21.91 Per ch' io mi mossi e a lui venni ratto; 1.21.92 e i diavoli si fecer tutti avanti, 1.21.93 sì ch' io temetti ch' ei tenesser patto; 1.21.94 così vid' ïo già temer li fanti 1.21.95 ch' uscivan patteggiati di Caprona, 1.21.96 veggendo sé tra nemici cotanti. 1.21.97 I' m' accostai con tutta la persona 1.21.98 lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi 1.21.99 da la sembianza lor ch' era non buona. 1.21.100 Ei chinavan li raffi e «Vuo' che 'l tocchi», 1.21.101 diceva l' un con l' altro, «in sul groppone?». 1.21.102 E rispondien: «Sì, fa che gliel' accocchi». 1.21.103 Ma quel demonio che tenea sermone 1.21.104 col duca mio, si volse tutto presto 1.21.105 e disse: «Posa, posa, Scarmiglione!». 1.21.106 Poi disse a noi: «Più oltre andar per questo 1.21.107 iscoglio non si può, però che giace 1.21.108 tutto spezzato al fondo l' arco sesto. 1.21.109 E se l' andare avante pur vi piace, 1.21.110 andatevene su per questa grotta; 1.21.111 presso è un altro scoglio che via face. 1.21.112 Ier, più oltre cinqu' ore che quest' otta, 1.21.113 mille dugento con sessanta sei 1.21.114 anni compié che qui la via fu rotta. 1.21.115 Io mando verso là di questi miei 1.21.116 a riguardar s' alcun se ne sciorina; 1.21.117 gite con lor, che non saranno rei». 1.21.118 «Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina», 1.21.119 cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo; 1.21.120 e Barbariccia guidi la decina. 1.21.121 Libicocco vegn' oltre e Draghignazzo, 1.21.122 Cirïatto sannuto e Graffiacane 1.21.123 e Farfarello e Rubicante pazzo. 1.21.124 Cercate 'ntorno le boglienti pane; 1.21.125 costor sian salvi infino a l' altro scheggio 1.21.126 che tutto intero va sovra le tane». 1.21.127 «Omè, maestro, che è quel ch' i' veggio?», 1.21.128 diss' io, «deh, sanza scorta andianci soli, 1.21.129 se tu sa' ir; ch' i' per me non la cheggio. 1.21.130 Se tu se' sì accorto come suoli, 1.21.131 non vedi tu ch' e' digrignan li denti 1.21.132 e con le ciglia ne minaccian duoli?». 1.21.133 Ed elli a me: «Non vo' che tu paventi; 1.21.134 lasciali digrignar pur a lor senno, 1.21.135 ch' e' fanno ciò per li lessi dolenti». 1.21.136 Per l' argine sinistro volta dienno; 1.21.137 ma prima avea ciascun la lingua stretta 1.21.138 coi denti, verso lor duca, per cenno; 1.21.139 ed elli avea del cul fatto trombetta.
CANTO XXII
1.22.1 Io vidi già cavalier muover campo, 1.22.2 e cominciare stormo e far lor mostra, 1.22.3 e talvolta partir per loro scampo; 1.22.4 corridor vidi per la terra vostra, 1.22.5 o Aretini, e vidi gir gualdane, 1.22.6 fedir torneamenti e correr giostra; 1.22.7 quando con trombe, e quando con campane, 1.22.8 con tamburi e con cenni di castella, 1.22.9 e con cose nostrali e con istrane; 1.22.10 né già con sì diversa cennamella 1.22.11 cavalier vidi muover né pedoni, 1.22.12 né nave a segno di terra o di stella. 1.22.13 Noi andavam con li diece demoni. 1.22.14 Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa 1.22.15 coi santi, e in taverna coi ghiottoni. 1.22.16 Pur a la pegola era la mia 'ntesa, 1.22.17 per veder de la bolgia ogne contegno 1.22.18 e de la gente ch' entro v' era incesa. 1.22.19 Come i dalfini, quando fanno segno 1.22.20 a' marinar con l' arco de la schiena 1.22.21 che s' argomentin di campar lor legno, 1.22.22 talor così, ad alleggiar la pena, 1.22.23 mostrav' alcun de' peccatori 'l dosso 1.22.24 e nascondea in men che non balena. 1.22.25 E come a l' orlo de l' acqua d' un fosso 1.22.26 stanno i ranocchi pur col muso fuori, 1.22.27 sì che celano i piedi e l' altro grosso, 1.22.28 sì stavan d' ogne parte i peccatori; 1.22.29 ma come s' appressava Barbariccia, 1.22.30 così si ritraén sotto i bollori. 1.22.31 I' vidi, e anco il cor me n' accapriccia, 1.22.32 uno aspettar così, com' elli 'ncontra 1.22.33 ch' una rana rimane e l' altra spiccia; 1.22.34 e Graffiacan, che li era più di contra, 1.22.35 li arruncigliò le 'mpegolate chiome 1.22.36 e trassel sù, che mi parve una lontra. 1.22.37 I' sapea già di tutti quanti 'l nome, 1.22.38 sì li notai quando fuorono eletti, 1.22.39 e poi ch' e' si chiamaro, attesi come. 1.22.40 «O Rubicante, fa che tu li metti 1.22.41 li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!», 1.22.42 gridavan tutti insieme i maladetti. 1.22.43 E io: «Maestro mio, fa, se tu puoi, 1.22.44 che tu sappi chi è lo sciagurato 1.22.45 venuto a man de li avversari suoi». 1.22.46 Lo duca mio li s' accostò allato; 1.22.47 domandollo ond' ei fosse, e quei rispuose: 1.22.48 «I' fui del regno di Navarra nato. 1.22.49 Mia madre a servo d' un segnor mi puose, 1.22.50 che m' avea generato d' un ribaldo, 1.22.51 distruggitor di sé e di sue cose. 1.22.52 Poi fui famiglia del buon re Tebaldo; 1.22.53 quivi mi misi a far baratteria, 1.22.54 di ch' io rendo ragione in questo caldo». 1.22.55 E Cirïatto, a cui di bocca uscia 1.22.56 d' ogne parte una sanna come a porco, 1.22.57 li fé sentir come l' una sdruscia. 1.22.58 Tra male gatte era venuto 'l sorco; 1.22.59 ma Barbariccia il chiuse con le braccia 1.22.60 e disse: «State in là, mentr' io lo 'nforco». 1.22.61 E al maestro mio volse la faccia; 1.22.62 «Domanda», disse, «ancor, se più disii 1.22.63 saper da lui, prima ch' altri 'l disfaccia». 1.22.64 Lo duca dunque: «Or dì: de li altri rii 1.22.65 conosci tu alcun che sia latino 1.22.66 sotto la pece?». E quelli: «I' mi partii, 1.22.67 poco è, da un che fu di là vicino. 1.22.68 Così foss' io ancor con lui coperto, 1.22.69 ch' i' non temerei unghia né uncino!». 1.22.70 E Libicocco «Troppo avem sofferto», 1.22.71 disse; e preseli 'l braccio col runciglio, 1.22.72 sì che, stracciando, ne portò un lacerto. 1.22.73 Draghignazzo anco i volle dar di piglio 1.22.74 giuso a le gambe; onde 'l decurio loro 1.22.75 si volse intorno intorno con mal piglio. 1.22.76 Quand' elli un poco rappaciati fuoro, 1.22.77 a lui, ch' ancor mirava sua ferita, 1.22.78 domandò 'l duca mio sanza dimoro: 1.22.79 «Chi fu colui da cui mala partita 1.22.80 di' che facesti per venire a proda?». 1.22.81 Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita, 1.22.82 quel di Gallura, vasel d' ogne froda, 1.22.83 ch' ebbe i nemici di suo donno in mano, 1.22.84 e fé sì lor, che ciascun se ne loda. 1.22.85 Danar si tolse e lasciolli di piano, 1.22.86 sì com' e' dice; e ne li altri offici anche 1.22.87 barattier fu non picciol, ma sovrano. 1.22.88 Usa con esso donno Michel Zanche 1.22.89 di Logodoro; e a dir di Sardigna 1.22.90 le lingue lor non si sentono stanche. 1.22.91 Omè, vedete l' altro che digrigna; 1.22.92 i' direi anche, ma i' temo ch' ello 1.22.93 non s' apparecchi a grattarmi la tigna». 1.22.94 E 'l gran proposto, vòlto a Farfarello 1.22.95 che stralunava li occhi per fedire, 1.22.96 disse: «Fatti 'n costà, malvagio uccello!». 1.22.97 «Se voi volete vedere o udire», 1.22.98 ricominciò lo späurato appresso, 1.22.99 «Toschi o Lombardi, io ne farò venire; 1.22.100 ma stieno i Malebranche un poco in cesso, 1.22.101 sì ch' ei non teman de le lor vendette; 1.22.102 e io, seggendo in questo loco stesso, 1.22.103 per un ch' io son, ne farò venir sette 1.22.104 quand' io suffolerò, com' è nostro uso 1.22.105 di fare allor che fori alcun si mette». 1.22.106 Cagnazzo a cotal motto levò 'l muso, 1.22.107 crollando 'l capo, e disse: «Odi malizia 1.22.108 ch' elli ha pensata per gittarsi giuso!». 1.22.109 Ond' ei, ch' avea lacciuoli a gran divizia, 1.22.110 rispuose: «Malizioso son io troppo, 1.22.111 quand' io procuro a' mia maggior trestizia». 1.22.112 Alichin non si tenne e, di rintoppo 1.22.113 a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali, 1.22.114 io non ti verrò dietro di gualoppo, 1.22.115 ma batterò sovra la pece l' ali. 1.22.116 Lascisi 'l collo, e sia la ripa scudo, 1.22.117 a veder se tu sol più di noi vali». 1.22.118 O tu che leggi, udirai nuovo ludo: 1.22.119 ciascun da l' altra costa li occhi volse, 1.22.120 quel prima, ch' a ciò fare era più crudo. 1.22.121 Lo Navarrese ben suo tempo colse; 1.22.122 fermò le piante a terra, e in un punto 1.22.123 saltò e dal proposto lor si sciolse. 1.22.124 Di che ciascun di colpa fu compunto, 1.22.125 ma quei più che cagion fu del difetto; 1.22.126 però si mosse e gridò: «Tu se' giunto!». 1.22.127 Ma poco i valse: ché l' ali al sospetto 1.22.128 non potero avanzar; quelli andò sotto, 1.22.129 e quei drizzò volando suso il petto: 1.22.130 non altrimenti l' anitra di botto, 1.22.131 quando 'l falcon s' appressa, giù s' attuffa, 1.22.132 ed ei ritorna sù crucciato e rotto. 1.22.133 Irato Calcabrina de la buffa, 1.22.134 volando dietro li tenne, invaghito 1.22.135 che quei campasse per aver la zuffa; 1.22.136 e come 'l barattier fu disparito, 1.22.137 così volse li artigli al suo compagno, 1.22.138 e fu con lui sopra 'l fosso ghermito. 1.22.139 Ma l' altro fu bene sparvier grifagno 1.22.140 ad artigliar ben lui, e amendue 1.22.141 cadder nel mezzo del bogliente stagno. 1.22.142 Lo caldo sghermitor sùbito fue; 1.22.143 ma però di levarsi era neente, 1.22.144 sì avieno inviscate l' ali sue. 1.22.145 Barbariccia, con li altri suoi dolente, 1.22.146 quattro ne fé volar da l' altra costa 1.22.147 con tutt' i raffi, e assai prestamente 1.22.148 di qua, di là discesero a la posta; 1.22.149 porser li uncini verso li 'mpaniati, 1.22.150 ch' eran già cotti dentro da la crosta. 1.22.151 E noi lasciammo lor così 'mpacciati.
CANTO XXIII
1.23.1 Taciti, soli, sanza compagnia 1.23.2 n' andavam l' un dinanzi e l' altro dopo, 1.23.3 come frati minor vanno per via. 1.23.4 Vòlt' era in su la favola d' Isopo 1.23.5 lo mio pensier per la presente rissa, 1.23.6 dov' el parlò de la rana e del topo; 1.23.7 ché più non si pareggia "mo" e "issa" 1.23.8 che l' un con l' altro fa, se ben s' accoppia 1.23.9 principio e fine con la mente fissa. 1.23.10 E come l' un pensier de l' altro scoppia, 1.23.11 così nacque di quello un altro poi, 1.23.12 che la prima paura mi fé doppia. 1.23.13 Io pensava così: «Questi per noi 1.23.14 sono scherniti con danno e con beffa 1.23.15 sì fatta, ch' assai credo che lor nòi. 1.23.16 Se l' ira sovra 'l mal voler s' aggueffa, 1.23.17 ei ne verranno dietro più crudeli 1.23.18 che 'l cane a quella lievre ch' elli acceffa». 1.23.19 Già mi sentia tutti arricciar li peli 1.23.20 de la paura e stava in dietro intento, 1.23.21 quand' io dissi: «Maestro, se non celi 1.23.22 te e me tostamente, i' ho pavento 1.23.23 d' i Malebranche. Noi li avem già dietro; 1.23.24 io li 'magino sì, che già li sento». 1.23.25 E quei: «S' i' fossi di piombato vetro, 1.23.26 l' imagine di fuor tua non trarrei 1.23.27 più tosto a me, che quella dentro 'mpetro. 1.23.28 Pur mo venieno i tuo' pensier tra ' miei, 1.23.29 con simile atto e con simile faccia, 1.23.30 sì che d' intrambi un sol consiglio fei. 1.23.31 S' elli è che sì la destra costa giaccia, 1.23.32 che noi possiam ne l' altra bolgia scendere, 1.23.33 noi fuggirem l' imaginata caccia». 1.23.34 Già non compié di tal consiglio rendere, 1.23.35 ch' io li vidi venir con l' ali tese 1.23.36 non molto lungi, per volerne prendere. 1.23.37 Lo duca mio di sùbito mi prese, 1.23.38 come la madre ch' al romore è desta 1.23.39 e vede presso a sé le fiamme accese, 1.23.40 che prende il figlio e fugge e non s' arresta, 1.23.41 avendo più di lui che di sé cura, 1.23.42 tanto che solo una camiscia vesta; 1.23.43 e giù dal collo de la ripa dura 1.23.44 supin si diede a la pendente roccia, 1.23.45 che l' un de' lati a l' altra bolgia tura. 1.23.46 Non corse mai sì tosto acqua per doccia 1.23.47 a volger ruota di molin terragno, 1.23.48 quand' ella più verso le pale approccia, 1.23.49 come 'l maestro mio per quel vivagno, 1.23.50 portandosene me sovra 'l suo petto, 1.23.51 come suo figlio, non come compagno. 1.23.52 A pena fuoro i piè suoi giunti al letto 1.23.53 del fondo giù, ch' e' furon in sul colle 1.23.54 sovresso noi; ma non lì era sospetto: 1.23.55 ché l' alta provedenza che lor volle 1.23.56 porre ministri de la fossa quinta, 1.23.57 poder di partirs' indi a tutti tolle. 1.23.58 Là giù trovammo una gente dipinta 1.23.59 che giva intorno assai con lenti passi, 1.23.60 piangendo e nel sembiante stanca e vinta. 1.23.61 Elli avean cappe con cappucci bassi 1.23.62 dinanzi a li occhi, fatte de la taglia 1.23.63 che in Clugnì per li monaci fassi. 1.23.64 Di fuor dorate son, sì ch' elli abbaglia; 1.23.65 ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, 1.23.66 che Federigo le mettea di paglia. 1.23.67 Oh in etterno faticoso manto! 1.23.68 Noi ci volgemmo ancor pur a man manca 1.23.69 con loro insieme, intenti al tristo pianto; 1.23.70 ma per lo peso quella gente stanca 1.23.71 venìa sì pian, che noi eravam nuovi 1.23.72 di compagnia ad ogne mover d' anca. 1.23.73 Per ch' io al duca mio: «Fa che tu trovi 1.23.74 alcun ch' al fatto o al nome si conosca, 1.23.75 e li occhi, sì andando, intorno movi». 1.23.76 E un che 'ntese la parola tosca, 1.23.77 di retro a noi gridò: «Tenete i piedi, 1.23.78 voi che correte sì per l' aura fosca! 1.23.79 Forse ch' avrai da me quel che tu chiedi». 1.23.80 Onde 'l duca si volse e disse: «Aspetta, 1.23.81 e poi secondo il suo passo procedi». 1.23.82 Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta 1.23.83 de l' animo, col viso, d' esser meco; 1.23.84 ma tardavali 'l carco e la via stretta. 1.23.85 Quando fuor giunti, assai con l' occhio bieco 1.23.86 mi rimiraron sanza far parola; 1.23.87 poi si volsero in sé, e dicean seco: 1.23.88 «Costui par vivo a l' atto de la gola; 1.23.89 e s' e' son morti, per qual privilegio 1.23.90 vanno scoperti de la grave stola?». 1.23.91 Poi disser me: «O Tosco, ch' al collegio 1.23.92 de l' ipocriti tristi se' venuto, 1.23.93 dir chi tu se' non avere in dispregio». 1.23.94 E io a loro: «I' fui nato e cresciuto 1.23.95 sovra 'l bel fiume d' Arno a la gran villa, 1.23.96 e son col corpo ch' i' ho sempre avuto. 1.23.97 Ma voi chi siete, a cui tanto distilla 1.23.98 quant' i' veggio dolor giù per le guance? 1.23.99 e che pena è in voi che sì sfavilla?». 1.23.100 E l' un rispuose a me: «Le cappe rance 1.23.101 son di piombo sì grosse, che li pesi 1.23.102 fan così cigolar le lor bilance. 1.23.103 Frati godenti fummo, e bolognesi; 1.23.104 io Catalano e questi Loderingo 1.23.105 nomati, e da tua terra insieme presi 1.23.106 come suole esser tolto un uom solingo, 1.23.107 per conservar sua pace; e fummo tali, 1.23.108 ch' ancor si pare intorno dal Gardingo». 1.23.109 Io cominciai: «O frati, i vostri mali...»; 1.23.110 ma più non dissi, ch' a l' occhio mi corse 1.23.111 un, crucifisso in terra con tre pali. 1.23.112 Quando mi vide, tutto si distorse, 1.23.113 soffiando ne la barba con sospiri; 1.23.114 e 'l frate Catalan, ch' a ciò s' accorse, 1.23.115 mi disse: «Quel confitto che tu miri, 1.23.116 consigliò i Farisei che convenia 1.23.117 porre un uom per lo popolo a' martìri. 1.23.118 Attraversato è, nudo, ne la via, 1.23.119 come tu vedi, ed è mestier ch' el senta 1.23.120 qualunque passa, come pesa, pria. 1.23.121 E a tal modo il socero si stenta 1.23.122 in questa fossa, e li altri dal concilio 1.23.123 che fu per li Giudei mala sementa». 1.23.124 Allor vid' io maravigliar Virgilio 1.23.125 sovra colui ch' era disteso in croce 1.23.126 tanto vilmente ne l' etterno essilio. 1.23.127 Poscia drizzò al frate cotal voce: 1.23.128 «Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci 1.23.129 s' a la man destra giace alcuna foce 1.23.130 onde noi amendue possiamo uscirci, 1.23.131 sanza costrigner de li angeli neri 1.23.132 che vegnan d' esto fondo a dipartirci». 1.23.133 Rispuose adunque: «Più che tu non speri 1.23.134 s' appressa un sasso che da la gran cerchia 1.23.135 si move e varca tutt' i vallon feri, 1.23.136 salvo che 'n questo è rotto e nol coperchia; 1.23.137 montar potrete su per la ruina, 1.23.138 che giace in costa e nel fondo soperchia». 1.23.139 Lo duca stette un poco a testa china; 1.23.140 poi disse: «Mal contava la bisogna 1.23.141 colui che i peccator di qua uncina». 1.23.142 E 'l frate: «Io udi' già dire a Bologna 1.23.143 del diavol vizi assai, tra ' quali udi' 1.23.144 ch' elli è bugiardo e padre di menzogna». 1.23.145 Appresso il duca a gran passi sen gì, 1.23.146 turbato un poco d' ira nel sembiante; 1.23.147 ond' io da li 'ncarcati mi parti' 1.23.148 dietro a le poste de le care piante.
CANTO XXIV
1.24.1 In quella parte del giovanetto anno 1.24.2 che 'l sole i crin sotto l' Aquario tempra 1.24.3 e già le notti al mezzo dì sen vanno, 1.24.4 quando la brina in su la terra assempra 1.24.5 l' imagine di sua sorella bianca, 1.24.6 ma poco dura a la sua penna tempra, 1.24.7 lo villanello a cui la roba manca, 1.24.8 si leva, e guarda, e vede la campagna 1.24.9 biancheggiar tutta; ond' ei si batte l' anca, 1.24.10 ritorna in casa, e qua e là si lagna, 1.24.11 come 'l tapin che non sa che si faccia; 1.24.12 poi riede, e la speranza ringavagna, 1.24.13 veggendo 'l mondo aver cangiata faccia 1.24.14 in poco d' ora, e prende suo vincastro 1.24.15 e fuor le pecorelle a pascer caccia. 1.24.16 Così mi fece sbigottir lo mastro 1.24.17 quand' io li vidi sì turbar la fronte, 1.24.18 e così tosto al mal giunse lo 'mpiastro; 1.24.19 ché, come noi venimmo al guasto ponte, 1.24.20 lo duca a me si volse con quel piglio 1.24.21 dolce ch' io vidi prima a piè del monte. 1.24.22 Le braccia aperse, dopo alcun consiglio 1.24.23 eletto seco riguardando prima 1.24.24 ben la ruina, e diedemi di piglio. 1.24.25 E come quei ch' adopera ed estima, 1.24.26 che sempre par che 'nnanzi si proveggia, 1.24.27 così, levando me sù ver' la cima 1.24.28 d' un ronchione, avvisava un' altra scheggia 1.24.29 dicendo: «Sovra quella poi t' aggrappa; 1.24.30 ma tenta pria s' è tal ch' ella ti reggia». 1.24.31 Non era via da vestito di cappa, 1.24.32 ché noi a pena, ei lieve e io sospinto, 1.24.33 potavam sù montar di chiappa in chiappa. 1.24.34 E se non fosse che da quel precinto 1.24.35 più che da l' altro era la costa corta, 1.24.36 non so di lui, ma io sarei ben vinto. 1.24.37 Ma perché Malebolge inver' la porta 1.24.38 del bassissimo pozzo tutta pende, 1.24.39 lo sito di ciascuna valle porta 1.24.40 che l' una costa surge e l' altra scende; 1.24.41 noi pur venimmo al fine in su la punta 1.24.42 onde l' ultima pietra si scoscende. 1.24.43 La lena m' era del polmon sì munta 1.24.44 quand' io fui sù, ch' i' non potea più oltre, 1.24.45 anzi m' assisi ne la prima giunta. 1.24.46 «Omai convien che tu così ti spoltre», 1.24.47 disse 'l maestro; «ché, seggendo in piuma, 1.24.48 in fama non si vien, né sotto coltre; 1.24.49 sanza la qual chi sua vita consuma, 1.24.50 cotal vestigio in terra di sé lascia, 1.24.51 qual fummo in aere e in acqua la schiuma. 1.24.52 E però leva sù; vinci l' ambascia 1.24.53 con l' animo che vince ogne battaglia, 1.24.54 se col suo grave corpo non s' accascia. 1.24.55 Più lunga scala convien che si saglia; 1.24.56 non basta da costoro esser partito. 1.24.57 Se tu mi 'ntendi, or fa sì che ti vaglia». 1.24.58 Leva'mi allor, mostrandomi fornito 1.24.59 meglio di lena ch' i' non mi sentia, 1.24.60 e dissi: «Va, ch' i' son forte e ardito». 1.24.61 Su per lo scoglio prendemmo la via, 1.24.62 ch' era ronchioso, stretto e malagevole, 1.24.63 ed erto più assai che quel di pria. 1.24.64 Parlando andava per non parer fievole; 1.24.65 onde una voce uscì de l' altro fosso, 1.24.66 a parole formar disconvenevole. 1.24.67 Non so che disse, ancor che sovra 'l dosso 1.24.68 fossi de l' arco già che varca quivi; 1.24.69 ma chi parlava ad ire parea mosso. 1.24.70 Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi 1.24.71 non poteano ire al fondo per lo scuro; 1.24.72 per ch' io: «Maestro, fa che tu arrivi 1.24.73 da l' altro cinghio e dismontiam lo muro; 1.24.74 ché, com' i' odo quinci e non intendo, 1.24.75 così giù veggio e neente affiguro». 1.24.76 «Altra risposta», disse, «non ti rendo 1.24.77 se non lo far; ché la dimanda onesta 1.24.78 si de' seguir con l' opera tacendo». 1.24.79 Noi discendemmo il ponte da la testa 1.24.80 dove s' aggiugne con l' ottava ripa, 1.24.81 e poi mi fu la bolgia manifesta: 1.24.82 e vidivi entro terribile stipa 1.24.83 di serpenti, e di sì diversa mena 1.24.84 che la memoria il sangue ancor mi scipa. 1.24.85 Più non si vanti Libia con sua rena; 1.24.86 ché se chelidri, iaculi e faree 1.24.87 produce, e cencri con anfisibena, 1.24.88 né tante pestilenzie né sì ree 1.24.89 mostrò già mai con tutta l' Etïopia 1.24.90 né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe. 1.24.91 Tra questa cruda e tristissima copia 1.24.92 corrëan genti nude e spaventate, 1.24.93 sanza sperar pertugio o elitropia: 1.24.94 con serpi le man dietro avean legate; 1.24.95 quelle ficcavan per le ren la coda 1.24.96 e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate. 1.24.97 Ed ecco a un ch' era da nostra proda, 1.24.98 s' avventò un serpente che 'l trafisse 1.24.99 là dove 'l collo a le spalle s' annoda. 1.24.100 Né O sì tosto mai né I si scrisse, 1.24.101 com' el s' accese e arse, e cener tutto 1.24.102 convenne che cascando divenisse; 1.24.103 e poi che fu a terra sì distrutto, 1.24.104 la polver si raccolse per sé stessa 1.24.105 e 'n quel medesmo ritornò di butto. 1.24.106 Così per li gran savi si confessa 1.24.107 che la fenice more e poi rinasce, 1.24.108 quando al cinquecentesimo anno appressa; 1.24.109 erba né biado in sua vita non pasce, 1.24.110 ma sol d' incenso lagrime e d' amomo, 1.24.111 e nardo e mirra son l' ultime fasce. 1.24.112 E qual è quel che cade, e non sa como, 1.24.113 per forza di demon ch' a terra il tira, 1.24.114 o d' altra oppilazion che lega l' omo, 1.24.115 quando si leva, che 'ntorno si mira 1.24.116 tutto smarrito de la grande angoscia 1.24.117 ch' elli ha sofferta, e guardando sospira: 1.24.118 tal era 'l peccator levato poscia. 1.24.119 Oh potenza di Dio, quant' è severa, 1.24.120 che cotai colpi per vendetta croscia! 1.24.121 Lo duca il domandò poi chi ello era; 1.24.122 per ch' ei rispuose: «Io piovvi di Toscana, 1.24.123 poco tempo è, in questa gola fiera. 1.24.124 Vita bestial mi piacque e non umana, 1.24.125 sì come a mul ch' i' fui; son Vanni Fucci 1.24.126 bestia, e Pistoia mi fu degna tana». 1.24.127 E ïo al duca: «Dilli che non mucci, 1.24.128 e domanda che colpa qua giù 'l pinse; 1.24.129 ch' io 'l vidi omo di sangue e di crucci». 1.24.130 E 'l peccator, che 'ntese, non s' infinse, 1.24.131 ma drizzò verso me l' animo e 'l volto, 1.24.132 e di trista vergogna si dipinse; 1.24.133 poi disse: «Più mi duol che tu m' hai colto 1.24.134 ne la miseria dove tu mi vedi, 1.24.135 che quando fui de l' altra vita tolto. 1.24.136 Io non posso negar quel che tu chiedi; 1.24.137 in giù son messo tanto perch' io fui 1.24.138 ladro a la sagrestia d' i belli arredi, 1.24.139 e falsamente già fu apposto altrui. 1.24.140 Ma perché di tal vista tu non godi, 1.24.141 se mai sarai di fuor da' luoghi bui, 1.24.142 apri li orecchi al mio annunzio, e odi. 1.24.143 Pistoia in pria d' i Neri si dimagra; 1.24.144 poi Fiorenza rinova gente e modi. 1.24.145 Tragge Marte vapor di Val di Magra 1.24.146 ch' è di torbidi nuvoli involuto; 1.24.147 e con tempesta impetüosa e agra 1.24.148 sovra Campo Picen fia combattuto; 1.24.149 ond' ei repente spezzerà la nebbia, 1.24.150 sì ch' ogne Bianco ne sarà feruto. 1.24.151 E detto l' ho perché doler ti debbia!».
CANTO XXV
1.25.1 Al fine de le sue parole il ladro 1.25.2 le mani alzò con amendue le fiche, 1.25.3 gridando: «Togli, Dio, ch' a te le squadro!». 1.25.4 Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, 1.25.5 perch' una li s' avvolse allora al collo, 1.25.6 come dicesse "Non vo' che più diche"; 1.25.7 e un' altra a le braccia, e rilegollo, 1.25.8 ribadendo sé stessa sì dinanzi, 1.25.9 che non potea con esse dare un crollo. 1.25.10 Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi 1.25.11 d' incenerarti sì che più non duri, 1.25.12 poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi? 1.25.13 Per tutt' i cerchi de lo 'nferno scuri 1.25.14 non vidi spirto in Dio tanto superbo, 1.25.15 non quel che cadde a Tebe giù da' muri. 1.25.16 El si fuggì che non parlò più verbo; 1.25.17 e io vidi un centauro pien di rabbia 1.25.18 venir chiamando: «Ov' è, ov' è l' acerbo?». 1.25.19 Maremma non cred' io che tante n' abbia, 1.25.20 quante bisce elli avea su per la groppa 1.25.21 infin ove comincia nostra labbia. 1.25.22 Sovra le spalle, dietro da la coppa, 1.25.23 con l' ali aperte li giacea un draco; 1.25.24 e quello affuoca qualunque s' intoppa. 1.25.25 Lo mio maestro disse: «Questi è Caco, 1.25.26 che, sotto 'l sasso di monte Aventino, 1.25.27 di sangue fece spesse volte laco. 1.25.28 Non va co' suoi fratei per un cammino, 1.25.29 per lo furto che frodolente fece 1.25.30 del grande armento ch' elli ebbe a vicino; 1.25.31 onde cessar le sue opere biece 1.25.32 sotto la mazza d' Ercule, che forse 1.25.33 gliene diè cento, e non sentì le diece». 1.25.34 Mentre che sì parlava, ed el trascorse, 1.25.35 e tre spiriti venner sotto noi, 1.25.36 de' quai né io né 'l duca mio s' accorse, 1.25.37 se non quando gridar: «Chi siete voi?»; 1.25.38 per che nostra novella si ristette, 1.25.39 e intendemmo pur ad essi poi. 1.25.40 Io non li conoscea; ma ei seguette, 1.25.41 come suol seguitar per alcun caso, 1.25.42 che l' un nomar un altro convenette, 1.25.43 dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»; 1.25.44 per ch' io, acciò che 'l duca stesse attento, 1.25.45 mi puosi 'l dito su dal mento al naso. 1.25.46 Se tu se' or, lettore, a creder lento 1.25.47 ciò ch' io dirò, non sarà maraviglia, 1.25.48 ché io che 'l vidi, a pena il mi consento. 1.25.49 Com' io tenea levate in lor le ciglia, 1.25.50 e un serpente con sei piè si lancia 1.25.51 dinanzi a l' uno, e tutto a lui s' appiglia. 1.25.52 Co' piè di mezzo li avvinse la pancia 1.25.53 e con li anterïor le braccia prese; 1.25.54 poi li addentò e l' una e l' altra guancia; 1.25.55 li diretani a le cosce distese, 1.25.56 e miseli la coda tra 'mbedue 1.25.57 e dietro per le ren sù la ritese. 1.25.58 Ellera abbarbicata mai non fue 1.25.59 ad alber sì, come l' orribil fiera 1.25.60 per l' altrui membra avviticchiò le sue. 1.25.61 Poi s' appiccar, come di calda cera 1.25.62 fossero stati, e mischiar lor colore, 1.25.63 né l' un né l' altro già parea quel ch' era: 1.25.64 come procede innanzi da l' ardore, 1.25.65 per lo papiro suso, un color bruno 1.25.66 che non è nero ancora e 'l bianco more. 1.25.67 Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno 1.25.68 gridava: «Omè, Agnel, come ti muti! 1.25.69 Vedi che già non se' né due né uno». 1.25.70 Già eran li due capi un divenuti, 1.25.71 quando n' apparver due figure miste 1.25.72 in una faccia, ov' eran due perduti. 1.25.73 Fersi le braccia due di quattro liste; 1.25.74 le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso 1.25.75 divenner membra che non fuor mai viste. 1.25.76 Ogne primaio aspetto ivi era casso: 1.25.77 due e nessun l' imagine perversa 1.25.78 parea; e tal sen gio con lento passo. 1.25.79 Come 'l ramarro sotto la gran fersa 1.25.80 dei dì canicular, cangiando sepe, 1.25.81 folgore par se la via attraversa, 1.25.82 sì pareva, venendo verso l' epe 1.25.83 de li altri due, un serpentello acceso, 1.25.84 livido e nero come gran di pepe; 1.25.85 e quella parte onde prima è preso 1.25.86 nostro alimento, a l' un di lor trafisse; 1.25.87 poi cadde giuso innanzi lui disteso. 1.25.88 Lo trafitto 'l mirò, ma nulla disse; 1.25.89 anzi, co' piè fermati, sbadigliava 1.25.90 pur come sonno o febbre l' assalisse. 1.25.91 Elli 'l serpente e quei lui riguardava; 1.25.92 l' un per la piaga e l' altro per la bocca 1.25.93 fummavan forte, e 'l fummo si scontrava. 1.25.94 Taccia Lucano omai là dov' e' tocca 1.25.95 del misero Sabello e di Nasidio, 1.25.96 e attenda a udir quel ch' or si scocca. 1.25.97 Taccia di Cadmo e d' Aretusa Ovidio, 1.25.98 ché se quello in serpente e quella in fonte 1.25.99 converte poetando, io non lo 'nvidio; 1.25.100 ché due nature mai a fronte a fronte 1.25.101 non trasmutò sì ch' amendue le forme 1.25.102 a cambiar lor matera fosser pronte. 1.25.103 Insieme si rispuosero a tai norme, 1.25.104 che 'l serpente la coda in forca fesse, 1.25.105 e 'l feruto ristrinse insieme l' orme. 1.25.106 Le gambe con le cosce seco stesse 1.25.107 s' appiccar sì, che 'n poco la giuntura 1.25.108 non facea segno alcun che si paresse. 1.25.109 Togliea la coda fessa la figura 1.25.110 che si perdeva là, e la sua pelle 1.25.111 si facea molle, e quella di là dura. 1.25.112 Io vidi intrar le braccia per l' ascelle, 1.25.113 e i due piè de la fiera, ch' eran corti, 1.25.114 tanto allungar quanto accorciavan quelle. 1.25.115 Poscia li piè di rietro, insieme attorti, 1.25.116 diventaron lo membro che l' uom cela, 1.25.117 e 'l misero del suo n' avea due porti. 1.25.118 Mentre che 'l fummo l' uno e l' altro vela 1.25.119 di color novo, e genera 'l pel suso 1.25.120 per l' una parte e da l' altra il dipela, 1.25.121 l' un si levò e l' altro cadde giuso, 1.25.122 non torcendo però le lucerne empie, 1.25.123 sotto le quai ciascun cambiava muso. 1.25.124 Quel ch' era dritto, il trasse ver' le tempie, 1.25.125 e di troppa matera ch' in là venne 1.25.126 uscir li orecchi de le gote scempie; 1.25.127 ciò che non corse in dietro e si ritenne 1.25.128 di quel soverchio, fé naso a la faccia 1.25.129 e le labbra ingrossò quanto convenne. 1.25.130 Quel che giacëa, il muso innanzi caccia, 1.25.131 e li orecchi ritira per la testa 1.25.132 come face le corna la lumaccia; 1.25.133 e la lingua, ch' avëa unita e presta 1.25.134 prima a parlar, si fende, e la forcuta 1.25.135 ne l' altro si richiude; e 'l fummo resta. 1.25.136 L' anima ch' era fiera divenuta, 1.25.137 suffolando si fugge per la valle, 1.25.138 e l' altro dietro a lui parlando sputa. 1.25.139 Poscia li volse le novelle spalle, 1.25.140 e disse a l' altro: «I' vo' che Buoso corra, 1.25.141 com' ho fatt' io, carpon per questo calle». 1.25.142 Così vid' io la settima zavorra 1.25.143 mutare e trasmutare; e qui mi scusi 1.25.144 la novità se fior la penna abborra. 1.25.145 E avvegna che li occhi miei confusi 1.25.146 fossero alquanto e l' animo smagato, 1.25.147 non poter quei fuggirsi tanto chiusi, 1.25.148 ch' i' non scorgessi ben Puccio Sciancato; 1.25.149 ed era quel che sol, di tre compagni 1.25.150 che venner prima, non era mutato; 1.25.151 l' altr' era quel che tu, Gaville, piagni.
CANTO XXVI
1.26.1 Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande 1.26.2 che per mare e per terra batti l' ali, 1.26.3 e per lo 'nferno tuo nome si spande! 1.26.4 Tra li ladron trovai cinque cotali 1.26.5 tuoi cittadini onde mi ven vergogna, 1.26.6 e tu in grande orranza non ne sali. 1.26.7 Ma se presso al mattin del ver si sogna, 1.26.8 tu sentirai, di qua da picciol tempo, 1.26.9 di quel che Prato, non ch' altri, t' agogna. 1.26.10 E se già fosse, non saria per tempo. 1.26.11 Così foss' ei, da che pur esser dee! 1.26.12 ché più mi graverà, com' più m' attempo. 1.26.13 Noi ci partimmo, e su per le scalee 1.26.14 che n' avea fatto iborni a scender pria, 1.26.15 rimontò 'l duca mio e trasse mee; 1.26.16 e proseguendo la solinga via, 1.26.17 tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio 1.26.18 lo piè sanza la man non si spedia. 1.26.19 Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio 1.26.20 quando drizzo la mente a ciò ch' io vidi, 1.26.21 e più lo 'ngegno affreno ch' i' non soglio, 1.26.22 perché non corra che virtù nol guidi; 1.26.23 sì che, se stella bona o miglior cosa 1.26.24 m' ha dato 'l ben, ch' io stessi nol m' invidi. 1.26.25 Quante 'l villan ch' al poggio si riposa, 1.26.26 nel tempo che colui che 'l mondo schiara 1.26.27 la faccia sua a noi tien meno ascosa, 1.26.28 come la mosca cede a la zanzara, 1.26.29 vede lucciole giù per la vallea, 1.26.30 forse colà dov' e' vendemmia e ara: 1.26.31 di tante fiamme tutta risplendea 1.26.32 l' ottava bolgia, sì com' io m' accorsi 1.26.33 tosto che fui là 've 'l fondo parea. 1.26.34 E qual colui che si vengiò con li orsi 1.26.35 vide 'l carro d' Elia al dipartire, 1.26.36 quando i cavalli al cielo erti levorsi, 1.26.37 che nol potea sì con li occhi seguire, 1.26.38 ch' el vedesse altro che la fiamma sola, 1.26.39 sì come nuvoletta, in sù salire: 1.26.40 tal si move ciascuna per la gola 1.26.41 del fosso, ché nessuna mostra 'l furto, 1.26.42 e ogne fiamma un peccatore invola. 1.26.43 Io stava sovra 'l ponte a veder surto, 1.26.44 sì che s' io non avessi un ronchion preso, 1.26.45 caduto sarei giù sanz' esser urto. 1.26.46 E 'l duca, che mi vide tanto atteso, 1.26.47 disse: «Dentro dai fuochi son li spirti; 1.26.48 catun si fascia di quel ch' elli è inceso». 1.26.49 «Maestro mio», rispuos' io, «per udirti 1.26.50 son io più certo; ma già m' era avviso 1.26.51 che così fosse, e già voleva dirti: 1.26.52 chi è 'n quel foco che vien sì diviso 1.26.53 di sopra, che par surger de la pira 1.26.54 dov' Eteòcle col fratel fu miso?». 1.26.55 Rispuose a me: «Là dentro si martira 1.26.56 Ulisse e Dïomede, e così insieme 1.26.57 a la vendetta vanno come a l' ira; 1.26.58 e dentro da la lor fiamma si geme 1.26.59 l' agguato del caval che fé la porta 1.26.60 onde uscì de' Romani il gentil seme. 1.26.61 Piangevisi entro l' arte per che, morta, 1.26.62 Dëidamìa ancor si duol d' Achille, 1.26.63 e del Palladio pena vi si porta». 1.26.64 «S' ei posson dentro da quelle faville 1.26.65 parlar», diss' io, «maestro, assai ten priego 1.26.66 e ripriego, che 'l priego vaglia mille, 1.26.67 che non mi facci de l' attender niego 1.26.68 fin che la fiamma cornuta qua vegna; 1.26.69 vedi che del disio ver' lei mi piego!». 1.26.70 Ed elli a me: «La tua preghiera è degna 1.26.71 di molta loda, e io però l' accetto; 1.26.72 ma fa che la tua lingua si sostegna. 1.26.73 Lascia parlare a me, ch' i' ho concetto 1.26.74 ciò che tu vuoi; ch' ei sarebbero schivi, 1.26.75 perch' e' fuor greci, forse del tuo detto». 1.26.76 Poi che la fiamma fu venuta quivi 1.26.77 dove parve al mio duca tempo e loco, 1.26.78 in questa forma lui parlare audivi: 1.26.79 «O voi che siete due dentro ad un foco, 1.26.80 s' io meritai di voi mentre ch' io vissi, 1.26.81 s' io meritai di voi assai o poco 1.26.82 quando nel mondo li alti versi scrissi, 1.26.83 non vi movete; ma l' un di voi dica 1.26.84 dove, per lui, perduto a morir gissi». 1.26.85 Lo maggior corno de la fiamma antica 1.26.86 cominciò a crollarsi mormorando, 1.26.87 pur come quella cui vento affatica; 1.26.88 indi la cima qua e là menando, 1.26.89 come fosse la lingua che parlasse, 1.26.90 gittò voce di fuori e disse: «Quando 1.26.91 mi diparti' da Circe, che sottrasse 1.26.92 me più d' un anno là presso a Gaeta, 1.26.93 prima che sì Enëa la nomasse, 1.26.94 né dolcezza di figlio, né la pieta 1.26.95 del vecchio padre, né 'l debito amore 1.26.96 lo qual dovea Penelopè far lieta, 1.26.97 vincer potero dentro a me l' ardore 1.26.98 ch' i' ebbi a divenir del mondo esperto 1.26.99 e de li vizi umani e del valore; 1.26.100 ma misi me per l' alto mare aperto 1.26.101 sol con un legno e con quella compagna 1.26.102 picciola da la qual non fui diserto. 1.26.103 L' un lito e l' altro vidi infin la Spagna, 1.26.104 fin nel Morrocco, e l' isola d' i Sardi, 1.26.105 e l' altre che quel mare intorno bagna. 1.26.106 Io e ' compagni eravam vecchi e tardi 1.26.107 quando venimmo a quella foce stretta 1.26.108 dov' Ercule segnò li suoi riguardi 1.26.109 acciò che l' uom più oltre non si metta; 1.26.110 da la man destra mi lasciai Sibilia, 1.26.111 da l' altra già m' avea lasciata Setta. 1.26.112 "O frati", dissi, "che per cento milia 1.26.113 perigli siete giunti a l' occidente, 1.26.114 a questa tanto picciola vigilia 1.26.115 d' i nostri sensi ch' è del rimanente 1.26.116 non vogliate negar l' esperïenza, 1.26.117 di retro al sol, del mondo sanza gente. 1.26.118 Considerate la vostra semenza: 1.26.119 fatti non foste a viver come bruti, 1.26.120 ma per seguir virtute e canoscenza". 1.26.121 Li miei compagni fec' io sì aguti, 1.26.122 con questa orazion picciola, al cammino, 1.26.123 che a pena poscia li avrei ritenuti; 1.26.124 e volta nostra poppa nel mattino, 1.26.125 de' remi facemmo ali al folle volo, 1.26.126 sempre acquistando dal lato mancino. 1.26.127 Tutte le stelle già de l' altro polo 1.26.128 vedea la notte, e 'l nostro tanto basso, 1.26.129 che non surgëa fuor del marin suolo. 1.26.130 Cinque volte racceso e tante casso 1.26.131 lo lume era di sotto da la luna, 1.26.132 poi che 'ntrati eravam ne l' alto passo, 1.26.133 quando n' apparve una montagna, bruna 1.26.134 per la distanza, e parvemi alta tanto 1.26.135 quanto veduta non avëa alcuna. 1.26.136 Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; 1.26.137 ché de la nova terra un turbo nacque 1.26.138 e percosse del legno il primo canto. 1.26.139 Tre volte il fé girar con tutte l' acque; 1.26.140 a la quarta levar la poppa in suso 1.26.141 e la prora ire in giù, com' altrui piacque, 1.26.142 infin che 'l mar fu sovra noi richiuso».
CANTO XXVII
1.27.1 Già era dritta in sù la fiamma e queta 1.27.2 per non dir più, e già da noi sen gia 1.27.3 con la licenza del dolce poeta, 1.27.4 quand' un' altra, che dietro a lei venìa, 1.27.5 ne fece volger li occhi a la sua cima 1.27.6 per un confuso suon che fuor n' uscia. 1.27.7 Come 'l bue cicilian che mugghiò prima 1.27.8 col pianto di colui, e ciò fu dritto, 1.27.9 che l' avea temperato con sua lima, 1.27.10 mugghiava con la voce de l' afflitto, 1.27.11 sì che, con tutto che fosse di rame, 1.27.12 pur el pareva dal dolor trafitto; 1.27.13 così, per non aver via né forame 1.27.14 dal principio nel foco, in suo linguaggio 1.27.15 si convertïan le parole grame. 1.27.16 Ma poscia ch' ebber colto lor vïaggio 1.27.17 su per la punta, dandole quel guizzo 1.27.18 che dato avea la lingua in lor passaggio, 1.27.19 udimmo dire: «O tu a cu' io drizzo 1.27.20 la voce e che parlavi mo lombardo, 1.27.21 dicendo "Istra ten va, più non t' adizzo", 1.27.22 perch' io sia giunto forse alquanto tardo, 1.27.23 non t' incresca restare a parlar meco; 1.27.24 vedi che non incresce a me, e ardo! 1.27.25 Se tu pur mo in questo mondo cieco 1.27.26 caduto se' di quella dolce terra 1.27.27 latina ond' io mia colpa tutta reco, 1.27.28 dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; 1.27.29 ch' io fui d' i monti là intra Orbino 1.27.30 e 'l giogo di che Tever si diserra». 1.27.31 Io era in giuso ancora attento e chino, 1.27.32 quando il mio duca mi tentò di costa, 1.27.33 dicendo: «Parla tu; questi è latino». 1.27.34 E io, ch' avea già pronta la risposta, 1.27.35 sanza indugio a parlare incominciai: 1.27.36 «O anima che se' là giù nascosta, 1.27.37 Romagna tua non è, e non fu mai, 1.27.38 sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni; 1.27.39 ma 'n palese nessuna or vi lasciai. 1.27.40 Ravenna sta come stata è molt' anni: 1.27.41 l' aguglia da Polenta la si cova, 1.27.42 sì che Cervia ricuopre co' suoi vanni. 1.27.43 La terra che fé già la lunga prova 1.27.44 e di Franceschi sanguinoso mucchio, 1.27.45 sotto le branche verdi si ritrova. 1.27.46 E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio, 1.27.47 che fecer di Montagna il mal governo, 1.27.48 là dove soglion fan d' i denti succhio. 1.27.49 Le città di Lamone e di Santerno 1.27.50 conduce il lïoncel dal nido bianco, 1.27.51 che muta parte da la state al verno. 1.27.52 E quella cu' il Savio bagna il fianco, 1.27.53 così com' ella sie' tra 'l piano e 'l monte, 1.27.54 tra tirannia si vive e stato franco. 1.27.55 Ora chi se', ti priego che ne conte; 1.27.56 non esser duro più ch' altri sia stato, 1.27.57 se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte». 1.27.58 Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato 1.27.59 al modo suo, l' aguta punta mosse 1.27.60 di qua, di là, e poi diè cotal fiato: 1.27.61 «S' i' credesse che mia risposta fosse 1.27.62 a persona che mai tornasse al mondo, 1.27.63 questa fiamma staria sanza più scosse; 1.27.64 ma però che già mai di questo fondo 1.27.65 non tornò vivo alcun, s' i' odo il vero, 1.27.66 sanza tema d' infamia ti rispondo. 1.27.67 Io fui uom d' arme, e poi fui cordigliero, 1.27.68 credendomi, sì cinto, fare ammenda; 1.27.69 e certo il creder mio venìa intero, 1.27.70 se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, 1.27.71 che mi rimise ne le prime colpe; 1.27.72 e come e quare, voglio che m' intenda. 1.27.73 Mentre ch' io forma fui d' ossa e di polpe 1.27.74 che la madre mi diè, l' opere mie 1.27.75 non furon leonine, ma di volpe. 1.27.76 Li accorgimenti e le coperte vie 1.27.77 io seppi tutte, e sì menai lor arte, 1.27.78 ch' al fine de la terra il suono uscie. 1.27.79 Quando mi vidi giunto in quella parte 1.27.80 di mia etade ove ciascun dovrebbe 1.27.81 calar le vele e raccoglier le sarte, 1.27.82 ciò che pria mi piacëa, allor m' increbbe, 1.27.83 e pentuto e confesso mi rendei; 1.27.84 ahi miser lasso! e giovato sarebbe. 1.27.85 Lo principe d' i novi Farisei, 1.27.86 avendo guerra presso a Laterano, 1.27.87 e non con Saracin né con Giudei, 1.27.88 ché ciascun suo nimico era Cristiano, 1.27.89 e nessun era stato a vincer Acri 1.27.90 né mercatante in terra di Soldano, 1.27.91 né sommo officio né ordini sacri 1.27.92 guardò in sé, né in me quel capestro 1.27.93 che solea fare i suoi cinti più macri. 1.27.94 Ma come Costantin chiese Silvestro 1.27.95 d' entro Siratti a guerir de la lebbre, 1.27.96 così mi chiese questi per maestro 1.27.97 a guerir de la sua superba febbre; 1.27.98 domandommi consiglio, e io tacetti 1.27.99 perché le sue parole parver ebbre. 1.27.100 E' poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti; 1.27.101 finor t' assolvo, e tu m' insegna fare 1.27.102 sì come Penestrino in terra getti. 1.27.103 Lo ciel poss' io serrare e diserrare, 1.27.104 come tu sai; però son due le chiavi 1.27.105 che 'l mio antecessor non ebbe care". 1.27.106 Allor mi pinser li argomenti gravi 1.27.107 là 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio, 1.27.108 e dissi: "Padre, da che tu mi lavi 1.27.109 di quel peccato ov' io mo cader deggio, 1.27.110 lunga promessa con l' attender corto 1.27.111 ti farà trïunfar ne l' alto seggio". 1.27.112 Francesco venne poi, com' io fu' morto, 1.27.113 per me; ma un d' i neri cherubini 1.27.114 li disse: "Non portar; non mi far torto. 1.27.115 Venir se ne dee giù tra ' miei meschini 1.27.116 perché diede 'l consiglio frodolente, 1.27.117 dal quale in qua stato li sono a' crini; 1.27.118 ch' assolver non si può chi non si pente, 1.27.119 né pentere e volere insieme puossi 1.27.120 per la contradizion che nol consente". 1.27.121 Oh me dolente! come mi riscossi 1.27.122 quando mi prese dicendomi: "Forse 1.27.123 tu non pensavi ch' io löico fossi!". 1.27.124 A Minòs mi portò; e quelli attorse 1.27.125 otto volte la coda al dosso duro; 1.27.126 e poi che per gran rabbia la si morse, 1.27.127 disse: "Questi è d' i rei del foco furo"; 1.27.128 per ch' io là dove vedi son perduto, 1.27.129 e sì vestito, andando, mi rancuro». 1.27.130 Quand' elli ebbe 'l suo dir così compiuto, 1.27.131 la fiamma dolorando si partio, 1.27.132 torcendo e dibattendo 'l corno aguto. 1.27.133 Noi passamm' oltre, e io e 'l duca mio, 1.27.134 su per lo scoglio infino in su l' altr' arco 1.27.135 che cuopre 'l fosso in che si paga il fio 1.27.136 a quei che scommettendo acquistan carco.
CANTO XXVIII
1.28.1 Chi poria mai pur con parole sciolte 1.28.2 dicer del sangue e de le piaghe a pieno 1.28.3 ch' i' ora vidi, per narrar più volte? 1.28.4 Ogne lingua per certo verria meno 1.28.5 per lo nostro sermone e per la mente 1.28.6 c' hanno a tanto comprender poco seno. 1.28.7 S' el s' aunasse ancor tutta la gente 1.28.8 che già, in su la fortunata terra 1.28.9 di Puglia, fu del suo sangue dolente 1.28.10 per li Troiani e per la lunga guerra 1.28.11 che de l' anella fé sì alte spoglie, 1.28.12 come Livïo scrive, che non erra, 1.28.13 con quella che sentio di colpi doglie 1.28.14 per contastare a Ruberto Guiscardo; 1.28.15 e l' altra il cui ossame ancor s' accoglie 1.28.16 a Ceperan, là dove fu bugiardo 1.28.17 ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo, 1.28.18 dove sanz' arme vinse il vecchio Alardo; 1.28.19 e qual forato suo membro e qual mozzo 1.28.20 mostrasse, d' aequar sarebbe nulla 1.28.21 il modo de la nona bolgia sozzo. 1.28.22 Già veggia, per mezzul perdere o lulla, 1.28.23 com' io vidi un, così non si pertugia, 1.28.24 rotto dal mento infin dove si trulla. 1.28.25 Tra le gambe pendevan le minugia; 1.28.26 la corata pareva e 'l tristo sacco 1.28.27 che merda fa di quel che si trangugia. 1.28.28 Mentre che tutto in lui veder m' attacco, 1.28.29 guardommi e con le man s' aperse il petto, 1.28.30 dicendo: «Or vedi com' io mi dilacco! 1.28.31 vedi come storpiato è Mäometto! 1.28.32 Dinanzi a me sen va piangendo Alì, 1.28.33 fesso nel volto dal mento al ciuffetto. 1.28.34 E tutti li altri che tu vedi qui, 1.28.35 seminator di scandalo e di scisma 1.28.36 fuor vivi, e però son fessi così. 1.28.37 Un diavolo è qua dietro che n' accisma 1.28.38 sì crudelmente, al taglio de la spada 1.28.39 rimettendo ciascun di questa risma, 1.28.40 quand' avem volta la dolente strada; 1.28.41 però che le ferite son richiuse 1.28.42 prima ch' altri dinanzi li rivada. 1.28.43 Ma tu chi se' che 'n su lo scoglio muse, 1.28.44 forse per indugiar d' ire a la pena 1.28.45 ch' è giudicata in su le tue accuse?». 1.28.46 «Né morte 'l giunse ancor, né colpa 'l mena», 1.28.47 rispuose 'l mio maestro, «a tormentarlo; 1.28.48 ma per dar lui esperïenza piena, 1.28.49 a me, che morto son, convien menarlo 1.28.50 per lo 'nferno qua giù di giro in giro; 1.28.51 e quest' è ver così com' io ti parlo». 1.28.52 Più fuor di cento che, quando l' udiro, 1.28.53 s' arrestaron nel fosso a riguardarmi 1.28.54 per maraviglia, oblïando il martiro. 1.28.55 «Or dì a fra Dolcin dunque che s' armi, 1.28.56 tu che forse vedra' il sole in breve, 1.28.57 s' ello non vuol qui tosto seguitarmi, 1.28.58 sì di vivanda, che stretta di neve 1.28.59 non rechi la vittoria al Noarese, 1.28.60 ch' altrimenti acquistar non saria leve». 1.28.61 Poi che l' un piè per girsene sospese, 1.28.62 Mäometto mi disse esta parola; 1.28.63 indi a partirsi in terra lo distese. 1.28.64 Un altro, che forata avea la gola 1.28.65 e tronco 'l naso infin sotto le ciglia, 1.28.66 e non avea mai ch' una orecchia sola, 1.28.67 ristato a riguardar per maraviglia 1.28.68 con li altri, innanzi a li altri aprì la canna, 1.28.69 ch' era di fuor d' ogne parte vermiglia, 1.28.70 e disse: «O tu cui colpa non condanna 1.28.71 e cu' io vidi in su terra latina, 1.28.72 se troppa simiglianza non m' inganna, 1.28.73 rimembriti di Pier da Medicina, 1.28.74 se mai torni a veder lo dolce piano 1.28.75 che da Vercelli a Marcabò dichina. 1.28.76 E fa sapere a' due miglior da Fano, 1.28.77 a messer Guido e anco ad Angiolello, 1.28.78 che, se l' antiveder qui non è vano, 1.28.79 gittati saran fuor di lor vasello 1.28.80 e mazzerati presso a la Cattolica 1.28.81 per tradimento d' un tiranno fello. 1.28.82 Tra l' isola di Cipri e di Maiolica 1.28.83 non vide mai sì gran fallo Nettuno, 1.28.84 non da pirate, non da gente argolica. 1.28.85 Quel traditor che vede pur con l' uno, 1.28.86 e tien la terra che tale qui meco 1.28.87 vorrebbe di vedere esser digiuno, 1.28.88 farà venirli a parlamento seco; 1.28.89 poi farà sì, ch' al vento di Focara 1.28.90 non sarà lor mestier voto né preco». 1.28.91 E io a lui: «Dimostrami e dichiara, 1.28.92 se vuo' ch' i' porti sù di te novella, 1.28.93 chi è colui da la veduta amara». 1.28.94 Allor puose la mano a la mascella 1.28.95 d' un suo compagno e la bocca li aperse, 1.28.96 gridando: «Questi è desso, e non favella. 1.28.97 Questi, scacciato, il dubitar sommerse 1.28.98 in Cesare, affermando che 'l fornito 1.28.99 sempre con danno l' attender sofferse». 1.28.100 Oh quanto mi pareva sbigottito 1.28.101 con la lingua tagliata ne la strozza 1.28.102 Curïo, ch' a dir fu così ardito! 1.28.103 E un ch' avea l' una e l' altra man mozza, 1.28.104 levando i moncherin per l' aura fosca, 1.28.105 sì che 'l sangue facea la faccia sozza, 1.28.106 gridò: «Ricordera'ti anche del Mosca, 1.28.107 che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta", 1.28.108 che fu mal seme per la gente tosca». 1.28.109 E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»; 1.28.110 per ch' elli, accumulando duol con duolo, 1.28.111 sen gio come persona trista e matta. 1.28.112 Ma io rimasi a riguardar lo stuolo, 1.28.113 e vidi cosa ch' io avrei paura, 1.28.114 sanza più prova, di contarla solo; 1.28.115 se non che coscïenza m' assicura, 1.28.116 la buona compagnia che l' uom francheggia 1.28.117 sotto l' asbergo del sentirsi pura. 1.28.118 Io vidi certo, e ancor par ch' io 'l veggia, 1.28.119 un busto sanza capo andar sì come 1.28.120 andavan li altri de la trista greggia; 1.28.121 e 'l capo tronco tenea per le chiome, 1.28.122 pesol con mano a guisa di lanterna: 1.28.123 e quel mirava noi e dicea: «Oh me!». 1.28.124 Di sé facea a sé stesso lucerna, 1.28.125 ed eran due in uno e uno in due; 1.28.126 com' esser può, quei sa che sì governa. 1.28.127 Quando diritto al piè del ponte fue, 1.28.128 levò 'l braccio alto con tutta la testa 1.28.129 per appressarne le parole sue, 1.28.130 che fuoro: «Or vedi la pena molesta, 1.28.131 tu che, spirando, vai veggendo i morti: 1.28.132 vedi s' alcuna è grande come questa. 1.28.133 E perché tu di me novella porti, 1.28.134 sappi ch' i' son Bertram dal Bornio, quelli 1.28.135 che diedi al re giovane i ma' conforti. 1.28.136 Io feci il padre e 'l figlio in sé ribelli; 1.28.137 Achitofèl non fé più d' Absalone 1.28.138 e di Davìd coi malvagi punzelli. 1.28.139 Perch' io parti' così giunte persone, 1.28.140 partito porto il mio cerebro, lasso!, 1.28.141 dal suo principio ch' è in questo troncone. 1.28.142 Così s' osserva in me lo contrapasso».
CANTO XXIX
1.29.1 La molta gente e le diverse piaghe 1.29.2 avean le luci mie sì inebrïate, 1.29.3 che de lo stare a piangere eran vaghe. 1.29.4 Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate? 1.29.5 perché la vista tua pur si soffolge 1.29.6 là giù tra l' ombre triste smozzicate? 1.29.7 Tu non hai fatto sì a l' altre bolge; 1.29.8 pensa, se tu annoverar le credi, 1.29.9 che miglia ventidue la valle volge. 1.29.10 E già la luna è sotto i nostri piedi; 1.29.11 lo tempo è poco omai che n' è concesso, 1.29.12 e altro è da veder che tu non vedi». 1.29.13 «Se tu avessi», rispuos' io appresso, 1.29.14 «atteso a la cagion per ch' io guardava, 1.29.15 forse m' avresti ancor lo star dimesso». 1.29.16 Parte sen giva, e io retro li andava, 1.29.17 lo duca, già faccendo la risposta, 1.29.18 e soggiugnendo: «Dentro a quella cava 1.29.19 dov' io tenea or li occhi sì a posta, 1.29.20 credo ch' un spirto del mio sangue pianga 1.29.21 la colpa che là giù cotanto costa». 1.29.22 Allor disse 'l maestro: «Non si franga 1.29.23 lo tuo pensier da qui innanzi sovr' ello. 1.29.24 Attendi ad altro, ed ei là si rimanga; 1.29.25 ch' io vidi lui a piè del ponticello 1.29.26 mostrarti e minacciar forte col dito, 1.29.27 e udi' 'l nominar Geri del Bello. 1.29.28 Tu eri allor sì del tutto impedito 1.29.29 sovra colui che già tenne Altaforte, 1.29.30 che non guardasti in là, sì fu partito». 1.29.31 «O duca mio, la vïolenta morte 1.29.32 che non li è vendicata ancor», diss' io, 1.29.33 «per alcun che de l' onta sia consorte, 1.29.34 fece lui disdegnoso; ond' el sen gio 1.29.35 sanza parlarmi, sì com' ïo estimo: 1.29.36 e in ciò m' ha el fatto a sé più pio». 1.29.37 Così parlammo infino al loco primo 1.29.38 che de lo scoglio l' altra valle mostra, 1.29.39 se più lume vi fosse, tutto ad imo. 1.29.40 Quando noi fummo sor l' ultima chiostra 1.29.41 di Malebolge, sì che i suoi conversi 1.29.42 potean parere a la veduta nostra, 1.29.43 lamenti saettaron me diversi, 1.29.44 che di pietà ferrati avean li strali; 1.29.45 ond' io li orecchi con le man copersi. 1.29.46 Qual dolor fora, se de li spedali 1.29.47 di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre 1.29.48 e di Maremma e di Sardigna i mali 1.29.49 fossero in una fossa tutti 'nsembre, 1.29.50 tal era quivi, e tal puzzo n' usciva 1.29.51 qual suol venir de le marcite membre. 1.29.52 Noi discendemmo in su l' ultima riva 1.29.53 del lungo scoglio, pur da man sinistra; 1.29.54 e allor fu la mia vista più viva 1.29.55 giù ver' lo fondo, là 've la ministra 1.29.56 de l' alto Sire infallibil giustizia 1.29.57 punisce i falsador che qui registra. 1.29.58 Non credo ch' a veder maggior tristizia 1.29.59 fosse in Egina il popol tutto infermo, 1.29.60 quando fu l' aere sì pien di malizia, 1.29.61 che li animali, infino al picciol vermo, 1.29.62 cascaron tutti, e poi le genti antiche, 1.29.63 secondo che i poeti hanno per fermo, 1.29.64 si ristorar di seme di formiche; 1.29.65 ch' era a veder per quella oscura valle 1.29.66 languir li spirti per diverse biche. 1.29.67 Qual sovra 'l ventre e qual sovra le spalle 1.29.68 l' un de l' altro giacea, e qual carpone 1.29.69 si trasmutava per lo tristo calle. 1.29.70 Passo passo andavam sanza sermone, 1.29.71 guardando e ascoltando li ammalati, 1.29.72 che non potean levar le lor persone. 1.29.73 Io vidi due sedere a sé poggiati, 1.29.74 com' a scaldar si poggia tegghia a tegghia, 1.29.75 dal capo al piè di schianze macolati; 1.29.76 e non vidi già mai menare stregghia 1.29.77 a ragazzo aspettato dal segnorso, 1.29.78 né a colui che mal volontier vegghia, 1.29.79 come ciascun menava spesso il morso 1.29.80 de l' unghie sopra sé per la gran rabbia 1.29.81 del pizzicor, che non ha più soccorso; 1.29.82 e sì traevan giù l' unghie la scabbia, 1.29.83 come coltel di scardova le scaglie 1.29.84 o d' altro pesce che più larghe l' abbia. 1.29.85 «O tu che con le dita ti dismaglie», 1.29.86 cominciò 'l duca mio a l' un di loro, 1.29.87 «e che fai d' esse talvolta tanaglie, 1.29.88 dinne s' alcun Latino è tra costoro 1.29.89 che son quinc' entro, se l' unghia ti basti 1.29.90 etternalmente a cotesto lavoro». 1.29.91 «Latin siam noi, che tu vedi sì guasti 1.29.92 qui ambedue», rispuose l' un piangendo; 1.29.93 «ma tu chi se' che di noi dimandasti?». 1.29.94 E 'l duca disse: «I' son un che discendo 1.29.95 con questo vivo giù di balzo in balzo, 1.29.96 e di mostrar lo 'nferno a lui intendo». 1.29.97 Allor si ruppe lo comun rincalzo; 1.29.98 e tremando ciascuno a me si volse 1.29.99 con altri che l' udiron di rimbalzo. 1.29.100 Lo buon maestro a me tutto s' accolse, 1.29.101 dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»; 1.29.102 e io incominciai, poscia ch' ei volse: 1.29.103 «Se la vostra memoria non s' imboli 1.29.104 nel primo mondo da l' umane menti, 1.29.105 ma s' ella viva sotto molti soli, 1.29.106 ditemi chi voi siete e di che genti; 1.29.107 la vostra sconcia e fastidiosa pena 1.29.108 di palesarvi a me non vi spaventi». 1.29.109 «Io fui d' Arezzo, e Albero da Siena», 1.29.110 rispuose l' un, «mi fé mettere al foco; 1.29.111 ma quel per ch' io mori' qui non mi mena. 1.29.112 Vero è ch' i' dissi lui, parlando a gioco: 1.29.113 "I' mi saprei levar per l' aere a volo"; 1.29.114 e quei, ch' avea vaghezza e senno poco, 1.29.115 volle ch' i' li mostrassi l' arte; e solo 1.29.116 perch' io nol feci Dedalo, mi fece 1.29.117 ardere a tal che l' avea per figliuolo. 1.29.118 Ma ne l' ultima bolgia de le diece 1.29.119 me per l' alchìmia che nel mondo usai 1.29.120 dannò Minòs, a cui fallar non lece». 1.29.121 E io dissi al poeta: «Or fu già mai 1.29.122 gente sì vana come la sanese? 1.29.123 Certo non la francesca sì d' assai!». 1.29.124 Onde l' altro lebbroso, che m' intese, 1.29.125 rispuose al detto mio: «Tra'mene Stricca 1.29.126 che seppe far le temperate spese, 1.29.127 e Niccolò che la costuma ricca 1.29.128 del garofano prima discoverse 1.29.129 ne l' orto dove tal seme s' appicca; 1.29.130 e tra'ne la brigata in che disperse 1.29.131 Caccia d' Ascian la vigna e la gran fonda, 1.29.132 e l' Abbagliato suo senno proferse. 1.29.133 Ma perché sappi chi sì ti seconda 1.29.134 contra i Sanesi, aguzza ver' me l' occhio, 1.29.135 sì che la faccia mia ben ti risponda: 1.29.136 sì vedrai ch' io son l' ombra di Capocchio, 1.29.137 che falsai li metalli con l' alchìmia; 1.29.138 e te dee ricordar, se ben t' adocchio, 1.29.139 com' io fui di natura buona scimia».
CANTO XXX
1.30.1 Nel tempo che Iunone era crucciata 1.30.2 per Semelè contra 'l sangue tebano, 1.30.3 come mostrò una e altra fïata, 1.30.4 Atamante divenne tanto insano, 1.30.5 che veggendo la moglie con due figli 1.30.6 andar carcata da ciascuna mano, 1.30.7 gridò: «Tendiam le reti, sì ch' io pigli 1.30.8 la leonessa e ' leoncini al varco»; 1.30.9 e poi distese i dispietati artigli, 1.30.10 prendendo l' un ch' avea nome Learco, 1.30.11 e rotollo e percosselo ad un sasso; 1.30.12 e quella s' annegò con l' altro carco. 1.30.13 E quando la fortuna volse in basso 1.30.14 l' altezza de' Troian che tutto ardiva, 1.30.15 sì che 'nsieme col regno il re fu casso, 1.30.16 Ecuba trista, misera e cattiva, 1.30.17 poscia che vide Polissena morta, 1.30.18 e del suo Polidoro in su la riva 1.30.19 del mar si fu la dolorosa accorta, 1.30.20 forsennata latrò sì come cane; 1.30.21 tanto il dolor le fé la mente torta. 1.30.22 Ma né di Tebe furie né troiane 1.30.23 si vider mäi in alcun tanto crude, 1.30.24 non punger bestie, nonché membra umane, 1.30.25 quant' io vidi in due ombre smorte e nude, 1.30.26 che mordendo correvan di quel modo 1.30.27 che 'l porco quando del porcil si schiude. 1.30.28 L' una giunse a Capocchio, e in sul nodo 1.30.29 del collo l' assannò, sì che, tirando, 1.30.30 grattar li fece il ventre al fondo sodo. 1.30.31 E l' Aretin che rimase, tremando 1.30.32 mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi, 1.30.33 e va rabbioso altrui così conciando». 1.30.34 «Oh», diss' io lui, «se l' altro non ti ficchi 1.30.35 li denti a dosso, non ti sia fatica 1.30.36 a dir chi è, pria che di qui si spicchi». 1.30.37 Ed elli a me: «Quell' è l' anima antica 1.30.38 di Mirra scellerata, che divenne 1.30.39 al padre, fuor del dritto amore, amica. 1.30.40 Questa a peccar con esso così venne, 1.30.41 falsificando sé in altrui forma, 1.30.42 come l' altro che là sen va, sostenne, 1.30.43 per guadagnar la donna de la torma, 1.30.44 falsificare in sé Buoso Donati, 1.30.45 testando e dando al testamento norma». 1.30.46 E poi che i due rabbiosi fuor passati 1.30.47 sovra cu' io avea l' occhio tenuto, 1.30.48 rivolsilo a guardar li altri mal nati. 1.30.49 Io vidi un, fatto a guisa di lëuto, 1.30.50 pur ch' elli avesse avuta l' anguinaia 1.30.51 tronca da l' altro che l' uomo ha forcuto. 1.30.52 La grave idropesì, che sì dispaia 1.30.53 le membra con l' omor che mal converte, 1.30.54 che 'l viso non risponde a la ventraia, 1.30.55 faceva lui tener le labbra aperte 1.30.56 come l' etico fa, che per la sete 1.30.57 l' un verso 'l mento e l' altro in sù rinverte. 1.30.58 «O voi che sanz' alcuna pena siete, 1.30.59 e non so io perché, nel mondo gramo», 1.30.60 diss' elli a noi, «guardate e attendete 1.30.61 a la miseria del maestro Adamo; 1.30.62 io ebbi, vivo, assai di quel ch' i' volli, 1.30.63 e ora, lasso!, un gocciol d' acqua bramo. 1.30.64 Li ruscelletti che d' i verdi colli 1.30.65 del Casentin discendon giuso in Arno, 1.30.66 faccendo i lor canali freddi e molli, 1.30.67 sempre mi stanno innanzi, e non indarno, 1.30.68 ché l' imagine lor vie più m' asciuga 1.30.69 che 'l male ond' io nel volto mi discarno. 1.30.70 La rigida giustizia che mi fruga 1.30.71 tragge cagion del loco ov' io peccai 1.30.72 a metter più li miei sospiri in fuga. 1.30.73 Ivi è Romena, là dov' io falsai 1.30.74 la lega suggellata del Batista; 1.30.75 per ch' io il corpo sù arso lasciai. 1.30.76 Ma s' io vedessi qui l' anima trista 1.30.77 di Guido o d' Alessandro o di lor frate, 1.30.78 per Fonte Branda non darei la vista. 1.30.79 Dentro c' è l' una già, se l' arrabbiate 1.30.80 ombre che vanno intorno dicon vero; 1.30.81 ma che mi val, c' ho le membra legate? 1.30.82 S' io fossi pur di tanto ancor leggero 1.30.83 ch' i' potessi in cent' anni andare un' oncia, 1.30.84 io sarei messo già per lo sentiero, 1.30.85 cercando lui tra questa gente sconcia, 1.30.86 con tutto ch' ella volge undici miglia, 1.30.87 e men d' un mezzo di traverso non ci ha. 1.30.88 Io son per lor tra sì fatta famiglia; 1.30.89 e' m' indussero a batter li fiorini 1.30.90 ch' avevan tre carati di mondiglia». 1.30.91 E io a lui: «Chi son li due tapini 1.30.92 che fumman come man bagnate 'l verno, 1.30.93 giacendo stretti a' tuoi destri confini?». 1.30.94 «Qui li trovai --e poi volta non dierno --», 1.30.95 rispuose, «quando piovvi in questo greppo, 1.30.96 e non credo che dieno in sempiterno. 1.30.97 L' una è la falsa ch' accusò Gioseppo; 1.30.98 l' altr' è 'l falso Sinon greco di Troia: 1.30.99 per febbre aguta gittan tanto leppo». 1.30.100 E l' un di lor, che si recò a noia 1.30.101 forse d' esser nomato sì oscuro, 1.30.102 col pugno li percosse l' epa croia. 1.30.103 Quella sonò come fosse un tamburo; 1.30.104 e mastro Adamo li percosse il volto 1.30.105 col braccio suo, che non parve men duro, 1.30.106 dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto 1.30.107 lo muover per le membra che son gravi, 1.30.108 ho io il braccio a tal mestiere sciolto». 1.30.109 Ond' ei rispuose: «Quando tu andavi 1.30.110 al fuoco, non l' avei tu così presto; 1.30.111 ma sì e più l' avei quando coniavi». 1.30.112 E l' idropico: «Tu di' ver di questo: 1.30.113 ma tu non fosti sì ver testimonio 1.30.114 là 've del ver fosti a Troia richesto». 1.30.115 «S' io dissi falso, e tu falsasti il conio», 1.30.116 disse Sinon; «e son qui per un fallo, 1.30.117 e tu per più ch' alcun altro demonio!». 1.30.118 «Ricorditi, spergiuro, del cavallo», 1.30.119 rispuose quel ch' avëa infiata l' epa; 1.30.120 «e sieti reo che tutto il mondo sallo!». 1.30.121 «E te sia rea la sete onde ti crepa», 1.30.122 disse 'l Greco, «la lingua, e l' acqua marcia 1.30.123 che 'l ventre innanzi a li occhi sì t' assiepa!». 1.30.124 Allora il monetier: «Così si squarcia 1.30.125 la bocca tua per tuo mal come suole; 1.30.126 ché, s' i' ho sete e omor mi rinfarcia, 1.30.127 tu hai l' arsura e 'l capo che ti duole, 1.30.128 e per leccar lo specchio di Narcisso, 1.30.129 non vorresti a 'nvitar molte parole». 1.30.130 Ad ascoltarli er' io del tutto fisso, 1.30.131 quando 'l maestro mi disse: «Or pur mira, 1.30.132 che per poco che teco non mi risso!». 1.30.133 Quand' io 'l senti' a me parlar con ira, 1.30.134 volsimi verso lui con tal vergogna, 1.30.135 ch' ancor per la memoria mi si gira. 1.30.136 Qual è colui che suo dannaggio sogna, 1.30.137 che sognando desidera sognare, 1.30.138 sì che quel ch' è, come non fosse, agogna, 1.30.139 tal mi fec' io, non possendo parlare, 1.30.140 che disïava scusarmi, e scusava 1.30.141 me tuttavia, e nol mi credea fare. 1.30.142 «Maggior difetto men vergogna lava», 1.30.143 disse 'l maestro, «che 'l tuo non è stato; 1.30.144 però d' ogne trestizia ti disgrava. 1.30.145 E fa ragion ch' io ti sia sempre allato, 1.30.146 se più avvien che fortuna t' accoglia 1.30.147 dove sien genti in simigliante piato: 1.30.148 ché voler ciò udire è bassa voglia».
CANTO XXXI
1.31.1 Una medesma lingua pria mi morse, 1.31.2 sì che mi tinse l' una e l' altra guancia, 1.31.3 e poi la medicina mi riporse; 1.31.4 così od' io che solea far la lancia 1.31.5 d' Achille e del suo padre esser cagione 1.31.6 prima di trista e poi di buona mancia. 1.31.7 Noi demmo il dosso al misero vallone 1.31.8 su per la ripa che 'l cinge dintorno, 1.31.9 attraversando sanza alcun sermone. 1.31.10 Quiv' era men che notte e men che giorno, 1.31.11 sì che 'l viso m' andava innanzi poco; 1.31.12 ma io senti' sonare un alto corno, 1.31.13 tanto ch' avrebbe ogne tuon fatto fioco, 1.31.14 che, contra sé la sua via seguitando, 1.31.15 dirizzò li occhi miei tutti ad un loco. 1.31.16 Dopo la dolorosa rotta, quando 1.31.17 Carlo Magno perdé la santa gesta, 1.31.18 non sonò sì terribilmente Orlando. 1.31.19 Poco portäi in là volta la testa, 1.31.20 che me parve veder molte alte torri; 1.31.21 ond' io: «Maestro, dì, che terra è questa?». 1.31.22 Ed elli a me: «Però che tu trascorri 1.31.23 per le tenebre troppo da la lungi, 1.31.24 avvien che poi nel maginare abborri. 1.31.25 Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi, 1.31.26 quanto 'l senso s' inganna di lontano; 1.31.27 però alquanto più te stesso pungi». 1.31.28 Poi caramente mi prese per mano 1.31.29 e disse: «Pria che noi siam più avanti, 1.31.30 acciò che 'l fatto men ti paia strano, 1.31.31 sappi che non son torri, ma giganti, 1.31.32 e son nel pozzo intorno da la ripa 1.31.33 da l' umbilico in giuso tutti quanti». 1.31.34 Come quando la nebbia si dissipa, 1.31.35 lo sguardo a poco a poco raffigura 1.31.36 ciò che cela 'l vapor che l' aere stipa, 1.31.37 così forando l' aura grossa e scura, 1.31.38 più e più appressando ver' la sponda, 1.31.39 fuggiemi errore e crescémi paura; 1.31.40 però che, come su la cerchia tonda 1.31.41 Montereggion di torri si corona, 1.31.42 così la proda che 'l pozzo circonda 1.31.43 torreggiavan di mezza la persona 1.31.44 li orribili giganti, cui minaccia 1.31.45 Giove del cielo ancora quando tuona. 1.31.46 E io scorgeva già d' alcun la faccia, 1.31.47 le spalle e 'l petto e del ventre gran parte, 1.31.48 e per le coste giù ambo le braccia. 1.31.49 Natura certo, quando lasciò l' arte 1.31.50 di sì fatti animali, assai fé bene 1.31.51 per tòrre tali essecutori a Marte. 1.31.52 E s' ella d' elefanti e di balene 1.31.53 non si pente, chi guarda sottilmente, 1.31.54 più giusta e più discreta la ne tene; 1.31.55 ché dove l' argomento de la mente 1.31.56 s' aggiugne al mal volere e a la possa, 1.31.57 nessun riparo vi può far la gente. 1.31.58 La faccia sua mi parea lunga e grossa 1.31.59 come la pina di San Pietro a Roma, 1.31.60 e a sua proporzione eran l' altre ossa; 1.31.61 sì che la ripa, ch' era perizoma 1.31.62 dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto 1.31.63 di sovra, che di giugnere a la chioma 1.31.64 tre Frison s' averien dato mal vanto; 1.31.65 però ch' i' ne vedea trenta gran palmi 1.31.66 dal loco in giù dov' omo affibbia 'l manto. 1.31.67 «Raphèl maì amècche zabì almi», 1.31.68 cominciò a gridar la fiera bocca, 1.31.69 cui non si convenia più dolci salmi. 1.31.70 E 'l duca mio ver' lui: «Anima sciocca, 1.31.71 tienti col corno, e con quel ti disfoga 1.31.72 quand' ira o altra passïon ti tocca! 1.31.73 Cércati al collo, e troverai la soga 1.31.74 che 'l tien legato, o anima confusa, 1.31.75 e vedi lui che 'l gran petto ti doga». 1.31.76 Poi disse a me: «Elli stessi s' accusa; 1.31.77 questi è Nembrotto per lo cui mal coto 1.31.78 pur un linguaggio nel mondo non s' usa. 1.31.79 Lasciànlo stare e non parliamo a vòto; 1.31.80 ché così è a lui ciascun linguaggio 1.31.81 come 'l suo ad altrui, ch' a nullo è noto». 1.31.82 Facemmo adunque più lungo vïaggio, 1.31.83 vòlti a sinistra; e al trar d' un balestro 1.31.84 trovammo l' altro assai più fero e maggio. 1.31.85 A cigner lui qual che fosse 'l maestro, 1.31.86 non so io dir, ma el tenea soccinto 1.31.87 dinanzi l' altro e dietro il braccio destro 1.31.88 d' una catena che 'l tenea avvinto 1.31.89 dal collo in giù, sì che 'n su lo scoperto 1.31.90 si ravvolgëa infino al giro quinto. 1.31.91 «Questo superbo volle esser esperto 1.31.92 di sua potenza contra 'l sommo Giove», 1.31.93 disse 'l mio duca, «ond' elli ha cotal merto. 1.31.94 Fïalte ha nome, e fece le gran prove 1.31.95 quando i giganti fer paura a' dèi; 1.31.96 le braccia ch' el menò, già mai non move». 1.31.97 E io a lui: «S' esser puote, io vorrei 1.31.98 che de lo smisurato Brïareo 1.31.99 esperïenza avesser li occhi mei». 1.31.100 Ond' ei rispuose: «Tu vedrai Anteo 1.31.101 presso di qui che parla ed è disciolto, 1.31.102 che ne porrà nel fondo d' ogne reo. 1.31.103 Quel che tu vuo' veder, più là è molto 1.31.104 ed è legato e fatto come questo, 1.31.105 salvo che più feroce par nel volto». 1.31.106 Non fu tremoto già tanto rubesto, 1.31.107 che scotesse una torre così forte, 1.31.108 come Fïalte a scuotersi fu presto. 1.31.109 Allor temett' io più che mai la morte, 1.31.110 e non v' era mestier più che la dotta, 1.31.111 s' io non avessi viste le ritorte. 1.31.112 Noi procedemmo più avante allotta, 1.31.113 e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, 1.31.114 sanza la testa, uscia fuor de la grotta. 1.31.115 «O tu che ne la fortunata valle 1.31.116 che fece Scipïon di gloria reda, 1.31.117 quand' Anibàl co' suoi diede le spalle, 1.31.118 recasti già mille leon per preda, 1.31.119 e che, se fossi stato a l' alta guerra 1.31.120 de' tuoi fratelli, ancor par che si creda 1.31.121 ch' avrebber vinto i figli de la terra: 1.31.122 mettine giù, e non ten vegna schifo, 1.31.123 dove Cocito la freddura serra. 1.31.124 Non ci fare ire a Tizio né a Tifo: 1.31.125 questi può dar di quel che qui si brama; 1.31.126 però ti china e non torcer lo grifo. 1.31.127 Ancor ti può nel mondo render fama, 1.31.128 ch' el vive, e lunga vita ancor aspetta 1.31.129 se 'nnanzi tempo grazia a sé nol chiama». 1.31.130 Così disse 'l maestro; e quelli in fretta 1.31.131 le man distese, e prese 'l duca mio, 1.31.132 ond' Ercule sentì già grande stretta. 1.31.133 Virgilio, quando prender si sentio, 1.31.134 disse a me: «Fatti qua, sì ch' io ti prenda»; 1.31.135 poi fece sì ch' un fascio era elli e io. 1.31.136 Qual pare a riguardar la Carisenda 1.31.137 sotto 'l chinato, quando un nuvol vada 1.31.138 sovr' essa sì, ched ella incontro penda: 1.31.139 tal parve Antëo a me che stava a bada 1.31.140 di vederlo chinare, e fu tal ora 1.31.141 ch' i' avrei voluto ir per altra strada. 1.31.142 Ma lievemente al fondo che divora 1.31.143 Lucifero con Giuda, ci sposò; 1.31.144 né, sì chinato, lì fece dimora, 1.31.145 e come albero in nave si levò.
CANTO XXXII
1.32.1 S' ïo avessi le rime aspre e chiocce, 1.32.2 come si converrebbe al tristo buco 1.32.3 sovra 'l qual pontan tutte l' altre rocce, 1.32.4 io premerei di mio concetto il suco 1.32.5 più pienamente; ma perch' io non l' abbo, 1.32.6 non sanza tema a dicer mi conduco; 1.32.7 ché non è impresa da pigliare a gabbo 1.32.8 discriver fondo a tutto l' universo, 1.32.9 né da lingua che chiami mamma o babbo. 1.32.10 Ma quelle donne aiutino il mio verso 1.32.11 ch' aiutaro Anfïone a chiuder Tebe, 1.32.12 sì che dal fatto il dir non sia diverso. 1.32.13 Oh sovra tutte mal creata plebe 1.32.14 che stai nel loco onde parlare è duro, 1.32.15 mei foste state qui pecore o zebe! 1.32.16 Come noi fummo giù nel pozzo scuro 1.32.17 sotto i piè del gigante assai più bassi, 1.32.18 e io mirava ancora a l' alto muro, 1.32.19 dicere udi'mi: «Guarda come passi: 1.32.20 va sì, che tu non calchi con le piante 1.32.21 le teste de' fratei miseri lassi». 1.32.22 Per ch' io mi volsi, e vidimi davante 1.32.23 e sotto i piedi un lago che per gelo 1.32.24 avea di vetro e non d' acqua sembiante. 1.32.25 Non fece al corso suo sì grosso velo 1.32.26 di verno la Danoia in Osterlicchi, 1.32.27 né Tanäi là sotto 'l freddo cielo, 1.32.28 com' era quivi; che se Tambernicchi 1.32.29 vi fosse sù caduto, o Pietrapana, 1.32.30 non avria pur da l' orlo fatto cricchi. 1.32.31 E come a gracidar si sta la rana 1.32.32 col muso fuor de l' acqua, quando sogna 1.32.33 di spigolar sovente la villana, 1.32.34 livide, insin là dove appar vergogna 1.32.35 eran l' ombre dolenti ne la ghiaccia, 1.32.36 mettendo i denti in nota di cicogna. 1.32.37 Ognuna in giù tenea volta la faccia; 1.32.38 da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo 1.32.39 tra lor testimonianza si procaccia. 1.32.40 Quand' io m' ebbi dintorno alquanto visto, 1.32.41 volsimi a' piedi, e vidi due sì stretti, 1.32.42 che 'l pel del capo avieno insieme misto. 1.32.43 «Ditemi, voi che sì strignete i petti», 1.32.44 diss' io, «chi siete?». E quei piegaro i colli; 1.32.45 e poi ch' ebber li visi a me eretti, 1.32.46 li occhi lor, ch' eran pria pur dentro molli, 1.32.47 gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse 1.32.48 le lagrime tra essi e riserrolli. 1.32.49 Con legno legno spranga mai non cinse 1.32.50 forte così; ond' ei come due becchi 1.32.51 cozzaro insieme, tanta ira li vinse. 1.32.52 E un ch' avea perduti ambo li orecchi 1.32.53 per la freddura, pur col viso in giùe, 1.32.54 disse: «Perché cotanto in noi ti specchi? 1.32.55 Se vuoi saper chi son cotesti due, 1.32.56 la valle onde Bisenzo si dichina 1.32.57 del padre loro Alberto e di lor fue. 1.32.58 D' un corpo usciro; e tutta la Caina 1.32.59 potrai cercare, e non troverai ombra 1.32.60 degna più d' esser fitta in gelatina: 1.32.61 non quelli a cui fu rotto il petto e l' ombra 1.32.62 con esso un colpo per la man d' Artù; 1.32.63 non Focaccia; non questi che m' ingombra 1.32.64 col capo sì, ch' i' non veggio oltre più, 1.32.65 e fu nomato Sassol Mascheroni; 1.32.66 se tosco se', ben sai omai chi fu. 1.32.67 E perché non mi metti in più sermoni, 1.32.68 sappi ch' i' fu' il Camiscion de' Pazzi; 1.32.69 e aspetto Carlin che mi scagioni». 1.32.70 Poscia vid' io mille visi cagnazzi 1.32.71 fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, 1.32.72 e verrà sempre, de' gelati guazzi. 1.32.73 E mentre ch' andavamo inver' lo mezzo 1.32.74 al quale ogne gravezza si rauna, 1.32.75 e io tremava ne l' etterno rezzo; 1.32.76 se voler fu o destino o fortuna, 1.32.77 non so; ma, passeggiando tra le teste, 1.32.78 forte percossi 'l piè nel viso ad una. 1.32.79 Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste? 1.32.80 se tu non vieni a crescer la vendetta 1.32.81 di Montaperti, perché mi moleste?». 1.32.82 E io: «Maestro mio, or qui m' aspetta, 1.32.83 sì ch' io esca d' un dubbio per costui; 1.32.84 poi mi farai, quantunque vorrai, fretta». 1.32.85 Lo duca stette, e io dissi a colui 1.32.86 che bestemmiava duramente ancora: 1.32.87 «Qual se' tu che così rampogni altrui?». 1.32.88 «Or tu chi se' che vai per l' Antenora, 1.32.89 percotendo», rispuose, «altrui le gote, 1.32.90 sì che, se fossi vivo, troppo fora?». 1.32.91 «Vivo son io, e caro esser ti puote», 1.32.92 fu mia risposta, «se dimandi fama, 1.32.93 ch' io metta il nome tuo tra l' altre note». 1.32.94 Ed elli a me: «Del contrario ho io brama. 1.32.95 Lèvati quinci e non mi dar più lagna, 1.32.96 ché mal sai lusingar per questa lama!». 1.32.97 Allor lo presi per la cuticagna 1.32.98 e dissi: «El converrà che tu ti nomi, 1.32.99 o che capel qui sù non ti rimagna». 1.32.100 Ond' elli a me: «Perché tu mi dischiomi, 1.32.101 né ti dirò ch' io sia, né mosterrolti 1.32.102 se mille fiate in sul capo mi tomi». 1.32.103 Io avea già i capelli in mano avvolti, 1.32.104 e tratti glien' avea più d' una ciocca, 1.32.105 latrando lui con li occhi in giù raccolti, 1.32.106 quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca? 1.32.107 non ti basta sonar con le mascelle, 1.32.108 se tu non latri? qual diavol ti tocca?». 1.32.109 «Omai», diss' io, «non vo' che più favelle, 1.32.110 malvagio traditor; ch' a la tua onta 1.32.111 io porterò di te vere novelle». 1.32.112 «Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta; 1.32.113 ma non tacer, se tu di qua entro eschi, 1.32.114 di quel ch' ebbe or così la lingua pronta. 1.32.115 El piange qui l' argento de' Franceschi: 1.32.116 "Io vidi", potrai dir, "quel da Duera 1.32.117 là dove i peccatori stanno freschi". 1.32.118 Se fossi domandato "Altri chi v' era?", 1.32.119 tu hai dallato quel di Beccheria 1.32.120 di cui segò Fiorenza la gorgiera. 1.32.121 Gianni de' Soldanier credo che sia 1.32.122 più là con Ganellone e Tebaldello, 1.32.123 ch' aprì Faenza quando si dormia». 1.32.124 Noi eravam partiti già da ello, 1.32.125 ch' io vidi due ghiacciati in una buca, 1.32.126 sì che l' un capo a l' altro era cappello; 1.32.127 e come 'l pan per fame si manduca, 1.32.128 così 'l sovran li denti a l' altro pose 1.32.129 là 've 'l cervel s' aggiugne con la nuca: 1.32.130 non altrimenti Tidëo si rose 1.32.131 le tempie a Menalippo per disdegno, 1.32.132 che quei faceva il teschio e l' altre cose. 1.32.133 «O tu che mostri per sì bestial segno 1.32.134 odio sovra colui che tu ti mangi, 1.32.135 dimmi 'l perché», diss' io, «per tal convegno, 1.32.136 che se tu a ragion di lui ti piangi, 1.32.137 sappiendo chi voi siete e la sua pecca, 1.32.138 nel mondo suso ancora io te ne cangi, 1.32.139 se quella con ch' io parlo non si secca».
CANTO XXXIII
1.33.1 La bocca sollevò dal fiero pasto 1.33.2 quel peccator, forbendola a' capelli 1.33.3 del capo ch' elli avea di retro guasto. 1.33.4 Poi cominciò: «Tu vuo' ch' io rinovelli 1.33.5 disperato dolor che 'l cor mi preme 1.33.6 già pur pensando, pria ch' io ne favelli. 1.33.7 Ma se le mie parole esser dien seme 1.33.8 che frutti infamia al traditor ch' i' rodo, 1.33.9 parlare e lagrimar vedrai insieme. 1.33.10 Io non so chi tu se' né per che modo 1.33.11 venuto se' qua giù; ma fiorentino 1.33.12 mi sembri veramente quand' io t' odo. 1.33.13 Tu dei saper ch' i' fui conte Ugolino, 1.33.14 e questi è l' arcivescovo Ruggieri: 1.33.15 or ti dirò perché i son tal vicino. 1.33.16 Che per l' effetto de' suo' mai pensieri, 1.33.17 fidandomi di lui, io fossi preso 1.33.18 e poscia morto, dir non è mestieri; 1.33.19 però quel che non puoi avere inteso, 1.33.20 cioè come la morte mia fu cruda, 1.33.21 udirai, e saprai s' e' m' ha offeso. 1.33.22 Breve pertugio dentro da la Muda, 1.33.23 la qual per me ha 'l titol de la fame, 1.33.24 e che conviene ancor ch' altrui si chiuda, 1.33.25 m' avea mostrato per lo suo forame 1.33.26 più lune già, quand' io feci 'l mal sonno 1.33.27 che del futuro mi squarciò 'l velame. 1.33.28 Questi pareva a me maestro e donno, 1.33.29 cacciando il lupo e ' lupicini al monte 1.33.30 per che i Pisan veder Lucca non ponno. 1.33.31 Con cagne magre, studïose e conte 1.33.32 Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi 1.33.33 s' avea messi dinanzi da la fronte. 1.33.34 In picciol corso mi parieno stanchi 1.33.35 lo padre e ' figli, e con l' agute scane 1.33.36 mi parea lor veder fender li fianchi. 1.33.37 Quando fui desto innanzi la dimane, 1.33.38 pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli 1.33.39 ch' eran con meco, e dimandar del pane. 1.33.40 Ben se' crudel, se tu già non ti duoli 1.33.41 pensando ciò che 'l mio cor s' annunziava; 1.33.42 e se non piangi, di che pianger suoli? 1.33.43 Già eran desti, e l' ora s' appressava 1.33.44 che 'l cibo ne solëa essere addotto, 1.33.45 e per suo sogno ciascun dubitava; 1.33.46 e io senti' chiavar l' uscio di sotto 1.33.47 a l' orribile torre; ond' io guardai 1.33.48 nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto. 1.33.49 Io non piangëa, sì dentro impetrai: 1.33.50 piangevan elli; e Anselmuccio mio 1.33.51 disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?". 1.33.52 Perciò non lagrimai né rispuos' io 1.33.53 tutto quel giorno né la notte appresso, 1.33.54 infin che l' altro sol nel mondo uscìo. 1.33.55 Come un poco di raggio si fu messo 1.33.56 nel doloroso carcere, e io scorsi 1.33.57 per quattro visi il mio aspetto stesso, 1.33.58 ambo le man per lo dolor mi morsi; 1.33.59 ed ei, pensando ch' io 'l fessi per voglia 1.33.60 di manicar, di sùbito levorsi 1.33.61 e disser: "Padre, assai ci fia men doglia 1.33.62 se tu mangi di noi: tu ne vestisti 1.33.63 queste misere carni, e tu le spoglia". 1.33.64 Queta'mi allor per non farli più tristi; 1.33.65 lo dì e l' altro stemmo tutti muti; 1.33.66 ahi dura terra, perché non t' apristi? 1.33.67 Poscia che fummo al quarto dì venuti, 1.33.68 Gaddo mi si gittò disteso a' piedi, 1.33.69 dicendo: "Padre mio, ché non m' aiuti?". 1.33.70 Quivi morì; e come tu mi vedi, 1.33.71 vid' io cascar li tre ad uno ad uno 1.33.72 tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond' io mi diedi, 1.33.73 già cieco, a brancolar sovra ciascuno, 1.33.74 e due dì li chiamai, poi che fur morti. 1.33.75 Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno». 1.33.76 Quand' ebbe detto ciò, con li occhi torti 1.33.77 riprese 'l teschio misero co' denti, 1.33.78 che furo a l' osso, come d' un can, forti. 1.33.79 Ahi Pisa, vituperio de le genti 1.33.80 del bel paese là dove 'l sì suona, 1.33.81 poi che i vicini a te punir son lenti, 1.33.82 muovasi la Capraia e la Gorgona, 1.33.83 e faccian siepe ad Arno in su la foce, 1.33.84 sì ch' elli annieghi in te ogne persona! 1.33.85 Che se 'l conte Ugolino aveva voce 1.33.86 d' aver tradita te de le castella, 1.33.87 non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. 1.33.88 Innocenti facea l' età novella, 1.33.89 novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata 1.33.90 e li altri due che 'l canto suso appella. 1.33.91 Noi passammo oltre, là 've la gelata 1.33.92 ruvidamente un' altra gente fascia, 1.33.93 non volta in giù, ma tutta riversata. 1.33.94 Lo pianto stesso lì pianger non lascia, 1.33.95 e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo, 1.33.96 si volge in entro a far crescer l' ambascia; 1.33.97 ché le lagrime prime fanno groppo, 1.33.98 e sì come visiere di cristallo, 1.33.99 rïempion sotto 'l ciglio tutto il coppo. 1.33.100 E avvegna che, sì come d' un callo, 1.33.101 per la freddura ciascun sentimento 1.33.102 cessato avesse del mio viso stallo, 1.33.103 già mi parea sentire alquanto vento; 1.33.104 per ch' io: «Maestro mio, questo chi move? 1.33.105 non è qua giù ogne vapore spento?». 1.33.106 Ond' elli a me: «Avaccio sarai dove 1.33.107 di ciò ti farà l' occhio la risposta, 1.33.108 veggendo la cagion che 'l fiato piove». 1.33.109 E un de' tristi de la fredda crosta 1.33.110 gridò a noi: «O anime crudeli 1.33.111 tanto che data v' è l' ultima posta, 1.33.112 levatemi dal viso i duri veli, 1.33.113 sì ch' ïo sfoghi 'l duol che 'l cor m' impregna, 1.33.114 un poco, pria che 'l pianto si raggeli». 1.33.115 Per ch' io a lui: «Se vuo' ch' i' ti sovvegna, 1.33.116 dimmi chi se', e s' io non ti disbrigo, 1.33.117 al fondo de la ghiaccia ir mi convegna». 1.33.118 Rispuose adunque: «I' son frate Alberigo; 1.33.119 i' son quel da le frutta del mal orto, 1.33.120 che qui riprendo dattero per figo». 1.33.121 «Oh», diss' io lui, «or se' tu ancor morto?». 1.33.122 Ed elli a me: «Come 'l mio corpo stea 1.33.123 nel mondo sù, nulla scïenza porto. 1.33.124 Cotal vantaggio ha questa Tolomea, 1.33.125 che spesse volte l' anima ci cade 1.33.126 innanzi ch' Atropòs mossa le dea. 1.33.127 E perché tu più volontier mi rade 1.33.128 le 'nvetrïate lagrime dal volto, 1.33.129 sappie che, tosto che l' anima trade 1.33.130 come fec' ïo, il corpo suo l' è tolto 1.33.131 da un demonio, che poscia il governa 1.33.132 mentre che 'l tempo suo tutto sia vòlto. 1.33.133 Ella ruina in sì fatta cisterna; 1.33.134 e forse pare ancor lo corpo suso 1.33.135 de l' ombra che di qua dietro mi verna. 1.33.136 Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso: 1.33.137 elli è ser Branca Doria, e son più anni 1.33.138 poscia passati ch' el fu sì racchiuso». 1.33.139 «Io credo», diss' io lui, «che tu m' inganni; 1.33.140 ché Branca Doria non morì unquanche, 1.33.141 e mangia e bee e dorme e veste panni». 1.33.142 «Nel fosso sù», diss' el, «de' Malebranche, 1.33.143 là dove bolle la tenace pece, 1.33.144 non era ancora giunto Michel Zanche, 1.33.145 che questi lasciò il diavolo in sua vece 1.33.146 nel corpo suo, ed un suo prossimano 1.33.147 che 'l tradimento insieme con lui fece. 1.33.148 Ma distendi oggimai in qua la mano; 1.33.149 aprimi li occhi». E io non gliel' apersi; 1.33.150 e cortesia fu lui esser villano. 1.33.151 Ahi Genovesi, uomini diversi 1.33.152 d' ogne costume e pien d' ogne magagna, 1.33.153 perché non siete voi del mondo spersi? 1.33.154 Ché col peggiore spirto di Romagna 1.33.155 trovai di voi un tal, che per sua opra 1.33.156 in anima in Cocito già si bagna, 1.33.157 e in corpo par vivo ancor di sopra.
CANTO XXXIV
1.34.1 «Vexilla regis prodeunt inferni 1.34.2 verso di noi; però dinanzi mira», 1.34.3 disse 'l maestro mio, «se tu 'l discerni». 1.34.4 Come quando una grossa nebbia spira, 1.34.5 o quando l' emisperio nostro annotta, 1.34.6 par di lungi un molin che 'l vento gira, 1.34.7 veder mi parve un tal dificio allotta; 1.34.8 poi per lo vento mi ristrinsi retro 1.34.9 al duca mio, ché non lì era altra grotta. 1.34.10 Già era, e con paura il metto in metro, 1.34.11 là dove l' ombre tutte eran coperte, 1.34.12 e trasparien come festuca in vetro. 1.34.13 Altre sono a giacere; altre stanno erte, 1.34.14 quella col capo e quella con le piante; 1.34.15 altra, com' arco, il volto a' piè rinverte. 1.34.16 Quando noi fummo fatti tanto avante, 1.34.17 ch' al mio maestro piacque di mostrarmi 1.34.18 la creatura ch' ebbe il bel sembiante, 1.34.19 d' innanzi mi si tolse e fé restarmi, 1.34.20 «Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco 1.34.21 ove convien che di fortezza t' armi». 1.34.22 Com' io divenni allor gelato e fioco, 1.34.23 nol dimandar, lettor, ch' i' non lo scrivo, 1.34.24 però ch' ogne parlar sarebbe poco. 1.34.25 Io non mori' e non rimasi vivo; 1.34.26 pensa oggimai per te, s' hai fior d' ingegno, 1.34.27 qual io divenni, d' uno e d' altro privo. 1.34.28 Lo 'mperador del doloroso regno 1.34.29 da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia; 1.34.30 e più con un gigante io mi convegno, 1.34.31 che i giganti non fan con le sue braccia: 1.34.32 vedi oggimai quant' esser dee quel tutto 1.34.33 ch' a così fatta parte si confaccia. 1.34.34 S' el fu sì bel com' elli è ora brutto, 1.34.35 e contra 'l suo fattore alzò le ciglia, 1.34.36 ben dee da lui procedere ogne lutto. 1.34.37 Oh quanto parve a me gran maraviglia 1.34.38 quand' io vidi tre facce a la sua testa! 1.34.39 L' una dinanzi, e quella era vermiglia; 1.34.40 l' altr' eran due, che s' aggiugnieno a questa 1.34.41 sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla, 1.34.42 e sé giugnieno al loco de la cresta: 1.34.43 e la destra parea tra bianca e gialla; 1.34.44 la sinistra a vedere era tal, quali 1.34.45 vegnon di là onde 'l Nilo s' avvalla. 1.34.46 Sotto ciascuna uscivan due grand' ali, 1.34.47 quanto si convenia a tanto uccello: 1.34.48 vele di mar non vid' io mai cotali. 1.34.49 Non avean penne, ma di vispistrello 1.34.50 era lor modo; e quelle svolazzava, 1.34.51 sì che tre venti si movean da ello: 1.34.52 quindi Cocito tutto s' aggelava. 1.34.53 Con sei occhi piangëa, e per tre menti 1.34.54 gocciava 'l pianto e sanguinosa bava. 1.34.55 Da ogne bocca dirompea co' denti 1.34.56 un peccatore, a guisa di maciulla, 1.34.57 sì che tre ne facea così dolenti. 1.34.58 A quel dinanzi il mordere era nulla 1.34.59 verso 'l graffiar, che talvolta la schiena 1.34.60 rimanea de la pelle tutta brulla. 1.34.61 «Quell' anima là sù c' ha maggior pena», 1.34.62 disse 'l maestro, «è Giuda Scarïotto, 1.34.63 che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena. 1.34.64 De li altri due c' hanno il capo di sotto, 1.34.65 quel che pende dal nero ceffo è Bruto: 1.34.66 vedi come si storce, e non fa motto!; 1.34.67 e l' altro è Cassio, che par sì membruto. 1.34.68 Ma la notte risurge, e oramai 1.34.69 è da partir, ché tutto avem veduto». 1.34.70 Com' a lui piacque, il collo li avvinghiai; 1.34.71 ed el prese di tempo e loco poste, 1.34.72 e quando l' ali fuoro aperte assai, 1.34.73 appigliò sé a le vellute coste; 1.34.74 di vello in vello giù discese poscia 1.34.75 tra 'l folto pelo e le gelate croste. 1.34.76 Quando noi fummo là dove la coscia 1.34.77 si volge, a punto in sul grosso de l' anche, 1.34.78 lo duca, con fatica e con angoscia, 1.34.79 volse la testa ov' elli avea le zanche, 1.34.80 e aggrappossi al pel com' om che sale, 1.34.81 sì che 'n inferno i' credea tornar anche. 1.34.82 «Attienti ben, ché per cotali scale», 1.34.83 disse 'l maestro, ansando com' uom lasso, 1.34.84 «conviensi dipartir da tanto male». 1.34.85 Poi uscì fuor per lo fóro d' un sasso 1.34.86 e puose me in su l' orlo a sedere; 1.34.87 appresso porse a me l' accorto passo. 1.34.88 Io levai li occhi e credetti vedere 1.34.89 Lucifero com' io l' avea lasciato, 1.34.90 e vidili le gambe in sù tenere; 1.34.91 e s' io divenni allora travagliato, 1.34.92 la gente grossa il pensi, che non vede 1.34.93 qual è quel punto ch' io avea passato. 1.34.94 «Lèvati sù», disse 'l maestro, «in piede: 1.34.95 la via è lunga e 'l cammino è malvagio, 1.34.96 e già il sole a mezza terza riede». 1.34.97 Non era camminata di palagio 1.34.98 là 'v' eravam, ma natural burella 1.34.99 ch' avea mal suolo e di lume disagio. 1.34.100 «Prima ch' io de l' abisso mi divella, 1.34.101 maestro mio», diss' io quando fui dritto, 1.34.102 «a trarmi d' erro un poco mi favella: 1.34.103 ov' è la ghiaccia? e questi com' è fitto 1.34.104 sì sottosopra? e come, in sì poc' ora, 1.34.105 da sera a mane ha fatto il sol tragitto?». 1.34.106 Ed elli a me: «Tu imagini ancora 1.34.107 d' esser di là dal centro, ov' io mi presi 1.34.108 al pel del vermo reo che 'l mondo fóra. 1.34.109 Di là fosti cotanto quant' io scesi; 1.34.110 quand' io mi volsi, tu passasti 'l punto 1.34.111 al qual si traggon d' ogne parte i pesi. 1.34.112 E se' or sotto l' emisperio giunto 1.34.113 ch' è contraposto a quel che la gran secca 1.34.114 coverchia, e sotto 'l cui colmo consunto 1.34.115 fu l' uom che nacque e visse sanza pecca; 1.34.116 tu häi i piedi in su picciola spera 1.34.117 che l' altra faccia fa de la Giudecca. 1.34.118 Qui è da man, quando di là è sera; 1.34.119 e questi, che ne fé scala col pelo, 1.34.120 fitto è ancora sì come prim' era. 1.34.121 Da questa parte cadde giù dal cielo; 1.34.122 e la terra, che pria di qua si sporse, 1.34.123 per paura di lui fé del mar velo, 1.34.124 e venne a l' emisperio nostro; e forse 1.34.125 per fuggir lui lasciò qui loco vòto 1.34.126 quella ch' appar di qua, e sù ricorse». 1.34.127 Luogo è là giù da Belzebù remoto 1.34.128 tanto quanto la tomba si distende, 1.34.129 che non per vista, ma per suono è noto 1.34.130 d' un ruscelletto che quivi discende 1.34.131 per la buca d' un sasso, ch' elli ha roso, 1.34.132 col corso ch' elli avvolge, e poco pende. 1.34.133 Lo duca e io per quel cammino ascoso 1.34.134 intrammo a ritornar nel chiaro mondo; 1.34.135 e sanza cura aver d' alcun riposo, 1.34.136 salimmo sù, el primo e io secondo, 1.34.137 tanto ch' i' vidi de le cose belle 1.34.138 che porta 'l ciel, per un pertugio tondo. 1.34.139 E quindi uscimmo a riveder le stelle.

Purgatorio

CANTO I
2.1.1 Per correr miglior acque alza le vele 2.1.2 omai la navicella del mio ingegno, 2.1.3 che lascia dietro a sé mar sì crudele; 2.1.4 e canterò di quel secondo regno 2.1.5 dove l' umano spirito si purga 2.1.6 e di salire al ciel diventa degno. 2.1.7 Ma qui la morta poesì resurga, 2.1.8 o sante Muse, poi che vostro sono; 2.1.9 e qui Calïopè alquanto surga, 2.1.10 seguitando il mio canto con quel suono 2.1.11 di cui le Piche misere sentiro 2.1.12 lo colpo tal, che disperar perdono. 2.1.13 Dolce color d' orïental zaffiro, 2.1.14 che s' accoglieva nel sereno aspetto 2.1.15 del mezzo, puro infino al primo giro, 2.1.16 a li occhi miei ricominciò diletto, 2.1.17 tosto ch' io usci' fuor de l' aura morta 2.1.18 che m' avea contristati li occhi e 'l petto. 2.1.19 Lo bel pianeto che d' amar conforta 2.1.20 faceva tutto rider l' orïente, 2.1.21 velando i Pesci ch' erano in sua scorta. 2.1.22 I' mi volsi a man destra, e puosi mente 2.1.23 a l' altro polo, e vidi quattro stelle 2.1.24 non viste mai fuor ch' a la prima gente. 2.1.25 Goder pareva 'l ciel di lor fiammelle: 2.1.26 oh settentrïonal vedovo sito, 2.1.27 poi che privato se' di mirar quelle! 2.1.28 Com' io da loro sguardo fui partito, 2.1.29 un poco me volgendo a l' altro polo, 2.1.30 là onde 'l Carro già era sparito, 2.1.31 vidi presso di me un veglio solo, 2.1.32 degno di tanta reverenza in vista, 2.1.33 che più non dee a padre alcun figliuolo. 2.1.34 Lunga la barba e di pel bianco mista 2.1.35 portava, a' suoi capelli simigliante, 2.1.36 de' quai cadeva al petto doppia lista. 2.1.37 Li raggi de le quattro luci sante 2.1.38 fregiavan sì la sua faccia di lume, 2.1.39 ch' i' 'l vedea come 'l sol fosse davante. 2.1.40 «Chi siete voi che contro al cieco fiume 2.1.41 fuggita avete la pregione etterna?», 2.1.42 diss' el, movendo quelle oneste piume. 2.1.43 «Chi v' ha guidati, o che vi fu lucerna, 2.1.44 uscendo fuor de la profonda notte 2.1.45 che sempre nera fa la valle inferna? 2.1.46 Son le leggi d' abisso così rotte? 2.1.47 o è mutato in ciel novo consiglio, 2.1.48 che, dannati, venite a le mie grotte?». 2.1.49 Lo duca mio allor mi diè di piglio, 2.1.50 e con parole e con mani e con cenni 2.1.51 reverenti mi fé le gambe e 'l ciglio. 2.1.52 Poscia rispuose lui: «Da me non venni: 2.1.53 donna scese del ciel, per li cui prieghi 2.1.54 de la mia compagnia costui sovvenni. 2.1.55 Ma da ch' è tuo voler che più si spieghi 2.1.56 di nostra condizion com' ell' è vera, 2.1.57 esser non puote il mio che a te si nieghi. 2.1.58 Questi non vide mai l' ultima sera; 2.1.59 ma per la sua follia le fu sì presso, 2.1.60 che molto poco tempo a volger era. 2.1.61 Sì com' io dissi, fui mandato ad esso 2.1.62 per lui campare; e non lì era altra via 2.1.63 che questa per la quale i' mi son messo. 2.1.64 Mostrata ho lui tutta la gente ria; 2.1.65 e ora intendo mostrar quelli spirti 2.1.66 che purgan sé sotto la tua balìa. 2.1.67 Com' io l' ho tratto, saria lungo a dirti; 2.1.68 de l' alto scende virtù che m' aiuta 2.1.69 conducerlo a vederti e a udirti. 2.1.70 Or ti piaccia gradir la sua venuta: 2.1.71 libertà va cercando, ch' è sì cara, 2.1.72 come sa chi per lei vita rifiuta. 2.1.73 Tu 'l sai, ché non ti fu per lei amara 2.1.74 in Utica la morte, ove lasciasti 2.1.75 la vesta ch' al gran dì sarà sì chiara. 2.1.76 Non son li editti etterni per noi guasti, 2.1.77 ché questi vive e Minòs me non lega; 2.1.78 ma son del cerchio ove son li occhi casti 2.1.79 di Marzia tua, che 'n vista ancor ti priega, 2.1.80 o santo petto, che per tua la tegni: 2.1.81 per lo suo amore adunque a noi ti piega. 2.1.82 Lasciane andar per li tuoi sette regni; 2.1.83 grazie riporterò di te a lei, 2.1.84 se d' esser mentovato là giù degni». 2.1.85 «Marzïa piacque tanto a li occhi miei 2.1.86 mentre ch' i' fu' di là», diss' elli allora, 2.1.87 «che quante grazie volse da me, fei. 2.1.88 Or che di là dal mal fiume dimora, 2.1.89 più muover non mi può, per quella legge 2.1.90 che fatta fu quando me n' usci' fora. 2.1.91 Ma se donna del ciel ti move e regge, 2.1.92 come tu di', non c' è mestier lusinghe: 2.1.93 bastisi ben che per lei mi richegge. 2.1.94 Va dunque, e fa che tu costui ricinghe 2.1.95 d' un giunco schietto e che li lavi 'l viso, 2.1.96 sì ch' ogne sucidume quindi stinghe; 2.1.97 ché non si converria, l' occhio sorpriso 2.1.98 d' alcuna nebbia, andar dinanzi al primo 2.1.99 ministro, ch' è di quei di paradiso. 2.1.100 Questa isoletta intorno ad imo ad imo, 2.1.101 là giù colà dove la batte l' onda, 2.1.102 porta di giunchi sovra 'l molle limo: 2.1.103 null' altra pianta che facesse fronda 2.1.104 o indurasse, vi puote aver vita, 2.1.105 però ch' a le percosse non seconda. 2.1.106 Poscia non sia di qua vostra reddita; 2.1.107 lo sol vi mosterrà, che surge omai, 2.1.108 prendere il monte a più lieve salita». 2.1.109 Così sparì; e io sù mi levai 2.1.110 sanza parlare, e tutto mi ritrassi 2.1.111 al duca mio, e li occhi a lui drizzai. 2.1.112 El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi: 2.1.113 volgianci in dietro, ché di qua dichina 2.1.114 questa pianura a' suoi termini bassi». 2.1.115 L' alba vinceva l' ora mattutina 2.1.116 che fuggia innanzi, sì che di lontano 2.1.117 conobbi il tremolar de la marina. 2.1.118 Noi andavam per lo solingo piano 2.1.119 com' om che torna a la perduta strada, 2.1.120 che 'nfino ad essa li pare ire in vano. 2.1.121 Quando noi fummo là 've la rugiada 2.1.122 pugna col sole, per essere in parte 2.1.123 dove, ad orezza, poco si dirada, 2.1.124 ambo le mani in su l' erbetta sparte 2.1.125 soavemente 'l mio maestro pose: 2.1.126 ond' io, che fui accorto di sua arte, 2.1.127 porsi ver' lui le guance lagrimose; 2.1.128 ivi mi fece tutto discoverto 2.1.129 quel color che l' inferno mi nascose. 2.1.130 Venimmo poi in sul lito diserto, 2.1.131 che mai non vide navicar sue acque 2.1.132 omo, che di tornar sia poscia esperto. 2.1.133 Quivi mi cinse sì com' altrui piacque: 2.1.134 oh maraviglia! ché qual elli scelse 2.1.135 l' umile pianta, cotal si rinacque 2.1.136 subitamente là onde l' avelse.
CANTO II
2.2.1 Già era 'l sole a l' orizzonte giunto 2.2.2 lo cui meridïan cerchio coverchia 2.2.3 Ierusalèm col suo più alto punto; 2.2.4 e la notte, che opposita a lui cerchia, 2.2.5 uscia di Gange fuor con le Bilance, 2.2.6 che le caggion di man quando soverchia; 2.2.7 sì che le bianche e le vermiglie guance, 2.2.8 là dov' i' era, de la bella Aurora 2.2.9 per troppa etate divenivan rance. 2.2.10 Noi eravam lunghesso mare ancora, 2.2.11 come gente che pensa a suo cammino, 2.2.12 che va col cuore e col corpo dimora. 2.2.13 Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino, 2.2.14 per li grossi vapor Marte rosseggia 2.2.15 giù nel ponente sovra 'l suol marino, 2.2.16 cotal m' apparve, s' io ancor lo veggia, 2.2.17 un lume per lo mar venir sì ratto, 2.2.18 che 'l muover suo nessun volar pareggia. 2.2.19 Dal qual com' io un poco ebbi ritratto 2.2.20 l' occhio per domandar lo duca mio, 2.2.21 rividil più lucente e maggior fatto. 2.2.22 Poi d' ogne lato ad esso m' appario 2.2.23 un non sapeva che bianco, e di sotto 2.2.24 a poco a poco un altro a lui uscìo. 2.2.25 Lo mio maestro ancor non facea motto, 2.2.26 mentre che i primi bianchi apparver ali; 2.2.27 allor che ben conobbe il galeotto, 2.2.28 gridò: «Fa, fa che le ginocchia cali. 2.2.29 Ecco l' angel di Dio: piega le mani; 2.2.30 omai vedrai di sì fatti officiali. 2.2.31 Vedi che sdegna li argomenti umani, 2.2.32 sì che remo non vuol, né altro velo 2.2.33 che l' ali sue, tra liti sì lontani. 2.2.34 Vedi come l' ha dritte verso 'l cielo, 2.2.35 trattando l' aere con l' etterne penne, 2.2.36 che non si mutan come mortal pelo». 2.2.37 Poi, come più e più verso noi venne 2.2.38 l' uccel divino, più chiaro appariva: 2.2.39 per che l' occhio da presso nol sostenne, 2.2.40 ma chinail giuso; e quei sen venne a riva 2.2.41 con un vasello snelletto e leggero, 2.2.42 tanto che l' acqua nulla ne 'nghiottiva. 2.2.43 Da poppa stava il celestial nocchiero, 2.2.44 tal che faria beato pur descripto; 2.2.45 e più di cento spirti entro sediero. 2.2.46 "In exitu Isräel de Aegypto" 2.2.47 cantavan tutti insieme ad una voce 2.2.48 con quanto di quel salmo è poscia scripto. 2.2.49 Poi fece il segno lor di santa croce; 2.2.50 ond' ei si gittar tutti in su la piaggia: 2.2.51 ed el sen gì, come venne, veloce. 2.2.52 La turba che rimase lì, selvaggia 2.2.53 parea del loco, rimirando intorno 2.2.54 come colui che nove cose assaggia. 2.2.55 Da tutte parti saettava il giorno 2.2.56 lo sol, ch' avea con le saette conte 2.2.57 di mezzo 'l ciel cacciato Capricorno, 2.2.58 quando la nova gente alzò la fronte 2.2.59 ver' noi, dicendo a noi: «Se voi sapete, 2.2.60 mostratene la via di gire al monte». 2.2.61 E Virgilio rispuose: «Voi credete 2.2.62 forse che siamo esperti d' esto loco; 2.2.63 ma noi siam peregrin come voi siete. 2.2.64 Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco, 2.2.65 per altra via, che fu sì aspra e forte, 2.2.66 che lo salire omai ne parrà gioco». 2.2.67 L' anime, che si fuor di me accorte, 2.2.68 per lo spirare, ch' i' era ancor vivo, 2.2.69 maravigliando diventaro smorte. 2.2.70 E come a messagger che porta ulivo 2.2.71 tragge la gente per udir novelle, 2.2.72 e di calcar nessun si mostra schivo, 2.2.73 così al viso mio s' affisar quelle 2.2.74 anime fortunate tutte quante, 2.2.75 quasi oblïando d' ire a farsi belle. 2.2.76 Io vidi una di lor trarresi avante 2.2.77 per abbracciarmi, con sì grande affetto, 2.2.78 che mosse me a far lo somigliante. 2.2.79 Ohi ombre vane, fuor che ne l' aspetto! 2.2.80 tre volte dietro a lei le mani avvinsi, 2.2.81 e tante mi tornai con esse al petto. 2.2.82 Di maraviglia, credo, mi dipinsi; 2.2.83 per che l' ombra sorrise e si ritrasse, 2.2.84 e io, seguendo lei, oltre mi pinsi. 2.2.85 Soavemente disse ch' io posasse; 2.2.86 allor conobbi chi era, e pregai 2.2.87 che, per parlarmi, un poco s' arrestasse. 2.2.88 Rispuosemi: «Così com' io t' amai 2.2.89 nel mortal corpo, così t' amo sciolta: 2.2.90 però m' arresto; ma tu perché vai?». 2.2.91 «Casella mio, per tornar altra volta 2.2.92 là dov' io son, fo io questo vïaggio», 2.2.93 diss' io; «ma a te com' è tanta ora tolta?». 2.2.94 Ed elli a me: «Nessun m' è fatto oltraggio, 2.2.95 se quei che leva quando e cui li piace, 2.2.96 più volte m' ha negato esto passaggio; 2.2.97 ché di giusto voler lo suo si face: 2.2.98 veramente da tre mesi elli ha tolto 2.2.99 chi ha voluto intrar, con tutta pace. 2.2.100 Ond' io, ch' era ora a la marina vòlto 2.2.101 dove l' acqua di Tevero s' insala, 2.2.102 benignamente fu' da lui ricolto. 2.2.103 A quella foce ha elli or dritta l' ala, 2.2.104 però che sempre quivi si ricoglie 2.2.105 qual verso Acheronte non si cala». 2.2.106 E io: «Se nuova legge non ti toglie 2.2.107 memoria o uso a l' amoroso canto 2.2.108 che mi solea quetar tutte mie doglie, 2.2.109 di ciò ti piaccia consolare alquanto 2.2.110 l' anima mia, che, con la sua persona 2.2.111 venendo qui, è affannata tanto!». 2.2.112 "Amor che ne la mente mi ragiona" 2.2.113 cominciò elli allor sì dolcemente, 2.2.114 che la dolcezza ancor dentro mi suona. 2.2.115 Lo mio maestro e io e quella gente 2.2.116 ch' eran con lui parevan sì contenti, 2.2.117 come a nessun toccasse altro la mente. 2.2.118 Noi eravam tutti fissi e attenti 2.2.119 a le sue note; ed ecco il veglio onesto 2.2.120 gridando: «Che è ciò, spiriti lenti? 2.2.121 qual negligenza, quale stare è questo? 2.2.122 Correte al monte a spogliarvi lo scoglio 2.2.123 ch' esser non lascia a voi Dio manifesto». 2.2.124 Come quando, cogliendo biado o loglio, 2.2.125 li colombi adunati a la pastura, 2.2.126 queti, sanza mostrar l' usato orgoglio, 2.2.127 se cosa appare ond' elli abbian paura, 2.2.128 subitamente lasciano star l' esca, 2.2.129 perch' assaliti son da maggior cura; 2.2.130 così vid' io quella masnada fresca 2.2.131 lasciar lo canto, e fuggir ver' la costa, 2.2.132 com' om che va, né sa dove rïesca; 2.2.133 né la nostra partita fu men tosta.
CANTO III
2.3.1 Avvegna che la subitana fuga 2.3.2 dispergesse color per la campagna, 2.3.3 rivolti al monte ove ragion ne fruga, 2.3.4 i' mi ristrinsi a la fida compagna: 2.3.5 e come sare' io sanza lui corso? 2.3.6 chi m' avria tratto su per la montagna? 2.3.7 El mi parea da sé stesso rimorso: 2.3.8 o dignitosa coscïenza e netta, 2.3.9 come t' è picciol fallo amaro morso! 2.3.10 Quando li piedi suoi lasciar la fretta, 2.3.11 che l' onestade ad ogn' atto dismaga, 2.3.12 la mente mia, che prima era ristretta, 2.3.13 lo 'ntento rallargò, sì come vaga, 2.3.14 e diedi 'l viso mio incontr' al poggio 2.3.15 che 'nverso 'l ciel più alto si dislaga. 2.3.16 Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio, 2.3.17 rotto m' era dinanzi a la figura, 2.3.18 ch' avëa in me de' suoi raggi l' appoggio. 2.3.19 Io mi volsi dallato con paura 2.3.20 d' essere abbandonato, quand' io vidi 2.3.21 solo dinanzi a me la terra oscura; 2.3.22 e 'l mio conforto: «Perché pur diffidi?», 2.3.23 a dir mi cominciò tutto rivolto; 2.3.24 «non credi tu me teco e ch' io ti guidi? 2.3.25 Vespero è già colà dov' è sepolto 2.3.26 lo corpo dentro al quale io facea ombra; 2.3.27 Napoli l' ha, e da Brandizio è tolto. 2.3.28 Ora, se innanzi a me nulla s' aombra, 2.3.29 non ti maravigliar più che d' i cieli 2.3.30 che l' uno a l' altro raggio non ingombra. 2.3.31 A sofferir tormenti, caldi e geli 2.3.32 simili corpi la Virtù dispone 2.3.33 che, come fa, non vuol ch' a noi si sveli. 2.3.34 Matto è chi spera che nostra ragione 2.3.35 possa trascorrer la infinita via 2.3.36 che tiene una sustanza in tre persone. 2.3.37 State contenti, umana gente, al quia; 2.3.38 ché, se potuto aveste veder tutto, 2.3.39 mestier non era parturir Maria; 2.3.40 e disïar vedeste sanza frutto 2.3.41 tai che sarebbe lor disio quetato, 2.3.42 ch' etternalmente è dato lor per lutto: 2.3.43 io dico d' Aristotile e di Plato 2.3.44 e di molt' altri»; e qui chinò la fronte, 2.3.45 e più non disse, e rimase turbato. 2.3.46 Noi divenimmo intanto a piè del monte; 2.3.47 quivi trovammo la roccia sì erta, 2.3.48 che 'ndarno vi sarien le gambe pronte. 2.3.49 Tra Lerice e Turbìa la più diserta, 2.3.50 la più rotta ruina è una scala, 2.3.51 verso di quella, agevole e aperta. 2.3.52 «Or chi sa da qual man la costa cala», 2.3.53 disse 'l maestro mio fermando 'l passo, 2.3.54 «sì che possa salir chi va sanz' ala?». 2.3.55 E mentre ch' e' tenendo 'l viso basso 2.3.56 essaminava del cammin la mente, 2.3.57 e io mirava suso intorno al sasso, 2.3.58 da man sinistra m' apparì una gente 2.3.59 d' anime, che movieno i piè ver' noi, 2.3.60 e non pareva, sì venïan lente. 2.3.61 «Leva», diss' io, «maestro, li occhi tuoi: 2.3.62 ecco di qua chi ne darà consiglio, 2.3.63 se tu da te medesmo aver nol puoi». 2.3.64 Guardò allora, e con libero piglio 2.3.65 rispuose: «Andiamo in là, ch' ei vegnon piano; 2.3.66 e tu ferma la spene, dolce figlio». 2.3.67 Ancora era quel popol di lontano, 2.3.68 i' dico dopo i nostri mille passi, 2.3.69 quanto un buon gittator trarria con mano, 2.3.70 quando si strinser tutti ai duri massi 2.3.71 de l' alta ripa, e stetter fermi e stretti 2.3.72 com' a guardar, chi va dubbiando, stassi. 2.3.73 «O ben finiti, o già spiriti eletti», 2.3.74 Virgilio incominciò, «per quella pace 2.3.75 ch' i' credo che per voi tutti s' aspetti, 2.3.76 ditene dove la montagna giace, 2.3.77 sì che possibil sia l' andare in suso; 2.3.78 ché perder tempo a chi più sa più spiace». 2.3.79 Come le pecorelle escon del chiuso 2.3.80 a una, a due, a tre, e l' altre stanno 2.3.81 timidette atterrando l' occhio e 'l muso; 2.3.82 e ciò che fa la prima, e l' altre fanno, 2.3.83 addossandosi a lei, s' ella s' arresta, 2.3.84 semplici e quete, e lo 'mperché non sanno; 2.3.85 sì vid' io muovere a venir la testa 2.3.86 di quella mandra fortunata allotta, 2.3.87 pudica in faccia e ne l' andare onesta. 2.3.88 Come color dinanzi vider rotta 2.3.89 la luce in terra dal mio destro canto, 2.3.90 sì che l' ombra era da me a la grotta, 2.3.91 restaro, e trasser sé in dietro alquanto, 2.3.92 e tutti li altri che venieno appresso, 2.3.93 non sappiendo 'l perché, fenno altrettanto. 2.3.94 «Sanza vostra domanda io vi confesso 2.3.95 che questo è corpo uman che voi vedete; 2.3.96 per che 'l lume del sole in terra è fesso. 2.3.97 Non vi maravigliate, ma credete 2.3.98 che non sanza virtù che da ciel vegna 2.3.99 cerchi di soverchiar questa parete». 2.3.100 Così 'l maestro; e quella gente degna 2.3.101 «Tornate», disse, «intrate innanzi dunque», 2.3.102 coi dossi de le man faccendo insegna. 2.3.103 E un di loro incominciò: «Chiunque 2.3.104 tu se', così andando, volgi 'l viso: 2.3.105 pon mente se di là mi vedesti unque». 2.3.106 Io mi volsi ver' lui e guardail fiso: 2.3.107 biondo era e bello e di gentile aspetto, 2.3.108 ma l' un de' cigli un colpo avea diviso. 2.3.109 Quand' io mi fui umilmente disdetto 2.3.110 d' averlo visto mai, el disse: «Or vedi»; 2.3.111 e mostrommi una piaga a sommo 'l petto. 2.3.112 Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi, 2.3.113 nepote di Costanza imperadrice; 2.3.114 ond' io ti priego che, quando tu riedi, 2.3.115 vadi a mia bella figlia, genitrice 2.3.116 de l' onor di Cicilia e d' Aragona, 2.3.117 e dichi 'l vero a lei, s' altro si dice. 2.3.118 Poscia ch' io ebbi rotta la persona 2.3.119 di due punte mortali, io mi rendei, 2.3.120 piangendo, a quei che volontier perdona. 2.3.121 Orribil furon li peccati miei; 2.3.122 ma la bontà infinita ha sì gran braccia, 2.3.123 che prende ciò che si rivolge a lei. 2.3.124 Se 'l pastor di Cosenza, che a la caccia 2.3.125 di me fu messo per Clemente allora, 2.3.126 avesse in Dio ben letta questa faccia, 2.3.127 l' ossa del corpo mio sarieno ancora 2.3.128 in co del ponte presso a Benevento, 2.3.129 sotto la guardia de la grave mora. 2.3.130 Or le bagna la pioggia e move il vento 2.3.131 di fuor dal regno, quasi lungo 'l Verde, 2.3.132 dov' e' le trasmutò a lume spento. 2.3.133 Per lor maladizion sì non si perde, 2.3.134 che non possa tornar, l' etterno amore, 2.3.135 mentre che la speranza ha fior del verde. 2.3.136 Vero è che quale in contumacia more 2.3.137 di Santa Chiesa, ancor ch' al fin si penta, 2.3.138 star li convien da questa ripa in fore, 2.3.139 per ognun tempo ch' elli è stato, trenta, 2.3.140 in sua presunzïon, se tal decreto 2.3.141 più corto per buon prieghi non diventa. 2.3.142 Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto, 2.3.143 revelando a la mia buona Costanza 2.3.144 come m' hai visto, e anco esto divieto; 2.3.145 ché qui per quei di là molto s' avanza».
CANTO IV
2.4.1 Quando per dilettanze o ver per doglie, 2.4.2 che alcuna virtù nostra comprenda, 2.4.3 l' anima bene ad essa si raccoglie, 2.4.4 par ch' a nulla potenza più intenda; 2.4.5 e questo è contra quello error che crede 2.4.6 ch' un' anima sovr' altra in noi s' accenda. 2.4.7 E però, quando s' ode cosa o vede 2.4.8 che tegna forte a sé l' anima volta, 2.4.9 vassene 'l tempo e l' uom non se n' avvede; 2.4.10 ch' altra potenza è quella che l' ascolta, 2.4.11 e altra è quella c' ha l' anima intera: 2.4.12 questa è quasi legata e quella è sciolta. 2.4.13 Di ciò ebb' io esperïenza vera, 2.4.14 udendo quello spirto e ammirando; 2.4.15 ché ben cinquanta gradi salito era 2.4.16 lo sole, e io non m' era accorto, quando 2.4.17 venimmo ove quell' anime ad una 2.4.18 gridaro a noi: «Qui è vostro dimando». 2.4.19 Maggiore aperta molte volte impruna 2.4.20 con una forcatella di sue spine 2.4.21 l' uom de la villa quando l' uva imbruna, 2.4.22 che non era la calla onde salìne 2.4.23 lo duca mio, e io appresso, soli, 2.4.24 come da noi la schiera si partìne. 2.4.25 Vassi in Sanleo e discendesi in Noli, 2.4.26 montasi su in Bismantova e 'n Cacume 2.4.27 con esso i piè; ma qui convien ch' om voli; 2.4.28 dico con l' ale snelle e con le piume 2.4.29 del gran disio, di retro a quel condotto 2.4.30 che speranza mi dava e facea lume. 2.4.31 Noi salavam per entro 'l sasso rotto, 2.4.32 e d' ogne lato ne stringea lo stremo, 2.4.33 e piedi e man volea il suol di sotto. 2.4.34 Poi che noi fummo in su l' orlo suppremo 2.4.35 de l' alta ripa, a la scoperta piaggia, 2.4.36 «Maestro mio», diss' io, «che via faremo?». 2.4.37 Ed elli a me: «Nessun tuo passo caggia; 2.4.38 pur su al monte dietro a me acquista, 2.4.39 fin che n' appaia alcuna scorta saggia». 2.4.40 Lo sommo er' alto che vincea la vista, 2.4.41 e la costa superba più assai 2.4.42 che da mezzo quadrante a centro lista. 2.4.43 Io era lasso, quando cominciai: 2.4.44 «O dolce padre, volgiti, e rimira 2.4.45 com' io rimango sol, se non restai». 2.4.46 «Figliuol mio», disse, «infin quivi ti tira», 2.4.47 additandomi un balzo poco in sùe 2.4.48 che da quel lato il poggio tutto gira. 2.4.49 Sì mi spronaron le parole sue, 2.4.50 ch' i' mi sforzai carpando appresso lui, 2.4.51 tanto che 'l cinghio sotto i piè mi fue. 2.4.52 A seder ci ponemmo ivi ambedui 2.4.53 vòlti a levante ond' eravam saliti, 2.4.54 che suole a riguardar giovare altrui. 2.4.55 Li occhi prima drizzai ai bassi liti; 2.4.56 poscia li alzai al sole, e ammirava 2.4.57 che da sinistra n' eravam feriti. 2.4.58 Ben s' avvide il poeta ch' ïo stava 2.4.59 stupido tutto al carro de la luce, 2.4.60 ove tra noi e Aquilone intrava. 2.4.61 Ond' elli a me: «Se Castore e Poluce 2.4.62 fossero in compagnia di quello specchio 2.4.63 che sù e giù del suo lume conduce, 2.4.64 tu vedresti il Zodïaco rubecchio 2.4.65 ancora a l' Orse più stretto rotare, 2.4.66 se non uscisse fuor del cammin vecchio. 2.4.67 Come ciò sia, se 'l vuoi poter pensare, 2.4.68 dentro raccolto, imagina Sïòn 2.4.69 con questo monte in su la terra stare 2.4.70 sì, ch' amendue hanno un solo orizzòn 2.4.71 e diversi emisperi; onde la strada 2.4.72 che mal non seppe carreggiar Fetòn, 2.4.73 vedrai come a costui convien che vada 2.4.74 da l' un, quando a colui da l' altro fianco, 2.4.75 se lo 'ntelletto tuo ben chiaro bada». 2.4.76 «Certo, maestro mio», diss' io, «unquanco 2.4.77 non vid' io chiaro sì com' io discerno 2.4.78 là dove mio ingegno parea manco, 2.4.79 che 'l mezzo cerchio del moto superno, 2.4.80 che si chiama Equatore in alcun' arte, 2.4.81 e che sempre riman tra 'l sole e 'l verno, 2.4.82 per la ragion che di', quinci si parte 2.4.83 verso settentrïon, quanto li Ebrei 2.4.84 vedevan lui verso la calda parte. 2.4.85 Ma se a te piace, volontier saprei 2.4.86 quanto avemo ad andar; ché 'l poggio sale 2.4.87 più che salir non posson li occhi miei». 2.4.88 Ed elli a me: «Questa montagna è tale, 2.4.89 che sempre al cominciar di sotto è grave; 2.4.90 e quant' om più va sù, e men fa male. 2.4.91 Però, quand' ella ti parrà soave 2.4.92 tanto, che sù andar ti fia leggero 2.4.93 com' a seconda giù andar per nave, 2.4.94 allor sarai al fin d' esto sentiero; 2.4.95 quivi di riposar l' affanno aspetta. 2.4.96 Più non rispondo, e questo so per vero». 2.4.97 E com' elli ebbe sua parola detta, 2.4.98 una voce di presso sonò: «Forse 2.4.99 che di sedere in pria avrai distretta!». 2.4.100 Al suon di lei ciascun di noi si torse, 2.4.101 e vedemmo a mancina un gran petrone, 2.4.102 del qual né io né ei prima s' accorse. 2.4.103 Là ci traemmo; e ivi eran persone 2.4.104 che si stavano a l' ombra dietro al sasso 2.4.105 come l' uom per negghienza a star si pone. 2.4.106 E un di lor, che mi sembiava lasso, 2.4.107 sedeva e abbracciava le ginocchia, 2.4.108 tenendo 'l viso giù tra esse basso. 2.4.109 «O dolce segnor mio», diss' io, «adocchia 2.4.110 colui che mostra sé più negligente 2.4.111 che se pigrizia fosse sua serocchia». 2.4.112 Allor si volse a noi e puose mente, 2.4.113 movendo 'l viso pur su per la coscia, 2.4.114 e disse: «Or va tu sù, che se' valente!». 2.4.115 Conobbi allor chi era, e quella angoscia 2.4.116 che m' avacciava un poco ancor la lena, 2.4.117 non m' impedì l' andare a lui; e poscia 2.4.118 ch' a lui fu' giunto, alzò la testa a pena, 2.4.119 dicendo: «Hai ben veduto come 'l sole 2.4.120 da l' omero sinistro il carro mena?». 2.4.121 Li atti suoi pigri e le corte parole 2.4.122 mosser le labbra mie un poco a riso; 2.4.123 poi cominciai: «Belacqua, a me non dole 2.4.124 di te omai; ma dimmi: perché assiso 2.4.125 quiritto se'? attendi tu iscorta, 2.4.126 o pur lo modo usato t' ha' ripriso?». 2.4.127 Ed elli: «O frate, andar in sù che porta? 2.4.128 ché non mi lascerebbe ire a' martìri 2.4.129 l' angel di Dio che siede in su la porta. 2.4.130 Prima convien che tanto il ciel m' aggiri 2.4.131 di fuor da essa, quanto fece in vita, 2.4.132 per ch' io 'ndugiai al fine i buon sospiri, 2.4.133 se orazïone in prima non m' aita 2.4.134 che surga sù di cuor che in grazia viva; 2.4.135 l' altra che val, che 'n ciel non è udita?». 2.4.136 E già il poeta innanzi mi saliva, 2.4.137 e dicea: «Vienne omai; vedi ch' è tocco 2.4.138 meridïan dal sole, e a la riva 2.4.139 cuopre la notte già col piè Morrocco».
CANTO V
2.5.1 Io era già da quell' ombre partito, 2.5.2 e seguitava l' orme del mio duca, 2.5.3 quando di retro a me, drizzando 'l dito, 2.5.4 una gridò: «Ve' che non par che luca 2.5.5 lo raggio da sinistra a quel di sotto, 2.5.6 e come vivo par che si conduca!». 2.5.7 Li occhi rivolsi al suon di questo motto, 2.5.8 e vidile guardar per maraviglia 2.5.9 pur me, pur me, e 'l lume ch' era rotto. 2.5.10 «Perché l' animo tuo tanto s' impiglia», 2.5.11 disse 'l maestro, «che l' andare allenti? 2.5.12 che ti fa ciò che quivi si pispiglia? 2.5.13 Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 2.5.14 sta come torre ferma, che non crolla 2.5.15 già mai la cima per soffiar di venti; 2.5.16 ché sempre l' omo in cui pensier rampolla 2.5.17 sovra pensier, da sé dilunga il segno, 2.5.18 perché la foga l' un de l' altro insolla». 2.5.19 Che potea io ridir, se non «Io vegno»? 2.5.20 Dissilo, alquanto del color consperso 2.5.21 che fa l' uom di perdon talvolta degno. 2.5.22 E 'ntanto per la costa di traverso 2.5.23 venivan genti innanzi a noi un poco, 2.5.24 cantando "Miserere"a verso a verso. 2.5.25 Quando s' accorser ch' i' non dava loco 2.5.26 per lo mio corpo al trapassar d' i raggi, 2.5.27 mutar lor canto in un «oh!»lungo e roco; 2.5.28 e due di loro, in forma di messaggi, 2.5.29 corsero incontr' a noi e dimandarne: 2.5.30 «Di vostra condizion fatene saggi». 2.5.31 E 'l mio maestro: «Voi potete andarne 2.5.32 e ritrarre a color che vi mandaro 2.5.33 che 'l corpo di costui è vera carne. 2.5.34 Se per veder la sua ombra restaro, 2.5.35 com' io avviso, assai è lor risposto: 2.5.36 fàccianli onore, ed esser può lor caro». 2.5.37 Vapori accesi non vid' io sì tosto 2.5.38 di prima notte mai fender sereno, 2.5.39 né, sol calando, nuvole d' agosto, 2.5.40 che color non tornasser suso in meno; 2.5.41 e, giunti là, con li altri a noi dier volta, 2.5.42 come schiera che scorre sanza freno. 2.5.43 «Questa gente che preme a noi è molta, 2.5.44 e vegnonti a pregar», disse 'l poeta: 2.5.45 «però pur va, e in andando ascolta». 2.5.46 «O anima che vai per esser lieta 2.5.47 con quelle membra con le quai nascesti», 2.5.48 venian gridando, «un poco il passo queta. 2.5.49 Guarda s' alcun di noi unqua vedesti, 2.5.50 sì che di lui di là novella porti: 2.5.51 deh, perché vai? deh, perché non t' arresti? 2.5.52 Noi fummo tutti già per forza morti, 2.5.53 e peccatori infino a l' ultima ora; 2.5.54 quivi lume del ciel ne fece accorti, 2.5.55 sì che, pentendo e perdonando, fora 2.5.56 di vita uscimmo a Dio pacificati, 2.5.57 che del disio di sé veder n' accora». 2.5.58 E io: «Perché ne' vostri visi guati, 2.5.59 non riconosco alcun; ma s' a voi piace 2.5.60 cosa ch' io possa, spiriti ben nati, 2.5.61 voi dite, e io farò per quella pace 2.5.62 che, dietro a' piedi di sì fatta guida, 2.5.63 di mondo in mondo cercar mi si face». 2.5.64 E uno incominciò: «Ciascun si fida 2.5.65 del beneficio tuo sanza giurarlo, 2.5.66 pur che 'l voler nonpossa non ricida. 2.5.67 Ond' io, che solo innanzi a li altri parlo, 2.5.68 ti priego, se mai vedi quel paese 2.5.69 che siede tra Romagna e quel di Carlo, 2.5.70 che tu mi sie di tuoi prieghi cortese 2.5.71 in Fano, sì che ben per me s' adori 2.5.72 pur ch' i' possa purgar le gravi offese. 2.5.73 Quindi fu' io; ma li profondi fóri 2.5.74 ond' uscì 'l sangue in sul quale io sedea, 2.5.75 fatti mi fuoro in grembo a li Antenori, 2.5.76 là dov' io più sicuro esser credea: 2.5.77 quel da Esti il fé far, che m' avea in ira 2.5.78 assai più là che dritto non volea. 2.5.79 Ma s' io fosse fuggito inver' la Mira, 2.5.80 quando fu' sovragiunto ad Orïaco, 2.5.81 ancor sarei di là dove si spira. 2.5.82 Corsi al palude, e le cannucce e 'l braco 2.5.83 m' impigliar sì ch' i' caddi; e lì vid' io 2.5.84 de le mie vene farsi in terra laco». 2.5.85 Poi disse un altro: «Deh, se quel disio 2.5.86 si compia che ti tragge a l' alto monte, 2.5.87 con buona pïetate aiuta il mio! 2.5.88 Io fui di Montefeltro, io son Bonconte; 2.5.89 Giovanna o altri non ha di me cura; 2.5.90 per ch' io vo tra costor con bassa fronte». 2.5.91 E io a lui: «Qual forza o qual ventura 2.5.92 ti travïò sì fuor di Campaldino, 2.5.93 che non si seppe mai tua sepultura?». 2.5.94 «Oh!», rispuos' elli, «a piè del Casentino 2.5.95 traversa un' acqua c' ha nome l' Archiano, 2.5.96 che sovra l' Ermo nasce in Apennino. 2.5.97 Là 've 'l vocabol suo diventa vano, 2.5.98 arriva' io forato ne la gola, 2.5.99 fuggendo a piede e sanguinando il piano. 2.5.100 Quivi perdei la vista e la parola; 2.5.101 nel nome di Maria fini', e quivi 2.5.102 caddi, e rimase la mia carne sola. 2.5.103 Io dirò vero, e tu 'l ridì tra ' vivi: 2.5.104 l' angel di Dio mi prese, e quel d' inferno 2.5.105 gridava: "O tu del ciel, perché mi privi? 2.5.106 Tu te ne porti di costui l' etterno 2.5.107 per una lagrimetta che 'l mi toglie; 2.5.108 ma io farò de l' altro altro governo!". 2.5.109 Ben sai come ne l' aere si raccoglie 2.5.110 quell' umido vapor che in acqua riede, 2.5.111 tosto che sale dove 'l freddo il coglie. 2.5.112 Giunse quel mal voler che pur mal chiede 2.5.113 con lo 'ntelletto, e mosse il fummo e 'l vento 2.5.114 per la virtù che sua natura diede. 2.5.115 Indi la valle, come 'l dì fu spento, 2.5.116 da Pratomagno al gran giogo coperse 2.5.117 di nebbia; e 'l ciel di sopra fece intento, 2.5.118 sì che 'l pregno aere in acqua si converse; 2.5.119 la pioggia cadde, e a' fossati venne 2.5.120 di lei ciò che la terra non sofferse; 2.5.121 e come ai rivi grandi si convenne, 2.5.122 ver' lo fiume real tanto veloce 2.5.123 si ruinò, che nulla la ritenne. 2.5.124 Lo corpo mio gelato in su la foce 2.5.125 trovò l' Archian rubesto; e quel sospinse 2.5.126 ne l' Arno, e sciolse al mio petto la croce 2.5.127 ch' i' fe' di me quando 'l dolor mi vinse; 2.5.128 voltòmmi per le ripe e per lo fondo, 2.5.129 poi di sua preda mi coperse e cinse». 2.5.130 «Deh, quando tu sarai tornato al mondo 2.5.131 e riposato de la lunga via», 2.5.132 seguitò 'l terzo spirito al secondo, 2.5.133 «ricorditi di me, che son la Pia; 2.5.134 Siena mi fé, disfecemi Maremma: 2.5.135 salsi colui che 'nnanellata pria 2.5.136 disposando m' avea con la sua gemma».
CANTO VI
2.6.1 Quando si parte il gioco de la zara, 2.6.2 colui che perde si riman dolente, 2.6.3 repetendo le volte, e tristo impara; 2.6.4 con l' altro se ne va tutta la gente; 2.6.5 qual va dinanzi, e qual di dietro il prende, 2.6.6 e qual dallato li si reca a mente; 2.6.7 el non s' arresta, e questo e quello intende; 2.6.8 a cui porge la man, più non fa pressa; 2.6.9 e così da la calca si difende. 2.6.10 Tal era io in quella turba spessa, 2.6.11 volgendo a loro, e qua e là, la faccia, 2.6.12 e promettendo mi sciogliea da essa. 2.6.13 Quiv' era l' Aretin che da le braccia 2.6.14 fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte, 2.6.15 e l' altro ch' annegò correndo in caccia. 2.6.16 Quivi pregava con le mani sporte 2.6.17 Federigo Novello, e quel da Pisa 2.6.18 che fé parer lo buon Marzucco forte. 2.6.19 Vidi conte Orso e l' anima divisa 2.6.20 dal corpo suo per astio e per inveggia, 2.6.21 com' e' dicea, non per colpa commisa; 2.6.22 Pier da la Broccia dico; e qui proveggia, 2.6.23 mentr' è di qua, la donna di Brabante, 2.6.24 sì che però non sia di peggior greggia. 2.6.25 Come libero fui da tutte quante 2.6.26 quell' ombre che pregar pur ch' altri prieghi, 2.6.27 sì che s' avacci lor divenir sante, 2.6.28 io cominciai: «El par che tu mi nieghi, 2.6.29 o luce mia, espresso in alcun testo 2.6.30 che decreto del cielo orazion pieghi; 2.6.31 e questa gente prega pur di questo: 2.6.32 sarebbe dunque loro speme vana, 2.6.33 o non m' è 'l detto tuo ben manifesto?». 2.6.34 Ed elli a me: «La mia scrittura è piana; 2.6.35 e la speranza di costor non falla, 2.6.36 se ben si guarda con la mente sana; 2.6.37 ché cima di giudicio non s' avvalla 2.6.38 perché foco d' amor compia in un punto 2.6.39 ciò che de' sodisfar chi qui s' astalla; 2.6.40 e là dov' io fermai cotesto punto, 2.6.41 non s' ammendava, per pregar, difetto, 2.6.42 perché 'l priego da Dio era disgiunto. 2.6.43 Veramente a così alto sospetto 2.6.44 non ti fermar, se quella nol ti dice 2.6.45 che lume fia tra 'l vero e lo 'ntelletto. 2.6.46 Non so se 'ntendi: io dico di Beatrice; 2.6.47 tu la vedrai di sopra, in su la vetta 2.6.48 di questo monte, ridere e felice». 2.6.49 E io: «Segnore, andiamo a maggior fretta, 2.6.50 ché già non m' affatico come dianzi, 2.6.51 e vedi omai che 'l poggio l' ombra getta». 2.6.52 «Noi anderem con questo giorno innanzi», 2.6.53 rispuose, «quanto più potremo omai; 2.6.54 ma 'l fatto è d' altra forma che non stanzi. 2.6.55 Prima che sie là sù, tornar vedrai 2.6.56 colui che già si cuopre de la costa, 2.6.57 sì che ' suoi raggi tu romper non fai. 2.6.58 Ma vedi là un' anima che, posta 2.6.59 sola soletta, inverso noi riguarda: 2.6.60 quella ne 'nsegnerà la via più tosta». 2.6.61 Venimmo a lei: o anima lombarda, 2.6.62 come ti stavi altera e disdegnosa 2.6.63 e nel mover de li occhi onesta e tarda! 2.6.64 Ella non ci dicëa alcuna cosa, 2.6.65 ma lasciavane gir, solo sguardando 2.6.66 a guisa di leon quando si posa. 2.6.67 Pur Virgilio si trasse a lei, pregando 2.6.68 che ne mostrasse la miglior salita; 2.6.69 e quella non rispuose al suo dimando, 2.6.70 ma di nostro paese e de la vita 2.6.71 ci 'nchiese; e 'l dolce duca incominciava 2.6.72 «Mantüa...», e l' ombra, tutta in sé romita, 2.6.73 surse ver' lui del loco ove pria stava, 2.6.74 dicendo: «O Mantoano, io son Sordello 2.6.75 de la tua terra!»; e l' un l' altro abbracciava. 2.6.76 Ahi serva Italia, di dolore ostello, 2.6.77 nave sanza nocchiere in gran tempesta, 2.6.78 non donna di provincie, ma bordello! 2.6.79 Quell' anima gentil fu così presta, 2.6.80 sol per lo dolce suon de la sua terra, 2.6.81 di fare al cittadin suo quivi festa; 2.6.82 e ora in te non stanno sanza guerra 2.6.83 li vivi tuoi, e l' un l' altro si rode 2.6.84 di quei ch' un muro e una fossa serra. 2.6.85 Cerca, misera, intorno da le prode 2.6.86 le tue marine, e poi ti guarda in seno, 2.6.87 s' alcuna parte in te di pace gode. 2.6.88 Che val perché ti racconciasse il freno 2.6.89 Iustinïano, se la sella è vòta? 2.6.90 Sanz' esso fora la vergogna meno. 2.6.91 Ahi gente che dovresti esser devota, 2.6.92 e lasciar seder Cesare in la sella, 2.6.93 se bene intendi ciò che Dio ti nota, 2.6.94 guarda come esta fiera è fatta fella 2.6.95 per non esser corretta da li sproni, 2.6.96 poi che ponesti mano a la predella. 2.6.97 O Alberto tedesco ch' abbandoni 2.6.98 costei ch' è fatta indomita e selvaggia, 2.6.99 e dovresti inforcar li suoi arcioni, 2.6.100 giusto giudicio da le stelle caggia 2.6.101 sovra 'l tuo sangue, e sia novo e aperto, 2.6.102 tal che 'l tuo successor temenza n' aggia! 2.6.103 Ch' avete tu e 'l tuo padre sofferto, 2.6.104 per cupidigia di costà distretti, 2.6.105 che 'l giardin de lo 'mperio sia diserto. 2.6.106 Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, 2.6.107 Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: 2.6.108 color già tristi, e questi con sospetti! 2.6.109 Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura 2.6.110 d' i tuoi gentili, e cura lor magagne; 2.6.111 e vedrai Santafior com' è oscura! 2.6.112 Vieni a veder la tua Roma che piagne 2.6.113 vedova e sola, e dì e notte chiama: 2.6.114 «Cesare mio, perché non m' accompagne?». 2.6.115 Vieni a veder la gente quanto s' ama! 2.6.116 e se nulla di noi pietà ti move, 2.6.117 a vergognar ti vien de la tua fama. 2.6.118 E se licito m' è, o sommo Giove 2.6.119 che fosti in terra per noi crucifisso, 2.6.120 son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? 2.6.121 O è preparazion che ne l' abisso 2.6.122 del tuo consiglio fai per alcun bene 2.6.123 in tutto de l' accorger nostro scisso? 2.6.124 Ché le città d' Italia tutte piene 2.6.125 son di tiranni, e un Marcel diventa 2.6.126 ogne villan che parteggiando viene. 2.6.127 Fiorenza mia, ben puoi esser contenta 2.6.128 di questa digression che non ti tocca, 2.6.129 mercé del popol tuo che si argomenta. 2.6.130 Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca 2.6.131 per non venir sanza consiglio a l' arco; 2.6.132 ma il popol tuo l' ha in sommo de la bocca. 2.6.133 Molti rifiutan lo comune incarco; 2.6.134 ma il popol tuo solicito risponde 2.6.135 sanza chiamare, e grida: «I' mi sobbarco!». 2.6.136 Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde: 2.6.137 tu ricca, tu con pace e tu con senno! 2.6.138 S' io dico 'l ver, l' effetto nol nasconde. 2.6.139 Atene e Lacedemona, che fenno 2.6.140 l' antiche leggi e furon sì civili, 2.6.141 fecero al viver bene un picciol cenno 2.6.142 verso di te, che fai tanto sottili 2.6.143 provedimenti, ch' a mezzo novembre 2.6.144 non giugne quel che tu d' ottobre fili. 2.6.145 Quante volte, del tempo che rimembre, 2.6.146 legge, moneta, officio e costume 2.6.147 hai tu mutato, e rinovate membre! 2.6.148 E se ben ti ricordi e vedi lume, 2.6.149 vedrai te somigliante a quella inferma 2.6.150 che non può trovar posa in su le piume, 2.6.151 ma con dar volta suo dolore scherma.
CANTO VII
2.7.1 Poscia che l' accoglienze oneste e liete 2.7.2 furo iterate tre e quattro volte, 2.7.3 Sordel si trasse, e disse: «Voi, chi siete?». 2.7.4 «Anzi che a questo monte fosser volte 2.7.5 l' anime degne di salire a Dio, 2.7.6 fur l' ossa mie per Ottavian sepolte. 2.7.7 Io son Virgilio; e per null' altro rio 2.7.8 lo ciel perdei che per non aver fé». 2.7.9 Così rispuose allora il duca mio. 2.7.10 Qual è colui che cosa innanzi sé 2.7.11 sùbita vede ond' e' si maraviglia, 2.7.12 che crede e non, dicendo «Ella è... non è...», 2.7.13 tal parve quelli; e poi chinò le ciglia, 2.7.14 e umilmente ritornò ver' lui, 2.7.15 e abbracciòl là 've 'l minor s' appiglia. 2.7.16 «O gloria di Latin», disse, «per cui 2.7.17 mostrò ciò che potea la lingua nostra, 2.7.18 o pregio etterno del loco ond' io fui, 2.7.19 qual merito o qual grazia mi ti mostra? 2.7.20 S' io son d' udir le tue parole degno, 2.7.21 dimmi se vien d' inferno, e di qual chiostra». 2.7.22 «Per tutt' i cerchi del dolente regno», 2.7.23 rispuose lui, «son io di qua venuto; 2.7.24 virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno. 2.7.25 Non per far, ma per non fare ho perduto 2.7.26 a veder l' alto Sol che tu disiri 2.7.27 e che fu tardi per me conosciuto. 2.7.28 Luogo è là giù non tristo di martìri, 2.7.29 ma di tenebre solo, ove i lamenti 2.7.30 non suonan come guai, ma son sospiri. 2.7.31 Quivi sto io coi pargoli innocenti 2.7.32 dai denti morsi de la morte avante 2.7.33 che fosser da l' umana colpa essenti; 2.7.34 quivi sto io con quei che le tre sante 2.7.35 virtù non si vestiro, e sanza vizio 2.7.36 conobber l' altre e seguir tutte quante. 2.7.37 Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio 2.7.38 dà noi per che venir possiam più tosto 2.7.39 là dove purgatorio ha dritto inizio». 2.7.40 Rispuose: «Loco certo non c' è posto; 2.7.41 licito m' è andar suso e intorno; 2.7.42 per quanto ir posso, a guida mi t' accosto. 2.7.43 Ma vedi già come dichina il giorno, 2.7.44 e andar sù di notte non si puote; 2.7.45 però è buon pensar di bel soggiorno. 2.7.46 Anime sono a destra qua remote; 2.7.47 se mi consenti, io ti merrò ad esse, 2.7.48 e non sanza diletto ti fier note». 2.7.49 «Com' è ciò?», fu risposto. «Chi volesse 2.7.50 salir di notte, fora elli impedito 2.7.51 d' altrui, o non sarria ché non potesse?». 2.7.52 E 'l buon Sordello in terra fregò 'l dito, 2.7.53 dicendo: «Vedi? sola questa riga 2.7.54 non varcheresti dopo 'l sol partito: 2.7.55 non però ch' altra cosa desse briga, 2.7.56 che la notturna tenebra, ad ir suso; 2.7.57 quella col nonpoder la voglia intriga. 2.7.58 Ben si poria con lei tornare in giuso 2.7.59 e passeggiar la costa intorno errando, 2.7.60 mentre che l' orizzonte il dì tien chiuso». 2.7.61 Allora il mio segnor, quasi ammirando, 2.7.62 «Menane», disse, «dunque là 've dici 2.7.63 ch' aver si può diletto dimorando». 2.7.64 Poco allungati c' eravam di lici, 2.7.65 quand' io m' accorsi che 'l monte era scemo, 2.7.66 a guisa che i vallon li sceman quici. 2.7.67 «Colà», disse quell' ombra, «n' anderemo 2.7.68 dove la costa face di sé grembo; 2.7.69 e là il novo giorno attenderemo». 2.7.70 Tra erto e piano era un sentiero schembo, 2.7.71 che ne condusse in fianco de la lacca, 2.7.72 là dove più ch' a mezzo muore il lembo. 2.7.73 Oro e argento fine, cocco e biacca, 2.7.74 indaco, legno lucido e sereno, 2.7.75 fresco smeraldo in l' ora che si fiacca, 2.7.76 da l' erba e da li fior, dentr' a quel seno 2.7.77 posti, ciascun saria di color vinto, 2.7.78 come dal suo maggiore è vinto il meno. 2.7.79 Non avea pur natura ivi dipinto, 2.7.80 ma di soavità di mille odori 2.7.81 vi facea uno incognito e indistinto. 2.7.82 "Salve, Regina"in sul verde e 'n su' fiori 2.7.83 quindi seder cantando anime vidi, 2.7.84 che per la valle non parean di fuori. 2.7.85 «Prima che 'l poco sole omai s' annidi», 2.7.86 cominciò 'l Mantoan che ci avea vòlti, 2.7.87 «tra color non vogliate ch' io vi guidi. 2.7.88 Di questo balzo meglio li atti e ' volti 2.7.89 conoscerete voi di tutti quanti, 2.7.90 che ne la lama giù tra essi accolti. 2.7.91 Colui che più siede alto e fa sembianti 2.7.92 d' aver negletto ciò che far dovea, 2.7.93 e che non move bocca a li altrui canti, 2.7.94 Rodolfo imperador fu, che potea 2.7.95 sanar le piaghe c' hanno Italia morta, 2.7.96 sì che tardi per altri si ricrea. 2.7.97 L' altro che ne la vista lui conforta, 2.7.98 resse la terra dove l' acqua nasce 2.7.99 che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta: 2.7.100 Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce 2.7.101 fu meglio assai che Vincislao suo figlio 2.7.102 barbuto, cui lussuria e ozio pasce. 2.7.103 E quel nasetto che stretto a consiglio 2.7.104 par con colui c' ha sì benigno aspetto, 2.7.105 morì fuggendo e disfiorando il giglio: 2.7.106 guardate là come si batte il petto! 2.7.107 L' altro vedete c' ha fatto a la guancia 2.7.108 de la sua palma, sospirando, letto. 2.7.109 Padre e suocero son del mal di Francia: 2.7.110 sanno la vita sua viziata e lorda, 2.7.111 e quindi viene il duol che sì li lancia. 2.7.112 Quel che par sì membruto e che s' accorda, 2.7.113 cantando, con colui dal maschio naso, 2.7.114 d' ogne valor portò cinta la corda; 2.7.115 e se re dopo lui fosse rimaso 2.7.116 lo giovanetto che retro a lui siede, 2.7.117 ben andava il valor di vaso in vaso, 2.7.118 che non si puote dir de l' altre rede; 2.7.119 Iacomo e Federigo hanno i reami; 2.7.120 del retaggio miglior nessun possiede. 2.7.121 Rade volte risurge per li rami 2.7.122 l' umana probitate; e questo vole 2.7.123 quei che la dà, perché da lui si chiami. 2.7.124 Anche al nasuto vanno mie parole 2.7.125 non men ch' a l' altro, Pier, che con lui canta, 2.7.126 onde Puglia e Proenza già si dole. 2.7.127 Tant' è del seme suo minor la pianta, 2.7.128 quanto, più che Beatrice e Margherita, 2.7.129 Costanza di marito ancor si vanta. 2.7.130 Vedete il re de la semplice vita 2.7.131 seder là solo, Arrigo d' Inghilterra: 2.7.132 questi ha ne' rami suoi migliore uscita. 2.7.133 Quel che più basso tra costor s' atterra, 2.7.134 guardando in suso, è Guiglielmo marchese, 2.7.135 per cui e Alessandria e la sua guerra 2.7.136 fa pianger Monferrato e Canavese».
CANTO VIII
2.8.1 Era già l' ora che volge il disio 2.8.2 ai navicanti e 'ntenerisce il core 2.8.3 lo dì c' han detto ai dolci amici addio; 2.8.4 e che lo novo peregrin d' amore 2.8.5 punge, se ode squilla di lontano 2.8.6 che paia il giorno pianger che si more; 2.8.7 quand' io incominciai a render vano 2.8.8 l' udire e a mirare una de l' alme 2.8.9 surta, che l' ascoltar chiedea con mano. 2.8.10 Ella giunse e levò ambo le palme, 2.8.11 ficcando li occhi verso l' orïente, 2.8.12 come dicesse a Dio: "D' altro non calme". 2.8.13 "Te lucis ante"sì devotamente 2.8.14 le uscìo di bocca e con sì dolci note, 2.8.15 che fece me a me uscir di mente; 2.8.16 e l' altre poi dolcemente e devote 2.8.17 seguitar lei per tutto l' inno intero, 2.8.18 avendo li occhi a le superne rote. 2.8.19 Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, 2.8.20 ché 'l velo è ora ben tanto sottile, 2.8.21 certo che 'l trapassar dentro è leggero. 2.8.22 Io vidi quello essercito gentile 2.8.23 tacito poscia riguardare in sùe, 2.8.24 quasi aspettando, palido e umìle; 2.8.25 e vidi uscir de l' alto e scender giùe 2.8.26 due angeli con due spade affocate, 2.8.27 tronche e private de le punte sue. 2.8.28 Verdi come fogliette pur mo nate 2.8.29 erano in veste, che da verdi penne 2.8.30 percosse traean dietro e ventilate. 2.8.31 L' un poco sovra noi a star si venne, 2.8.32 e l' altro scese in l' opposita sponda, 2.8.33 sì che la gente in mezzo si contenne. 2.8.34 Ben discernëa in lor la testa bionda; 2.8.35 ma ne la faccia l' occhio si smarria, 2.8.36 come virtù ch' a troppo si confonda. 2.8.37 «Ambo vegnon del grembo di Maria», 2.8.38 disse Sordello, «a guardia de la valle, 2.8.39 per lo serpente che verrà vie via». 2.8.40 Ond' io, che non sapeva per qual calle, 2.8.41 mi volsi intorno, e stretto m' accostai, 2.8.42 tutto gelato, a le fidate spalle. 2.8.43 E Sordello anco: «Or avvalliamo omai 2.8.44 tra le grandi ombre, e parleremo ad esse; 2.8.45 grazïoso fia lor vedervi assai». 2.8.46 Solo tre passi credo ch' i' scendesse, 2.8.47 e fui di sotto, e vidi un che mirava 2.8.48 pur me, come conoscer mi volesse. 2.8.49 Temp' era già che l' aere s' annerava, 2.8.50 ma non sì che tra li occhi suoi e ' miei 2.8.51 non dichiarisse ciò che pria serrava. 2.8.52 Ver' me si fece, e io ver' lui mi fei: 2.8.53 giudice Nin gentil, quanto mi piacque 2.8.54 quando ti vidi non esser tra ' rei! 2.8.55 Nullo bel salutar tra noi si tacque; 2.8.56 poi dimandò: «Quant' è che tu venisti 2.8.57 a piè del monte per le lontane acque?». 2.8.58 «Oh!», diss' io lui, «per entro i luoghi tristi 2.8.59 venni stamane, e sono in prima vita, 2.8.60 ancor che l' altra, sì andando, acquisti». 2.8.61 E come fu la mia risposta udita, 2.8.62 Sordello ed elli in dietro si raccolse 2.8.63 come gente di sùbito smarrita. 2.8.64 L' uno a Virgilio e l' altro a un si volse 2.8.65 che sedea lì, gridando: «Sù, Currado! 2.8.66 vieni a veder che Dio per grazia volse». 2.8.67 Poi, vòlto a me: «Per quel singular grado 2.8.68 che tu dei a colui che sì nasconde 2.8.69 lo suo primo perché, che non lì è guado, 2.8.70 quando sarai di là da le larghe onde, 2.8.71 dì a Giovanna mia che per me chiami 2.8.72 là dove a li 'nnocenti si risponde. 2.8.73 Non credo che la sua madre più m' ami, 2.8.74 poscia che trasmutò le bianche bende, 2.8.75 le quai convien che, misera!, ancor brami. 2.8.76 Per lei assai di lieve si comprende 2.8.77 quanto in femmina foco d' amor dura, 2.8.78 se l' occhio o 'l tatto spesso non l' accende. 2.8.79 Non le farà sì bella sepultura 2.8.80 la vipera che Melanesi accampa, 2.8.81 com' avria fatto il gallo di Gallura». 2.8.82 Così dicea, segnato de la stampa, 2.8.83 nel suo aspetto, di quel dritto zelo 2.8.84 che misuratamente in core avvampa. 2.8.85 Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo, 2.8.86 pur là dove le stelle son più tarde, 2.8.87 sì come rota più presso a lo stelo. 2.8.88 E 'l duca mio: «Figliuol, che là sù guarde?». 2.8.89 E io a lui: «A quelle tre facelle 2.8.90 di che 'l polo di qua tutto quanto arde». 2.8.91 Ond' elli a me: «Le quattro chiare stelle 2.8.92 che vedevi staman, son di là basse, 2.8.93 e queste son salite ov' eran quelle». 2.8.94 Com' ei parlava, e Sordello a sé il trasse 2.8.95 dicendo: «Vedi là 'l nostro avversaro»; 2.8.96 e drizzò il dito perché 'n là guardasse. 2.8.97 Da quella parte onde non ha riparo 2.8.98 la picciola vallea, era una biscia, 2.8.99 forse qual diede ad Eva il cibo amaro. 2.8.100 Tra l' erba e ' fior venìa la mala striscia, 2.8.101 volgendo ad ora ad or la testa, e 'l dosso 2.8.102 leccando come bestia che si liscia. 2.8.103 Io non vidi, e però dicer non posso, 2.8.104 come mosser li astor celestïali; 2.8.105 ma vidi bene e l' uno e l' altro mosso. 2.8.106 Sentendo fender l' aere a le verdi ali, 2.8.107 fuggì 'l serpente, e li angeli dier volta, 2.8.108 suso a le poste rivolando iguali. 2.8.109 L' ombra che s' era al giudice raccolta 2.8.110 quando chiamò, per tutto quello assalto 2.8.111 punto non fu da me guardare sciolta. 2.8.112 «Se la lucerna che ti mena in alto 2.8.113 truovi nel tuo arbitrio tanta cera 2.8.114 quant' è mestiere infino al sommo smalto», 2.8.115 cominciò ella, «se novella vera 2.8.116 di Val di Magra o di parte vicina 2.8.117 sai, dillo a me, che già grande là era. 2.8.118 Fui chiamato Currado Malaspina; 2.8.119 non son l' antico, ma di lui discesi; 2.8.120 a' miei portai l' amor che qui raffina». 2.8.121 «Oh!», diss' io lui, «per li vostri paesi 2.8.122 già mai non fui; ma dove si dimora 2.8.123 per tutta Europa ch' ei non sien palesi? 2.8.124 La fama che la vostra casa onora, 2.8.125 grida i segnori e grida la contrada, 2.8.126 sì che ne sa chi non vi fu ancora; 2.8.127 e io vi giuro, s' io di sopra vada, 2.8.128 che vostra gente onrata non si sfregia 2.8.129 del pregio de la borsa e de la spada. 2.8.130 Uso e natura sì la privilegia, 2.8.131 che, perché il capo reo il mondo torca, 2.8.132 sola va dritta e 'l mal cammin dispregia». 2.8.133 Ed elli: «Or va; che 'l sol non si ricorca 2.8.134 sette volte nel letto che 'l Montone 2.8.135 con tutti e quattro i piè cuopre e inforca, 2.8.136 che cotesta cortese oppinïone 2.8.137 ti fia chiavata in mezzo de la testa 2.8.138 con maggior chiovi che d' altrui sermone, 2.8.139 se corso di giudicio non s' arresta».
CANTO IX
2.9.1 La concubina di Titone antico 2.9.2 già s' imbiancava al balco d' orïente, 2.9.3 fuor de le braccia del suo dolce amico; 2.9.4 di gemme la sua fronte era lucente, 2.9.5 poste in figura del freddo animale 2.9.6 che con la coda percuote la gente; 2.9.7 e la notte, de' passi con che sale, 2.9.8 fatti avea due nel loco ov' eravamo, 2.9.9 e 'l terzo già chinava in giuso l' ale; 2.9.10 quand' io, che meco avea di quel d' Adamo, 2.9.11 vinto dal sonno, in su l' erba inchinai 2.9.12 là 've già tutti e cinque sedavamo. 2.9.13 Ne l' ora che comincia i tristi lai 2.9.14 la rondinella presso a la mattina, 2.9.15 forse a memoria de' suo' primi guai, 2.9.16 e che la mente nostra, peregrina 2.9.17 più da la carne e men da' pensier presa, 2.9.18 a le sue visïon quasi è divina, 2.9.19 in sogno mi parea veder sospesa 2.9.20 un' aguglia nel ciel con penne d' oro, 2.9.21 con l' ali aperte e a calare intesa; 2.9.22 ed esser mi parea là dove fuoro 2.9.23 abbandonati i suoi da Ganimede, 2.9.24 quando fu ratto al sommo consistoro. 2.9.25 Fra me pensava: "Forse questa fiede 2.9.26 pur qui per uso, e forse d' altro loco 2.9.27 disdegna di portarne suso in piede". 2.9.28 Poi mi parea che, poi rotata un poco, 2.9.29 terribil come folgor discendesse, 2.9.30 e me rapisse suso infino al foco. 2.9.31 Ivi parea che ella e io ardesse; 2.9.32 e sì lo 'ncendio imaginato cosse, 2.9.33 che convenne che 'l sonno si rompesse. 2.9.34 Non altrimenti Achille si riscosse, 2.9.35 li occhi svegliati rivolgendo in giro 2.9.36 e non sappiendo là dove si fosse, 2.9.37 quando la madre da Chirón a Schiro 2.9.38 trafuggò lui dormendo in le sue braccia, 2.9.39 là onde poi li Greci il dipartiro; 2.9.40 che mi scoss' io, sì come da la faccia 2.9.41 mi fuggì 'l sonno, e diventa' ismorto, 2.9.42 come fa l' uom che, spaventato, agghiaccia. 2.9.43 Dallato m' era solo il mio conforto, 2.9.44 e 'l sole er' alto già più che due ore, 2.9.45 e 'l viso m' era a la marina torto. 2.9.46 «Non aver tema», disse il mio segnore; 2.9.47 «fatti sicur, ché noi semo a buon punto; 2.9.48 non stringer, ma rallarga ogne vigore. 2.9.49 Tu se' omai al purgatorio giunto: 2.9.50 vedi là il balzo che 'l chiude dintorno; 2.9.51 vedi l' entrata là 've par digiunto. 2.9.52 Dianzi, ne l' alba che procede al giorno, 2.9.53 quando l' anima tua dentro dormia, 2.9.54 sovra li fiori ond' è là giù addorno 2.9.55 venne una donna, e disse: "I' son Lucia; 2.9.56 lasciatemi pigliar costui che dorme; 2.9.57 sì l' agevolerò per la sua via". 2.9.58 Sordel rimase e l' altre genti forme; 2.9.59 ella ti tolse, e come 'l dì fu chiaro, 2.9.60 sen venne suso; e io per le sue orme. 2.9.61 Qui ti posò, ma pria mi dimostraro 2.9.62 li occhi suoi belli quella intrata aperta; 2.9.63 poi ella e 'l sonno ad una se n' andaro». 2.9.64 A guisa d' uom che 'n dubbio si raccerta 2.9.65 e che muta in conforto sua paura, 2.9.66 poi che la verità li è discoperta, 2.9.67 mi cambia' io; e come sanza cura 2.9.68 vide me 'l duca mio, su per lo balzo 2.9.69 si mosse, e io di rietro inver' l' altura. 2.9.70 Lettor, tu vedi ben com' io innalzo 2.9.71 la mia matera, e però con più arte 2.9.72 non ti maravigliar s' io la rincalzo. 2.9.73 Noi ci appressammo, ed eravamo in parte 2.9.74 che là dove pareami prima rotto, 2.9.75 pur come un fesso che muro diparte, 2.9.76 vidi una porta, e tre gradi di sotto 2.9.77 per gire ad essa, di color diversi, 2.9.78 e un portier ch' ancor non facea motto. 2.9.79 E come l' occhio più e più v' apersi, 2.9.80 vidil seder sovra 'l grado sovrano, 2.9.81 tal ne la faccia ch' io non lo soffersi; 2.9.82 e una spada nuda avëa in mano, 2.9.83 che reflettëa i raggi sì ver' noi, 2.9.84 ch' io dirizzava spesso il viso in vano. 2.9.85 «Dite costinci: che volete voi?», 2.9.86 cominciò elli a dire, «ov' è la scorta? 2.9.87 Guardate che 'l venir sù non vi nòi». 2.9.88 «Donna del ciel, di queste cose accorta», 2.9.89 rispuose 'l mio maestro a lui, «pur dianzi 2.9.90 ne disse: "Andate là: quivi è la porta"». 2.9.91 «Ed ella i passi vostri in bene avanzi», 2.9.92 ricominciò il cortese portinaio: 2.9.93 «Venite dunque a' nostri gradi innanzi». 2.9.94 Là ne venimmo; e lo scaglion primaio 2.9.95 bianco marmo era sì pulito e terso, 2.9.96 ch' io mi specchiai in esso qual io paio. 2.9.97 Era il secondo tinto più che perso, 2.9.98 d' una petrina ruvida e arsiccia, 2.9.99 crepata per lo lungo e per traverso. 2.9.100 Lo terzo, che di sopra s' ammassiccia, 2.9.101 porfido mi parea, sì fiammeggiante 2.9.102 come sangue che fuor di vena spiccia. 2.9.103 Sovra questo tenëa ambo le piante 2.9.104 l' angel di Dio sedendo in su la soglia 2.9.105 che mi sembiava pietra di diamante. 2.9.106 Per li tre gradi sù di buona voglia 2.9.107 mi trasse il duca mio, dicendo: «Chiedi 2.9.108 umilemente che 'l serrame scioglia». 2.9.109 Divoto mi gittai a' santi piedi; 2.9.110 misericordia chiesi e ch' el m' aprisse, 2.9.111 ma tre volte nel petto pria mi diedi. 2.9.112 Sette P ne la fronte mi descrisse 2.9.113 col punton de la spada, e «Fa che lavi, 2.9.114 quando se' dentro, queste piaghe»disse. 2.9.115 Cenere, o terra che secca si cavi, 2.9.116 d' un color fora col suo vestimento; 2.9.117 e di sotto da quel trasse due chiavi. 2.9.118 L' una era d' oro e l' altra era d' argento; 2.9.119 pria con la bianca e poscia con la gialla 2.9.120 fece a la porta sì, ch' i' fu' contento. 2.9.121 «Quandunque l' una d' este chiavi falla, 2.9.122 che non si volga dritta per la toppa», 2.9.123 diss' elli a noi, «non s' apre questa calla. 2.9.124 Più cara è l' una; ma l' altra vuol troppa 2.9.125 d' arte e d' ingegno avanti che diserri, 2.9.126 perch' ella è quella che 'l nodo digroppa. 2.9.127 Da Pier le tegno; e dissemi ch' i' erri 2.9.128 anzi ad aprir ch' a tenerla serrata, 2.9.129 pur che la gente a' piedi mi s' atterri». 2.9.130 Poi pinse l' uscio a la porta sacrata, 2.9.131 dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti 2.9.132 che di fuor torna chi 'n dietro si guata». 2.9.133 E quando fuor ne' cardini distorti 2.9.134 li spigoli di quella regge sacra, 2.9.135 che di metallo son sonanti e forti, 2.9.136 non rugghiò sì né si mostrò sì acra 2.9.137 Tarpëa, come tolto le fu il buono 2.9.138 Metello, per che poi rimase macra. 2.9.139 Io mi rivolsi attento al primo tuono, 2.9.140 e "Te Deum laudamus"mi parea 2.9.141 udire in voce mista al dolce suono. 2.9.142 Tale imagine a punto mi rendea 2.9.143 ciò ch' io udiva, qual prender si suole 2.9.144 quando a cantar con organi si stea; 2.9.145 ch' or sì or no s' intendon le parole.
CANTO X
2.10.1 Poi fummo dentro al soglio de la porta 2.10.2 che 'l mal amor de l' anime disusa, 2.10.3 perché fa parer dritta la via torta, 2.10.4 sonando la senti' esser richiusa; 2.10.5 e s' io avesse li occhi vòlti ad essa, 2.10.6 qual fora stata al fallo degna scusa? 2.10.7 Noi salavam per una pietra fessa, 2.10.8 che si moveva e d' una e d' altra parte, 2.10.9 sì come l' onda che fugge e s' appressa. 2.10.10 «Qui si conviene usare un poco d' arte», 2.10.11 cominciò 'l duca mio, «in accostarsi 2.10.12 or quinci, or quindi al lato che si parte». 2.10.13 E questo fece i nostri passi scarsi, 2.10.14 tanto che pria lo scemo de la luna 2.10.15 rigiunse al letto suo per ricorcarsi, 2.10.16 che noi fossimo fuor di quella cruna; 2.10.17 ma quando fummo liberi e aperti 2.10.18 sù dove il monte in dietro si rauna, 2.10.19 ïo stancato e amendue incerti 2.10.20 di nostra via, restammo in su un piano 2.10.21 solingo più che strade per diserti. 2.10.22 Da la sua sponda, ove confina il vano, 2.10.23 al piè de l' alta ripa che pur sale, 2.10.24 misurrebbe in tre volte un corpo umano; 2.10.25 e quanto l' occhio mio potea trar d' ale, 2.10.26 or dal sinistro e or dal destro fianco, 2.10.27 questa cornice mi parea cotale. 2.10.28 Là sù non eran mossi i piè nostri anco, 2.10.29 quand' io conobbi quella ripa intorno 2.10.30 che dritto di salita aveva manco, 2.10.31 esser di marmo candido e addorno 2.10.32 d' intagli sì, che non pur Policleto, 2.10.33 ma la natura lì avrebbe scorno. 2.10.34 L' angel che venne in terra col decreto 2.10.35 de la molt' anni lagrimata pace, 2.10.36 ch' aperse il ciel del suo lungo divieto, 2.10.37 dinanzi a noi pareva sì verace 2.10.38 quivi intagliato in un atto soave, 2.10.39 che non sembiava imagine che tace. 2.10.40 Giurato si saria ch' el dicesse "Ave!"; 2.10.41 perché iv' era imaginata quella 2.10.42 ch' ad aprir l' alto amor volse la chiave; 2.10.43 e avea in atto impressa esta favella 2.10.44 "Ecce ancilla Dëi", propriamente 2.10.45 come figura in cera si suggella. 2.10.46 «Non tener pur ad un loco la mente», 2.10.47 disse 'l dolce maestro, che m' avea 2.10.48 da quella parte onde 'l cuore ha la gente. 2.10.49 Per ch' i' mi mossi col viso, e vedea 2.10.50 di retro da Maria, da quella costa 2.10.51 onde m' era colui che mi movea, 2.10.52 un' altra storia ne la roccia imposta; 2.10.53 per ch' io varcai Virgilio, e fe'mi presso, 2.10.54 acciò che fosse a li occhi miei disposta. 2.10.55 Era intagliato lì nel marmo stesso 2.10.56 lo carro e ' buoi, traendo l' arca santa, 2.10.57 per che si teme officio non commesso. 2.10.58 Dinanzi parea gente; e tutta quanta, 2.10.59 partita in sette cori, a' due mie' sensi 2.10.60 faceva dir l' un "No", l' altro "Sì, canta". 2.10.61 Similemente al fummo de li 'ncensi 2.10.62 che v' era imaginato, li occhi e 'l naso 2.10.63 e al sì e al no discordi fensi. 2.10.64 Lì precedeva al benedetto vaso, 2.10.65 trescando alzato, l' umile salmista, 2.10.66 e più e men che re era in quel caso. 2.10.67 Di contra, effigïata ad una vista 2.10.68 d' un gran palazzo, Micòl ammirava 2.10.69 sì come donna dispettosa e trista. 2.10.70 I' mossi i piè del loco dov' io stava, 2.10.71 per avvisar da presso un' altra istoria, 2.10.72 che di dietro a Micòl mi biancheggiava. 2.10.73 Quiv' era storïata l' alta gloria 2.10.74 del roman principato, il cui valore 2.10.75 mosse Gregorio a la sua gran vittoria; 2.10.76 i' dico di Traiano imperadore; 2.10.77 e una vedovella li era al freno, 2.10.78 di lagrime atteggiata e di dolore. 2.10.79 Intorno a lui parea calcato e pieno 2.10.80 di cavalieri, e l' aguglie ne l' oro 2.10.81 sovr' essi in vista al vento si movieno. 2.10.82 La miserella intra tutti costoro 2.10.83 pareva dir: «Segnor, fammi vendetta 2.10.84 di mio figliuol ch' è morto, ond' io m' accoro»; 2.10.85 ed elli a lei rispondere: «Or aspetta 2.10.86 tanto ch' i' torni»; e quella: «Segnor mio», 2.10.87 come persona in cui dolor s' affretta, 2.10.88 «se tu non torni?»; ed ei: «Chi fia dov' io, 2.10.89 la ti farà»; ed ella: «L' altrui bene 2.10.90 a te che fia, se 'l tuo metti in oblio?»; 2.10.91 ond' elli: «Or ti conforta; ch' ei convene 2.10.92 ch' i' solva il mio dovere anzi ch' i' mova: 2.10.93 giustizia vuole e pietà mi ritene». 2.10.94 Colui che mai non vide cosa nova 2.10.95 produsse esto visibile parlare, 2.10.96 novello a noi perché qui non si trova. 2.10.97 Mentr' io mi dilettava di guardare 2.10.98 l' imagini di tante umilitadi, 2.10.99 e per lo fabbro loro a veder care, 2.10.100 «Ecco di qua, ma fanno i passi radi», 2.10.101 mormorava il poeta, «molte genti: 2.10.102 questi ne 'nvïeranno a li alti gradi». 2.10.103 Li occhi miei, ch' a mirare eran contenti 2.10.104 per veder novitadi ond' e' son vaghi, 2.10.105 volgendosi ver' lui non furon lenti. 2.10.106 Non vo' però, lettor, che tu ti smaghi 2.10.107 di buon proponimento per udire 2.10.108 come Dio vuol che 'l debito si paghi. 2.10.109 Non attender la forma del martìre: 2.10.110 pensa la succession; pensa ch' al peggio 2.10.111 oltre la gran sentenza non può ire. 2.10.112 Io cominciai: «Maestro, quel ch' io veggio 2.10.113 muovere a noi, non mi sembian persone, 2.10.114 e non so che, sì nel veder vaneggio». 2.10.115 Ed elli a me: «La grave condizione 2.10.116 di lor tormento a terra li rannicchia, 2.10.117 sì che ' miei occhi pria n' ebber tencione. 2.10.118 Ma guarda fiso là, e disviticchia 2.10.119 col viso quel che vien sotto a quei sassi: 2.10.120 già scorger puoi come ciascun si picchia». 2.10.121 O superbi cristian, miseri lassi, 2.10.122 che, de la vista de la mente infermi, 2.10.123 fidanza avete ne' retrosi passi, 2.10.124 non v' accorgete voi che noi siam vermi 2.10.125 nati a formar l' angelica farfalla, 2.10.126 che vola a la giustizia sanza schermi? 2.10.127 Di che l' animo vostro in alto galla, 2.10.128 poi siete quasi antomata in difetto, 2.10.129 sì come vermo in cui formazion falla? 2.10.130 Come per sostentar solaio o tetto, 2.10.131 per mensola talvolta una figura 2.10.132 si vede giugner le ginocchia al petto, 2.10.133 la qual fa del non ver vera rancura 2.10.134 nascere 'n chi la vede; così fatti 2.10.135 vid' io color, quando puosi ben cura. 2.10.136 Vero è che più e meno eran contratti 2.10.137 secondo ch' avien più e meno a dosso; 2.10.138 e qual più pazïenza avea ne li atti, 2.10.139 piangendo parea dicer: "Più non posso".
CANTO XI
2.11.1 «O Padre nostro, che ne' cieli stai, 2.11.2 non circunscritto, ma per più amore 2.11.3 ch' ai primi effetti di là sù tu hai, 2.11.4 laudato sia 'l tuo nome e 'l tuo valore 2.11.5 da ogne creatura, com' è degno 2.11.6 di render grazie al tuo dolce vapore. 2.11.7 Vegna ver' noi la pace del tuo regno, 2.11.8 ché noi ad essa non potem da noi, 2.11.9 s' ella non vien, con tutto nostro ingegno. 2.11.10 Come del suo voler li angeli tuoi 2.11.11 fan sacrificio a te, cantando osanna, 2.11.12 così facciano li uomini de' suoi. 2.11.13 Dà oggi a noi la cotidiana manna, 2.11.14 sanza la qual per questo aspro diserto 2.11.15 a retro va chi più di gir s' affanna. 2.11.16 E come noi lo mal ch' avem sofferto 2.11.17 perdoniamo a ciascuno, e tu perdona 2.11.18 benigno, e non guardar lo nostro merto. 2.11.19 Nostra virtù che di legger s' adona, 2.11.20 non spermentar con l' antico avversaro, 2.11.21 ma libera da lui che sì la sprona. 2.11.22 Quest' ultima preghiera, segnor caro, 2.11.23 già non si fa per noi, ché non bisogna, 2.11.24 ma per color che dietro a noi restaro». 2.11.25 Così a sé e noi buona ramogna 2.11.26 quell' ombre orando, andavan sotto 'l pondo, 2.11.27 simile a quel che talvolta si sogna, 2.11.28 disparmente angosciate tutte a tondo 2.11.29 e lasse su per la prima cornice, 2.11.30 purgando la caligine del mondo. 2.11.31 Se di là sempre ben per noi si dice, 2.11.32 di qua che dire e far per lor si puote 2.11.33 da quei c' hanno al voler buona radice? 2.11.34 Ben si de' loro atar lavar le note 2.11.35 che portar quinci, sì che, mondi e lievi, 2.11.36 possano uscire a le stellate ruote. 2.11.37 «Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi 2.11.38 tosto, sì che possiate muover l' ala, 2.11.39 che secondo il disio vostro vi lievi, 2.11.40 mostrate da qual mano inver' la scala 2.11.41 si va più corto; e se c' è più d' un varco, 2.11.42 quel ne 'nsegnate che men erto cala; 2.11.43 ché questi che vien meco, per lo 'ncarco 2.11.44 de la carne d' Adamo onde si veste, 2.11.45 al montar sù, contra sua voglia, è parco». 2.11.46 Le lor parole, che rendero a queste 2.11.47 che dette avea colui cu' io seguiva, 2.11.48 non fur da cui venisser manifeste; 2.11.49 ma fu detto: «A man destra per la riva 2.11.50 con noi venite, e troverete il passo 2.11.51 possibile a salir persona viva. 2.11.52 E s' io non fossi impedito dal sasso 2.11.53 che la cervice mia superba doma, 2.11.54 onde portar convienmi il viso basso, 2.11.55 cotesti, ch' ancor vive e non si noma, 2.11.56 guardere' io, per veder s' i' 'l conosco, 2.11.57 e per farlo pietoso a questa soma. 2.11.58 Io fui latino e nato d' un gran Tosco: 2.11.59 Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre; 2.11.60 non so se 'l nome suo già mai fu vosco. 2.11.61 L' antico sangue e l' opere leggiadre 2.11.62 d' i miei maggior mi fer sì arrogante, 2.11.63 che, non pensando a la comune madre, 2.11.64 ogn' uomo ebbi in despetto tanto avante, 2.11.65 ch' io ne mori', come i Sanesi sanno, 2.11.66 e sallo in Campagnatico ogne fante. 2.11.67 Io sono Omberto; e non pur a me danno 2.11.68 superbia fa, ché tutti miei consorti 2.11.69 ha ella tratti seco nel malanno. 2.11.70 E qui convien ch' io questo peso porti 2.11.71 per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia, 2.11.72 poi ch' io nol fe' tra ' vivi, qui tra ' morti». 2.11.73 Ascoltando chinai in giù la faccia; 2.11.74 e un di lor, non questi che parlava, 2.11.75 si torse sotto il peso che li 'mpaccia, 2.11.76 e videmi e conobbemi e chiamava, 2.11.77 tenendo li occhi con fatica fisi 2.11.78 a me che tutto chin con loro andava. 2.11.79 «Oh!», diss' io lui, «non se' tu Oderisi, 2.11.80 l' onor d' Agobbio e l' onor di quell' arte 2.11.81 ch' alluminar chiamata è in Parisi?». 2.11.82 «Frate», diss' elli, «più ridon le carte 2.11.83 che pennelleggia Franco Bolognese; 2.11.84 l' onore è tutto or suo, e mio in parte. 2.11.85 Ben non sare' io stato sì cortese 2.11.86 mentre ch' io vissi, per lo gran disio 2.11.87 de l' eccellenza ove mio core intese. 2.11.88 Di tal superbia qui si paga il fio; 2.11.89 e ancor non sarei qui, se non fosse 2.11.90 che, possendo peccar, mi volsi a Dio. 2.11.91 Oh vana gloria de l' umane posse! 2.11.92 com' poco verde in su la cima dura, 2.11.93 se non è giunta da l' etati grosse! 2.11.94 Credette Cimabue ne la pittura 2.11.95 tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, 2.11.96 sì che la fama di colui è scura. 2.11.97 Così ha tolto l' uno a l' altro Guido 2.11.98 la gloria de la lingua; e forse è nato 2.11.99 chi l' uno e l' altro caccerà del nido. 2.11.100 Non è il mondan romore altro ch' un fiato 2.11.101 di vento, ch' or vien quinci e or vien quindi, 2.11.102 e muta nome perché muta lato. 2.11.103 Che voce avrai tu più, se vecchia scindi 2.11.104 da te la carne, che se fossi morto 2.11.105 anzi che tu lasciassi il "pappo"e 'l "dindi", 2.11.106 pria che passin mill' anni? ch' è più corto 2.11.107 spazio a l' etterno, ch' un muover di ciglia 2.11.108 al cerchio che più tardi in cielo è torto. 2.11.109 Colui che del cammin sì poco piglia 2.11.110 dinanzi a me, Toscana sonò tutta; 2.11.111 e ora a pena in Siena sen pispiglia, 2.11.112 ond' era sire quando fu distrutta 2.11.113 la rabbia fiorentina, che superba 2.11.114 fu a quel tempo sì com' ora è putta. 2.11.115 La vostra nominanza è color d' erba, 2.11.116 che viene e va, e quei la discolora 2.11.117 per cui ella esce de la terra acerba». 2.11.118 E io a lui: «Tuo vero dir m' incora 2.11.119 bona umiltà, e gran tumor m' appiani; 2.11.120 ma chi è quei di cui tu parlavi ora?». 2.11.121 «Quelli è», rispuose, «Provenzan Salvani; 2.11.122 ed è qui perché fu presuntüoso 2.11.123 a recar Siena tutta a le sue mani. 2.11.124 Ito è così e va, sanza riposo, 2.11.125 poi che morì; cotal moneta rende 2.11.126 a sodisfar chi è di là troppo oso». 2.11.127 E io: «Se quello spirito ch' attende, 2.11.128 pria che si penta, l' orlo de la vita, 2.11.129 qua giù dimora e qua sù non ascende, 2.11.130 se buona orazïon lui non aita, 2.11.131 prima che passi tempo quanto visse, 2.11.132 come fu la venuta lui largita?». 2.11.133 «Quando vivea più glorïoso», disse, 2.11.134 «liberamente nel Campo di Siena, 2.11.135 ogne vergogna diposta, s' affisse; 2.11.136 e lì, per trar l' amico suo di pena, 2.11.137 ch' e' sostenea ne la prigion di Carlo, 2.11.138 si condusse a tremar per ogne vena. 2.11.139 Più non dirò, e scuro so che parlo; 2.11.140 ma poco tempo andrà, che ' tuoi vicini 2.11.141 faranno sì che tu potrai chiosarlo. 2.11.142 Quest' opera li tolse quei confini».
CANTO XII
2.12.1 Di pari, come buoi che vanno a giogo, 2.12.2 m' andava io con quell' anima carca, 2.12.3 fin che 'l sofferse il dolce pedagogo. 2.12.4 Ma quando disse: «Lascia lui e varca; 2.12.5 ché qui è buono con l' ali e coi remi, 2.12.6 quantunque può, ciascun pinger sua barca»; 2.12.7 dritto sì come andar vuolsi rife'mi 2.12.8 con la persona, avvegna che i pensieri 2.12.9 mi rimanessero e chinati e scemi. 2.12.10 Io m' era mosso, e seguia volontieri 2.12.11 del mio maestro i passi, e amendue 2.12.12 già mostravam com' eravam leggeri; 2.12.13 ed el mi disse: «Volgi li occhi in giùe: 2.12.14 buon ti sarà, per tranquillar la via, 2.12.15 veder lo letto de le piante tue». 2.12.16 Come, perché di lor memoria sia, 2.12.17 sovra i sepolti le tombe terragne 2.12.18 portan segnato quel ch' elli eran pria, 2.12.19 onde lì molte volte si ripiagne 2.12.20 per la puntura de la rimembranza, 2.12.21 che solo a' pïi dà de le calcagne; 2.12.22 sì vid' io lì, ma di miglior sembianza 2.12.23 secondo l' artificio, figurato 2.12.24 quanto per via di fuor del monte avanza. 2.12.25 Vedea colui che fu nobil creato 2.12.26 più ch' altra creatura, giù dal cielo 2.12.27 folgoreggiando scender, da l' un lato. 2.12.28 Vedëa Brïareo fitto dal telo 2.12.29 celestïal giacer, da l' altra parte, 2.12.30 grave a la terra per lo mortal gelo. 2.12.31 Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte, 2.12.32 armati ancora, intorno al padre loro, 2.12.33 mirar le membra d' i Giganti sparte. 2.12.34 Vedea Nembròt a piè del gran lavoro 2.12.35 quasi smarrito, e riguardar le genti 2.12.36 che 'n Sennaàr con lui superbi fuoro. 2.12.37 O Nïobè, con che occhi dolenti 2.12.38 vedea io te segnata in su la strada, 2.12.39 tra sette e sette tuoi figliuoli spenti! 2.12.40 O Saùl, come in su la propria spada 2.12.41 quivi parevi morto in Gelboè, 2.12.42 che poi non sentì pioggia né rugiada! 2.12.43 O folle Aragne, sì vedea io te 2.12.44 già mezza ragna, trista in su li stracci 2.12.45 de l' opera che mal per te si fé. 2.12.46 O Roboàm, già non par che minacci 2.12.47 quivi 'l tuo segno; ma pien di spavento 2.12.48 nel porta un carro, sanza ch' altri il cacci. 2.12.49 Mostrava ancor lo duro pavimento 2.12.50 come Almeon a sua madre fé caro 2.12.51 parer lo sventurato addornamento. 2.12.52 Mostrava come i figli si gittaro 2.12.53 sovra Sennacherìb dentro dal tempio, 2.12.54 e come, morto lui, quivi il lasciaro. 2.12.55 Mostrava la ruina e 'l crudo scempio 2.12.56 che fé Tamiri, quando disse a Ciro: 2.12.57 «Sangue sitisti, e io di sangue t' empio». 2.12.58 Mostrava come in rotta si fuggiro 2.12.59 li Assiri, poi che fu morto Oloferne, 2.12.60 e anche le reliquie del martiro. 2.12.61 Vedeva Troia in cenere e in caverne; 2.12.62 o Ilïón, come te basso e vile 2.12.63 mostrava il segno che lì si discerne! 2.12.64 Qual di pennel fu maestro o di stile 2.12.65 che ritraesse l' ombre e ' tratti ch' ivi 2.12.66 mirar farieno uno ingegno sottile? 2.12.67 Morti li morti e i vivi parean vivi: 2.12.68 non vide mei di me chi vide il vero, 2.12.69 quant' io calcai, fin che chinato givi. 2.12.70 Or superbite, e via col viso altero, 2.12.71 figliuoli d' Eva, e non chinate il volto 2.12.72 sì che veggiate il vostro mal sentero! 2.12.73 Più era già per noi del monte vòlto 2.12.74 e del cammin del sole assai più speso 2.12.75 che non stimava l' animo non sciolto, 2.12.76 quando colui che sempre innanzi atteso 2.12.77 andava, cominciò: «Drizza la testa; 2.12.78 non è più tempo di gir sì sospeso. 2.12.79 Vedi colà un angel che s' appresta 2.12.80 per venir verso noi; vedi che torna 2.12.81 dal servigio del dì l' ancella sesta. 2.12.82 Di reverenza il viso e li atti addorna, 2.12.83 sì che i diletti lo 'nvïarci in suso; 2.12.84 pensa che questo dì mai non raggiorna!». 2.12.85 Io era ben del suo ammonir uso 2.12.86 pur di non perder tempo, sì che 'n quella 2.12.87 materia non potea parlarmi chiuso. 2.12.88 A noi venìa la creatura bella, 2.12.89 biancovestito e ne la faccia quale 2.12.90 par tremolando mattutina stella. 2.12.91 Le braccia aperse, e indi aperse l' ale; 2.12.92 disse: «Venite: qui son presso i gradi, 2.12.93 e agevolemente omai si sale. 2.12.94 A questo invito vegnon molto radi: 2.12.95 o gente umana, per volar sù nata, 2.12.96 perché a poco vento così cadi?». 2.12.97 Menocci ove la roccia era tagliata; 2.12.98 quivi mi batté l' ali per la fronte; 2.12.99 poi mi promise sicura l' andata. 2.12.100 Come a man destra, per salire al monte 2.12.101 dove siede la chiesa che soggioga 2.12.102 la ben guidata sopra Rubaconte, 2.12.103 si rompe del montar l' ardita foga 2.12.104 per le scalee che si fero ad etade 2.12.105 ch' era sicuro il quaderno e la doga; 2.12.106 così s' allenta la ripa che cade 2.12.107 quivi ben ratta da l' altro girone; 2.12.108 ma quinci e quindi l' alta pietra rade. 2.12.109 Noi volgendo ivi le nostre persone, 2.12.110 "Beati pauperes spiritu!"voci 2.12.111 cantaron sì, che nol diria sermone. 2.12.112 Ahi quanto son diverse quelle foci 2.12.113 da l' infernali! ché quivi per canti 2.12.114 s' entra, e là giù per lamenti feroci. 2.12.115 Già montavam su per li scaglion santi, 2.12.116 ed esser mi parea troppo più lieve 2.12.117 che per lo pian non mi parea davanti. 2.12.118 Ond' io: «Maestro, dì, qual cosa greve 2.12.119 levata s' è da me, che nulla quasi 2.12.120 per me fatica, andando, si riceve?». 2.12.121 Rispuose: «Quando i P che son rimasi 2.12.122 ancor nel volto tuo presso che stinti, 2.12.123 saranno, com' è l' un, del tutto rasi, 2.12.124 fier li tuoi piè dal buon voler sì vinti, 2.12.125 che non pur non fatica sentiranno, 2.12.126 ma fia diletto loro esser sù pinti». 2.12.127 Allor fec' io come color che vanno 2.12.128 con cosa in capo non da lor saputa, 2.12.129 se non che ' cenni altrui sospecciar fanno; 2.12.130 per che la mano ad accertar s' aiuta, 2.12.131 e cerca e truova e quello officio adempie 2.12.132 che non si può fornir per la veduta; 2.12.133 e con le dita de la destra scempie 2.12.134 trovai pur sei le lettere che 'ncise 2.12.135 quel da le chiavi a me sovra le tempie: 2.12.136 a che guardando, il mio duca sorrise.
CANTO XIII
2.13.1 Noi eravamo al sommo de la scala, 2.13.2 dove secondamente si risega 2.13.3 lo monte che salendo altrui dismala. 2.13.4 Ivi così una cornice lega 2.13.5 dintorno il poggio, come la primaia; 2.13.6 se non che l' arco suo più tosto piega. 2.13.7 Ombra non lì è né segno che si paia: 2.13.8 parsi la ripa e parsi la via schietta 2.13.9 col livido color de la petraia. 2.13.10 «Se qui per dimandar gente s' aspetta», 2.13.11 ragionava il poeta, «io temo forse 2.13.12 che troppo avrà d' indugio nostra eletta». 2.13.13 Poi fisamente al sole li occhi porse; 2.13.14 fece del destro lato a muover centro, 2.13.15 e la sinistra parte di sé torse. 2.13.16 «O dolce lume a cui fidanza i' entro 2.13.17 per lo novo cammin, tu ne conduci», 2.13.18 dicea, «come condur si vuol quinc' entro. 2.13.19 Tu scaldi il mondo, tu sovr' esso luci; 2.13.20 s' altra ragione in contrario non ponta, 2.13.21 esser dien sempre li tuoi raggi duci». 2.13.22 Quanto di qua per un migliaio si conta, 2.13.23 tanto di là eravam noi già iti, 2.13.24 con poco tempo, per la voglia pronta; 2.13.25 e verso noi volar furon sentiti, 2.13.26 non però visti, spiriti parlando 2.13.27 a la mensa d' amor cortesi inviti. 2.13.28 La prima voce che passò volando 2.13.29 "Vinum non habent"altamente disse, 2.13.30 e dietro a noi l' andò rëiterando. 2.13.31 E prima che del tutto non si udisse 2.13.32 per allungarsi, un' altra "I' sono Oreste" 2.13.33 passò gridando, e anco non s' affisse. 2.13.34 «Oh!», diss' io, «padre, che voci son queste?». 2.13.35 E com' io domandai, ecco la terza 2.13.36 dicendo: "Amate da cui male aveste". 2.13.37 E 'l buon maestro: «Questo cinghio sferza 2.13.38 la colpa de la invidia, e però sono 2.13.39 tratte d' amor le corde de la ferza. 2.13.40 Lo fren vuol esser del contrario suono; 2.13.41 credo che l' udirai, per mio avviso, 2.13.42 prima che giunghi al passo del perdono. 2.13.43 Ma ficca li occhi per l' aere ben fiso, 2.13.44 e vedrai gente innanzi a noi sedersi, 2.13.45 e ciascun è lungo la grotta assiso». 2.13.46 Allora più che prima li occhi apersi; 2.13.47 guarda'mi innanzi, e vidi ombre con manti 2.13.48 al color de la pietra non diversi. 2.13.49 E poi che fummo un poco più avanti, 2.13.50 udia gridar: "Maria, òra per noi": 2.13.51 gridar "Michele"e "Pietro"e "Tutti santi". 2.13.52 Non credo che per terra vada ancoi 2.13.53 omo sì duro, che non fosse punto 2.13.54 per compassion di quel ch' i' vidi poi; 2.13.55 ché, quando fui sì presso di lor giunto, 2.13.56 che li atti loro a me venivan certi, 2.13.57 per li occhi fui di grave dolor munto. 2.13.58 Di vil ciliccio mi parean coperti, 2.13.59 e l' un sofferia l' altro con la spalla, 2.13.60 e tutti da la ripa eran sofferti. 2.13.61 Così li ciechi a cui la roba falla, 2.13.62 stanno a' perdoni a chieder lor bisogna, 2.13.63 e l' uno il capo sopra l' altro avvalla, 2.13.64 perché 'n altrui pietà tosto si pogna, 2.13.65 non pur per lo sonar de le parole, 2.13.66 ma per la vista che non meno agogna. 2.13.67 E come a li orbi non approda il sole, 2.13.68 così a l' ombre quivi, ond' io parlo ora, 2.13.69 luce del ciel di sé largir non vole; 2.13.70 ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra 2.13.71 e cusce sì, come a sparvier selvaggio 2.13.72 si fa però che queto non dimora. 2.13.73 A me pareva, andando, fare oltraggio, 2.13.74 veggendo altrui, non essendo veduto: 2.13.75 per ch' io mi volsi al mio consiglio saggio. 2.13.76 Ben sapev' ei che volea dir lo muto; 2.13.77 e però non attese mia dimanda, 2.13.78 ma disse: «Parla, e sie breve e arguto». 2.13.79 Virgilio mi venìa da quella banda 2.13.80 de la cornice onde cader si puote, 2.13.81 perché da nulla sponda s' inghirlanda; 2.13.82 da l' altra parte m' eran le divote 2.13.83 ombre, che per l' orribile costura 2.13.84 premevan sì, che bagnavan le gote. 2.13.85 Volsimi a loro e: «O gente sicura», 2.13.86 incominciai, «di veder l' alto lume 2.13.87 che 'l disio vostro solo ha in sua cura, 2.13.88 se tosto grazia resolva le schiume 2.13.89 di vostra coscïenza sì che chiaro 2.13.90 per essa scenda de la mente il fiume, 2.13.91 ditemi, ché mi fia grazioso e caro, 2.13.92 s' anima è qui tra voi che sia latina; 2.13.93 e forse lei sarà buon s' i' l' apparo». 2.13.94 «O frate mio, ciascuna è cittadina 2.13.95 d' una vera città; ma tu vuo' dire 2.13.96 che vivesse in Italia peregrina». 2.13.97 Questo mi parve per risposta udire 2.13.98 più innanzi alquanto che là dov' io stava, 2.13.99 ond' io mi feci ancor più là sentire. 2.13.100 Tra l' altre vidi un' ombra ch' aspettava 2.13.101 in vista; e se volesse alcun dir "Come?", 2.13.102 lo mento a guisa d' orbo in sù levava. 2.13.103 «Spirto», diss' io, «che per salir ti dome, 2.13.104 se tu se' quelli che mi rispondesti, 2.13.105 fammiti conto o per luogo o per nome». 2.13.106 «Io fui sanese», rispuose, «e con questi 2.13.107 altri rimendo qui la vita ria, 2.13.108 lagrimando a colui che sé ne presti. 2.13.109 Savia non fui, avvegna che Sapìa 2.13.110 fossi chiamata, e fui de li altrui danni 2.13.111 più lieta assai che di ventura mia. 2.13.112 E perché tu non creda ch' io t' inganni, 2.13.113 odi s' i' fui, com' io ti dico, folle, 2.13.114 già discendendo l' arco d' i miei anni. 2.13.115 Eran li cittadin miei presso a Colle 2.13.116 in campo giunti co' loro avversari, 2.13.117 e io pregava Iddio di quel ch' e' volle. 2.13.118 Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari 2.13.119 passi di fuga; e veggendo la caccia, 2.13.120 letizia presi a tutte altre dispari, 2.13.121 tanto ch' io volsi in sù l' ardita faccia, 2.13.122 gridando a Dio: "Omai più non ti temo!", 2.13.123 come fé 'l merlo per poca bonaccia. 2.13.124 Pace volli con Dio in su lo stremo 2.13.125 de la mia vita; e ancor non sarebbe 2.13.126 lo mio dover per penitenza scemo, 2.13.127 se ciò non fosse, ch' a memoria m' ebbe 2.13.128 Pier Pettinaio in sue sante orazioni, 2.13.129 a cui di me per caritate increbbe. 2.13.130 Ma tu chi se', che nostre condizioni 2.13.131 vai dimandando, e porti li occhi sciolti, 2.13.132 sì com' io credo, e spirando ragioni?». 2.13.133 «Li occhi», diss' io, «mi fieno ancor qui tolti, 2.13.134 ma picciol tempo, ché poca è l' offesa 2.13.135 fatta per esser con invidia vòlti. 2.13.136 Troppa è più la paura ond' è sospesa 2.13.137 l' anima mia del tormento di sotto, 2.13.138 che già lo 'ncarco di là giù mi pesa». 2.13.139 Ed ella a me: «Chi t' ha dunque condotto 2.13.140 qua sù tra noi, se giù ritornar credi?». 2.13.141 E io: «Costui ch' è meco e non fa motto. 2.13.142 E vivo sono; e però mi richiedi, 2.13.143 spirito eletto, se tu vuo' ch' i' mova 2.13.144 di là per te ancor li mortai piedi». 2.13.145 «Oh, questa è a udir sì cosa nuova», 2.13.146 rispuose, «che gran segno è che Dio t' ami; 2.13.147 però col priego tuo talor mi giova. 2.13.148 E cheggioti, per quel che tu più brami, 2.13.149 se mai calchi la terra di Toscana, 2.13.150 che a' miei propinqui tu ben mi rinfami. 2.13.151 Tu li vedrai tra quella gente vana 2.13.152 che spera in Talamone, e perderagli 2.13.153 più di speranza ch' a trovar la Diana; 2.13.154 ma più vi perderanno li ammiragli».
CANTO XIV
2.14.1 «Chi è costui che 'l nostro monte cerchia 2.14.2 prima che morte li abbia dato il volo, 2.14.3 e apre li occhi a sua voglia e coverchia?». 2.14.4 «Non so chi sia, ma so ch' e' non è solo; 2.14.5 domandal tu che più li t' avvicini, 2.14.6 e dolcemente, sì che parli, acco'lo». 2.14.7 Così due spirti, l' uno a l' altro chini, 2.14.8 ragionavan di me ivi a man dritta; 2.14.9 poi fer li visi, per dirmi, supini; 2.14.10 e disse l' uno: «O anima che fitta 2.14.11 nel corpo ancora inver' lo ciel ten vai, 2.14.12 per carità ne consola e ne ditta 2.14.13 onde vieni e chi se'; ché tu ne fai 2.14.14 tanto maravigliar de la tua grazia, 2.14.15 quanto vuol cosa che non fu più mai». 2.14.16 E io: «Per mezza Toscana si spazia 2.14.17 un fiumicel che nasce in Falterona, 2.14.18 e cento miglia di corso nol sazia. 2.14.19 Di sovr' esso rech' io questa persona: 2.14.20 dirvi ch' i' sia, saria parlare indarno, 2.14.21 ché 'l nome mio ancor molto non suona». 2.14.22 «Se ben lo 'ntendimento tuo accarno 2.14.23 con lo 'ntelletto», allora mi rispuose 2.14.24 quei che diceva pria, «tu parli d' Arno». 2.14.25 E l' altro disse lui: «Perché nascose 2.14.26 questi il vocabol di quella riviera, 2.14.27 pur com' om fa de l' orribili cose?». 2.14.28 E l' ombra che di ciò domandata era, 2.14.29 si sdebitò così: «Non so; ma degno 2.14.30 ben è che 'l nome di tal valle pèra; 2.14.31 ché dal principio suo, ov' è sì pregno 2.14.32 l' alpestro monte ond' è tronco Peloro, 2.14.33 che 'n pochi luoghi passa oltra quel segno, 2.14.34 infin là 've si rende per ristoro 2.14.35 di quel che 'l ciel de la marina asciuga, 2.14.36 ond' hanno i fiumi ciò che va con loro, 2.14.37 vertù così per nimica si fuga 2.14.38 da tutti come biscia, o per sventura 2.14.39 del luogo, o per mal uso che li fruga: 2.14.40 ond' hanno sì mutata lor natura 2.14.41 li abitator de la misera valle, 2.14.42 che par che Circe li avesse in pastura. 2.14.43 Tra brutti porci, più degni di galle 2.14.44 che d' altro cibo fatto in uman uso, 2.14.45 dirizza prima il suo povero calle. 2.14.46 Botoli trova poi, venendo giuso, 2.14.47 ringhiosi più che non chiede lor possa, 2.14.48 e da lor disdegnosa torce il muso. 2.14.49 Vassi caggendo; e quant' ella più 'ngrossa, 2.14.50 tanto più trova di can farsi lupi 2.14.51 la maladetta e sventurata fossa. 2.14.52 Discesa poi per più pelaghi cupi, 2.14.53 trova le volpi sì piene di froda, 2.14.54 che non temono ingegno che le occùpi. 2.14.55 Né lascerò di dir perch' altri m' oda; 2.14.56 e buon sarà costui, s' ancor s' ammenta 2.14.57 di ciò che vero spirto mi disnoda. 2.14.58 Io veggio tuo nepote che diventa 2.14.59 cacciator di quei lupi in su la riva 2.14.60 del fiero fiume, e tutti li sgomenta. 2.14.61 Vende la carne loro essendo viva; 2.14.62 poscia li ancide come antica belva; 2.14.63 molti di vita e sé di pregio priva. 2.14.64 Sanguinoso esce de la trista selva; 2.14.65 lasciala tal, che di qui a mille anni 2.14.66 ne lo stato primaio non si rinselva». 2.14.67 Com' a l' annunzio di dogliosi danni 2.14.68 si turba il viso di colui ch' ascolta, 2.14.69 da qual che parte il periglio l' assanni, 2.14.70 così vid' io l' altr' anima, che volta 2.14.71 stava a udir, turbarsi e farsi trista, 2.14.72 poi ch' ebbe la parola a sé raccolta. 2.14.73 Lo dir de l' una e de l' altra la vista 2.14.74 mi fer voglioso di saper lor nomi, 2.14.75 e dimanda ne fei con prieghi mista; 2.14.76 per che lo spirto che di pria parlòmi 2.14.77 ricominciò: «Tu vuo' ch' io mi deduca 2.14.78 nel fare a te ciò che tu far non vuo'mi. 2.14.79 Ma da che Dio in te vuol che traluca 2.14.80 tanto sua grazia, non ti sarò scarso; 2.14.81 però sappi ch' io fui Guido del Duca. 2.14.82 Fu il sangue mio d' invidia sì rïarso, 2.14.83 che se veduto avesse uom farsi lieto, 2.14.84 visto m' avresti di livore sparso. 2.14.85 Di mia semente cotal paglia mieto; 2.14.86 o gente umana, perché poni 'l core 2.14.87 là 'v' è mestier di consorte divieto? 2.14.88 Questi è Rinier; questi è 'l pregio e l' onore 2.14.89 de la casa da Calboli, ove nullo 2.14.90 fatto s' è reda poi del suo valore. 2.14.91 E non pur lo suo sangue è fatto brullo, 2.14.92 tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno, 2.14.93 del ben richesto al vero e al trastullo; 2.14.94 ché dentro a questi termini è ripieno 2.14.95 di venenosi sterpi, sì che tardi 2.14.96 per coltivare omai verrebber meno. 2.14.97 Ov' è 'l buon Lizio e Arrigo Mainardi? 2.14.98 Pier Traversaro e Guido di Carpigna? 2.14.99 Oh Romagnuoli tornati in bastardi! 2.14.100 Quando in Bologna un Fabbro si ralligna? 2.14.101 quando in Faenza un Bernardin di Fosco, 2.14.102 verga gentil di picciola gramigna? 2.14.103 Non ti maravigliar s' io piango, Tosco, 2.14.104 quando rimembro, con Guido da Prata, 2.14.105 Ugolin d' Azzo che vivette nosco, 2.14.106 Federigo Tignoso e sua brigata, 2.14.107 la casa Traversara e li Anastagi 2.14.108 (e l' una gente e l' altra è diretata), 2.14.109 le donne e ' cavalier, li affanni e li agi 2.14.110 che ne 'nvogliava amore e cortesia 2.14.111 là dove i cuor son fatti sì malvagi. 2.14.112 O Bretinoro, ché non fuggi via, 2.14.113 poi che gita se n' è la tua famiglia 2.14.114 e molta gente per non esser ria? 2.14.115 Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia; 2.14.116 e mal fa Castrocaro, e peggio Conio, 2.14.117 che di figliar tai conti più s' impiglia. 2.14.118 Ben faranno i Pagan, da che 'l demonio 2.14.119 lor sen girà; ma non però che puro 2.14.120 già mai rimagna d' essi testimonio. 2.14.121 O Ugolin de' Fantolin, sicuro 2.14.122 è 'l nome tuo, da che più non s' aspetta 2.14.123 chi far lo possa, tralignando, scuro. 2.14.124 Ma va via, Tosco, omai; ch' or mi diletta 2.14.125 troppo di pianger più che di parlare, 2.14.126 sì m' ha nostra ragion la mente stretta». 2.14.127 Noi sapavam che quell' anime care 2.14.128 ci sentivano andar; però, tacendo, 2.14.129 facëan noi del cammin confidare. 2.14.130 Poi fummo fatti soli procedendo, 2.14.131 folgore parve quando l' aere fende, 2.14.132 voce che giunse di contra dicendo: 2.14.133 "Anciderammi qualunque m' apprende"; 2.14.134 e fuggì come tuon che si dilegua, 2.14.135 se sùbito la nuvola scoscende. 2.14.136 Come da lei l' udir nostro ebbe triegua, 2.14.137 ed ecco l' altra con sì gran fracasso, 2.14.138 che somigliò tonar che tosto segua: 2.14.139 «Io sono Aglauro che divenni sasso»; 2.14.140 e allor, per ristrignermi al poeta, 2.14.141 in destro feci, e non innanzi, il passo. 2.14.142 Già era l' aura d' ogne parte queta; 2.14.143 ed el mi disse: «Quel fu 'l duro camo 2.14.144 che dovria l' uom tener dentro a sua meta. 2.14.145 Ma voi prendete l' esca, sì che l' amo 2.14.146 de l' antico avversaro a sé vi tira; 2.14.147 e però poco val freno o richiamo. 2.14.148 Chiamavi 'l cielo e 'ntorno vi si gira, 2.14.149 mostrandovi le sue bellezze etterne, 2.14.150 e l' occhio vostro pur a terra mira; 2.14.151 onde vi batte chi tutto discerne».
CANTO XV
2.15.1 Quanto tra l' ultimar de l' ora terza 2.15.2 e 'l principio del dì par de la spera 2.15.3 che sempre a guisa di fanciullo scherza, 2.15.4 tanto pareva già inver' la sera 2.15.5 essere al sol del suo corso rimaso; 2.15.6 vespero là, e qui mezza notte era. 2.15.7 E i raggi ne ferien per mezzo 'l naso, 2.15.8 perché per noi girato era sì 'l monte, 2.15.9 che già dritti andavamo inver' l' occaso, 2.15.10 quand' io senti' a me gravar la fronte 2.15.11 a lo splendore assai più che di prima, 2.15.12 e stupor m' eran le cose non conte; 2.15.13 ond' io levai le mani inver' la cima 2.15.14 de le mie ciglia, e fecimi 'l solecchio, 2.15.15 che del soverchio visibile lima. 2.15.16 Come quando da l' acqua o da lo specchio 2.15.17 salta lo raggio a l' opposita parte, 2.15.18 salendo su per lo modo parecchio 2.15.19 a quel che scende, e tanto si diparte 2.15.20 dal cader de la pietra in igual tratta, 2.15.21 sì come mostra esperïenza e arte; 2.15.22 così mi parve da luce rifratta 2.15.23 quivi dinanzi a me esser percosso; 2.15.24 per che a fuggir la mia vista fu ratta. 2.15.25 «Che è quel, dolce padre, a che non posso 2.15.26 schermar lo viso tanto che mi vaglia», 2.15.27 diss' io, «e pare inver' noi esser mosso?». 2.15.28 «Non ti maravigliar s' ancor t' abbaglia 2.15.29 la famiglia del cielo», a me rispuose: 2.15.30 «messo è che viene ad invitar ch' om saglia. 2.15.31 Tosto sarà ch' a veder queste cose 2.15.32 non ti fia grave, ma fieti diletto 2.15.33 quanto natura a sentir ti dispuose». 2.15.34 Poi giunti fummo a l' angel benedetto, 2.15.35 con lieta voce disse: «Intrate quinci 2.15.36 ad un scaleo vie men che li altri eretto». 2.15.37 Noi montavam, già partiti di linci, 2.15.38 e "Beati misericordes!"fue 2.15.39 cantato retro, e "Godi tu che vinci!". 2.15.40 Lo mio maestro e io soli amendue 2.15.41 suso andavamo; e io pensai, andando, 2.15.42 prode acquistar ne le parole sue; 2.15.43 e dirizza'mi a lui sì dimandando: 2.15.44 «Che volse dir lo spirto di Romagna, 2.15.45 e "divieto"e "consorte"menzionando?». 2.15.46 Per ch' elli a me: «Di sua maggior magagna 2.15.47 conosce il danno; e però non s' ammiri 2.15.48 se ne riprende perché men si piagna. 2.15.49 Perché s' appuntano i vostri disiri 2.15.50 dove per compagnia parte si scema, 2.15.51 invidia move il mantaco a' sospiri. 2.15.52 Ma se l' amor de la spera supprema 2.15.53 torcesse in suso il disiderio vostro, 2.15.54 non vi sarebbe al petto quella tema; 2.15.55 ché, per quanti si dice più lì "nostro", 2.15.56 tanto possiede più di ben ciascuno, 2.15.57 e più di caritate arde in quel chiostro». 2.15.58 «Io son d' esser contento più digiuno», 2.15.59 diss' io, «che se mi fosse pria taciuto, 2.15.60 e più di dubbio ne la mente aduno. 2.15.61 Com' esser puote ch' un ben, distributo 2.15.62 in più posseditor, faccia più ricchi 2.15.63 di sé che se da pochi è posseduto?». 2.15.64 Ed elli a me: «Però che tu rificchi 2.15.65 la mente pur a le cose terrene, 2.15.66 di vera luce tenebre dispicchi. 2.15.67 Quello infinito e ineffabil bene 2.15.68 che là sù è, così corre ad amore 2.15.69 com' a lucido corpo raggio vene. 2.15.70 Tanto si dà quanto trova d' ardore; 2.15.71 sì che, quantunque carità si stende, 2.15.72 cresce sovr' essa l' etterno valore. 2.15.73 E quanta gente più là sù s' intende, 2.15.74 più v' è da bene amare, e più vi s' ama, 2.15.75 e come specchio l' uno a l' altro rende. 2.15.76 E se la mia ragion non ti disfama, 2.15.77 vedrai Beatrice, ed ella pienamente 2.15.78 ti torrà questa e ciascun' altra brama. 2.15.79 Procaccia pur che tosto sieno spente, 2.15.80 come son già le due, le cinque piaghe, 2.15.81 che si richiudon per esser dolente». 2.15.82 Com' io voleva dicer "Tu m' appaghe", 2.15.83 vidimi giunto in su l' altro girone, 2.15.84 sì che tacer mi fer le luci vaghe. 2.15.85 Ivi mi parve in una visïone 2.15.86 estatica di sùbito esser tratto, 2.15.87 e vedere in un tempio più persone; 2.15.88 e una donna, in su l' entrar, con atto 2.15.89 dolce di madre dicer: «Figliuol mio, 2.15.90 perché hai tu così verso noi fatto? 2.15.91 Ecco, dolenti, lo tuo padre e io 2.15.92 ti cercavamo». E come qui si tacque, 2.15.93 ciò che pareva prima, dispario. 2.15.94 Indi m' apparve un' altra con quell' acque 2.15.95 giù per le gote che 'l dolor distilla 2.15.96 quando di gran dispetto in altrui nacque, 2.15.97 e dir: «Se tu se' sire de la villa 2.15.98 del cui nome ne' dèi fu tanta lite, 2.15.99 e onde ogne scïenza disfavilla, 2.15.100 vendica te di quelle braccia ardite 2.15.101 ch' abbracciar nostra figlia, o Pisistràto». 2.15.102 E 'l segnor mi parea, benigno e mite, 2.15.103 risponder lei con viso temperato: 2.15.104 «Che farem noi a chi mal ne disira, 2.15.105 se quei che ci ama è per noi condannato?». 2.15.106 Poi vidi genti accese in foco d' ira 2.15.107 con pietre un giovinetto ancider, forte 2.15.108 gridando a sé pur: «Martira, martira!». 2.15.109 E lui vedea chinarsi, per la morte 2.15.110 che l' aggravava già, inver' la terra, 2.15.111 ma de li occhi facea sempre al ciel porte, 2.15.112 orando a l' alto Sire, in tanta guerra, 2.15.113 che perdonasse a' suoi persecutori, 2.15.114 con quello aspetto che pietà diserra. 2.15.115 Quando l' anima mia tornò di fori 2.15.116 a le cose che son fuor di lei vere, 2.15.117 io riconobbi i miei non falsi errori. 2.15.118 Lo duca mio, che mi potea vedere 2.15.119 far sì com' om che dal sonno si slega, 2.15.120 disse: «Che hai che non ti puoi tenere, 2.15.121 ma se' venuto più che mezza lega 2.15.122 velando li occhi e con le gambe avvolte, 2.15.123 a guisa di cui vino o sonno piega?». 2.15.124 «O dolce padre mio, se tu m' ascolte, 2.15.125 io ti dirò», diss' io, «ciò che m' apparve 2.15.126 quando le gambe mi furon sì tolte». 2.15.127 Ed ei: «Se tu avessi cento larve 2.15.128 sovra la faccia, non mi sarian chiuse 2.15.129 le tue cogitazion, quantunque parve. 2.15.130 Ciò che vedesti fu perché non scuse 2.15.131 d' aprir lo core a l' acque de la pace 2.15.132 che da l' etterno fonte son diffuse. 2.15.133 Non dimandai "Che hai?"per quel che face 2.15.134 chi guarda pur con l' occhio che non vede, 2.15.135 quando disanimato il corpo giace; 2.15.136 ma dimandai per darti forza al piede: 2.15.137 così frugar conviensi i pigri, lenti 2.15.138 ad usar lor vigilia quando riede». 2.15.139 Noi andavam per lo vespero, attenti 2.15.140 oltre quanto potean li occhi allungarsi 2.15.141 contra i raggi serotini e lucenti. 2.15.142 Ed ecco a poco a poco un fummo farsi 2.15.143 verso di noi come la notte oscuro; 2.15.144 né da quello era loco da cansarsi. 2.15.145 Questo ne tolse li occhi e l' aere puro.
CANTO XVI
2.16.1 Buio d' inferno e di notte privata 2.16.2 d' ogne pianeto, sotto pover cielo, 2.16.3 quant' esser può di nuvol tenebrata, 2.16.4 non fece al viso mio sì grosso velo 2.16.5 come quel fummo ch' ivi ci coperse, 2.16.6 né a sentir di così aspro pelo, 2.16.7 che l' occhio stare aperto non sofferse; 2.16.8 onde la scorta mia saputa e fida 2.16.9 mi s' accostò e l' omero m' offerse. 2.16.10 Sì come cieco va dietro a sua guida 2.16.11 per non smarrirsi e per non dar di cozzo 2.16.12 in cosa che 'l molesti, o forse ancida, 2.16.13 m' andava io per l' aere amaro e sozzo, 2.16.14 ascoltando il mio duca che diceva 2.16.15 pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo». 2.16.16 Io sentia voci, e ciascuna pareva 2.16.17 pregar per pace e per misericordia 2.16.18 l' Agnel di Dio che le peccata leva. 2.16.19 Pur "Agnus Dei"eran le loro essordia; 2.16.20 una parola in tutte era e un modo, 2.16.21 sì che parea tra esse ogne concordia. 2.16.22 «Quei sono spirti, maestro, ch' i' odo?», 2.16.23 diss' io. Ed elli a me: «Tu vero apprendi, 2.16.24 e d' iracundia van solvendo il nodo». 2.16.25 «Or tu chi se' che 'l nostro fummo fendi, 2.16.26 e di noi parli pur come se tue 2.16.27 partissi ancor lo tempo per calendi?». 2.16.28 Così per una voce detto fue; 2.16.29 onde 'l maestro mio disse: «Rispondi, 2.16.30 e domanda se quinci si va sùe». 2.16.31 E io: «O creatura che ti mondi 2.16.32 per tornar bella a colui che ti fece, 2.16.33 maraviglia udirai, se mi secondi». 2.16.34 «Io ti seguiterò quanto mi lece», 2.16.35 rispuose; «e se veder fummo non lascia, 2.16.36 l' udir ci terrà giunti in quella vece». 2.16.37 Allora incominciai: «Con quella fascia 2.16.38 che la morte dissolve men vo suso, 2.16.39 e venni qui per l' infernale ambascia. 2.16.40 E se Dio m' ha in sua grazia rinchiuso, 2.16.41 tanto che vuol ch' i' veggia la sua corte 2.16.42 per modo tutto fuor del moderno uso, 2.16.43 non mi celar chi fosti anzi la morte, 2.16.44 ma dilmi, e dimmi s' i' vo bene al varco; 2.16.45 e tue parole fier le nostre scorte». 2.16.46 «Lombardo fui, e fu' chiamato Marco; 2.16.47 del mondo seppi, e quel valore amai 2.16.48 al quale ha or ciascun disteso l' arco. 2.16.49 Per montar sù dirittamente vai». 2.16.50 Così rispuose, e soggiunse: «I' ti prego 2.16.51 che per me prieghi quando sù sarai». 2.16.52 E io a lui: «Per fede mi ti lego 2.16.53 di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio 2.16.54 dentro ad un dubbio, s' io non me ne spiego. 2.16.55 Prima era scempio, e ora è fatto doppio 2.16.56 ne la sentenza tua, che mi fa certo 2.16.57 qui, e altrove, quello ov' io l' accoppio. 2.16.58 Lo mondo è ben così tutto diserto 2.16.59 d' ogne virtute, come tu mi sone, 2.16.60 e di malizia gravido e coverto; 2.16.61 ma priego che m' addite la cagione, 2.16.62 sì ch' i' la veggia e ch' i' la mostri altrui; 2.16.63 ché nel cielo uno, e un qua giù la pone». 2.16.64 Alto sospir, che duolo strinse in «uhi!», 2.16.65 mise fuor prima; e poi cominciò: «Frate, 2.16.66 lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui. 2.16.67 Voi che vivete ogne cagion recate 2.16.68 pur suso al cielo, pur come se tutto 2.16.69 movesse seco di necessitate. 2.16.70 Se così fosse, in voi fora distrutto 2.16.71 libero arbitrio, e non fora giustizia 2.16.72 per ben letizia, e per male aver lutto. 2.16.73 Lo cielo i vostri movimenti inizia; 2.16.74 non dico tutti, ma, posto ch' i' 'l dica, 2.16.75 lume v' è dato a bene e a malizia, 2.16.76 e libero voler; che, se fatica 2.16.77 ne le prime battaglie col ciel dura, 2.16.78 poi vince tutto, se ben si notrica. 2.16.79 A maggior forza e a miglior natura 2.16.80 liberi soggiacete; e quella cria 2.16.81 la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura. 2.16.82 Però, se 'l mondo presente disvia, 2.16.83 in voi è la cagione, in voi si cheggia; 2.16.84 e io te ne sarò or vera spia. 2.16.85 Esce di mano a lui che la vagheggia 2.16.86 prima che sia, a guisa di fanciulla 2.16.87 che piangendo e ridendo pargoleggia, 2.16.88 l' anima semplicetta che sa nulla, 2.16.89 salvo che, mossa da lieto fattore, 2.16.90 volontier torna a ciò che la trastulla. 2.16.91 Di picciol bene in pria sente sapore; 2.16.92 quivi s' inganna, e dietro ad esso corre, 2.16.93 se guida o fren non torce suo amore. 2.16.94 Onde convenne legge per fren porre; 2.16.95 convenne rege aver, che discernesse 2.16.96 de la vera cittade almen la torre. 2.16.97 Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? 2.16.98 Nullo, però che 'l pastor che procede, 2.16.99 rugumar può, ma non ha l' unghie fesse; 2.16.100 per che la gente, che sua guida vede 2.16.101 pur a quel ben fedire ond' ella è ghiotta, 2.16.102 di quel si pasce, e più oltre non chiede. 2.16.103 Ben puoi veder che la mala condotta 2.16.104 è la cagion che 'l mondo ha fatto reo, 2.16.105 e non natura che 'n voi sia corrotta. 2.16.106 Soleva Roma, che 'l buon mondo feo, 2.16.107 due soli aver, che l' una e l' altra strada 2.16.108 facean vedere, e del mondo e di Deo. 2.16.109 L' un l' altro ha spento; ed è giunta la spada 2.16.110 col pasturale, e l' un con l' altro insieme 2.16.111 per viva forza mal convien che vada; 2.16.112 però che, giunti, l' un l' altro non teme: 2.16.113 se non mi credi, pon mente a la spiga, 2.16.114 ch' ogn' erba si conosce per lo seme. 2.16.115 In sul paese ch' Adice e Po riga, 2.16.116 solea valore e cortesia trovarsi, 2.16.117 prima che Federigo avesse briga; 2.16.118 or può sicuramente indi passarsi 2.16.119 per qualunque lasciasse, per vergogna, 2.16.120 di ragionar coi buoni o d' appressarsi. 2.16.121 Ben v' èn tre vecchi ancora in cui rampogna 2.16.122 l' antica età la nova, e par lor tardo 2.16.123 che Dio a miglior vita li ripogna: 2.16.124 Currado da Palazzo e 'l buon Gherardo 2.16.125 e Guido da Castel, che mei si noma, 2.16.126 francescamente, il semplice Lombardo. 2.16.127 Dì oggimai che la Chiesa di Roma, 2.16.128 per confondere in sé due reggimenti, 2.16.129 cade nel fango, e sé brutta e la soma». 2.16.130 «O Marco mio», diss' io, «bene argomenti; 2.16.131 e or discerno perché dal retaggio 2.16.132 li figli di Levì furono essenti. 2.16.133 Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio 2.16.134 di' ch' è rimaso de la gente spenta, 2.16.135 in rimprovèro del secol selvaggio?». 2.16.136 «O tuo parlar m' inganna, o el mi tenta», 2.16.137 rispuose a me; «ché, parlandomi tosco, 2.16.138 par che del buon Gherardo nulla senta. 2.16.139 Per altro sopranome io nol conosco, 2.16.140 s' io nol togliessi da sua figlia Gaia. 2.16.141 Dio sia con voi, ché più non vegno vosco. 2.16.142 Vedi l' albor che per lo fummo raia 2.16.143 già biancheggiare, e me convien partirmi 2.16.144 (l' angelo è ivi) prima ch' io li paia». 2.16.145 Così tornò, e più non volle udirmi.
CANTO XVII
2.17.1 Ricorditi, lettor, se mai ne l' alpe 2.17.2 ti colse nebbia per la qual vedessi 2.17.3 non altrimenti che per pelle talpe, 2.17.4 come, quando i vapori umidi e spessi 2.17.5 a diradar cominciansi, la spera 2.17.6 del sol debilemente entra per essi; 2.17.7 e fia la tua imagine leggera 2.17.8 in giugnere a veder com' io rividi 2.17.9 lo sole in pria, che già nel corcar era. 2.17.10 Sì, pareggiando i miei co' passi fidi 2.17.11 del mio maestro, usci' fuor di tal nube 2.17.12 ai raggi morti già ne' bassi lidi. 2.17.13 O imaginativa che ne rube 2.17.14 talvolta sì di fuor, ch' om non s' accorge 2.17.15 perché dintorno suonin mille tube, 2.17.16 chi move te, se 'l senso non ti porge? 2.17.17 Moveti lume che nel ciel s' informa, 2.17.18 per sé o per voler che giù lo scorge. 2.17.19 De l' empiezza di lei che mutò forma 2.17.20 ne l' uccel ch' a cantar più si diletta, 2.17.21 ne l' imagine mia apparve l' orma; 2.17.22 e qui fu la mia mente sì ristretta 2.17.23 dentro da sé, che di fuor non venìa 2.17.24 cosa che fosse allor da lei ricetta. 2.17.25 Poi piovve dentro a l' alta fantasia 2.17.26 un crucifisso, dispettoso e fero 2.17.27 ne la sua vista, e cotal si moria; 2.17.28 intorno ad esso era il grande Assüero, 2.17.29 Estèr sua sposa e 'l giusto Mardoceo, 2.17.30 che fu al dire e al far così intero. 2.17.31 E come questa imagine rompeo 2.17.32 sé per sé stessa, a guisa d' una bulla 2.17.33 cui manca l' acqua sotto qual si feo, 2.17.34 surse in mia visïone una fanciulla 2.17.35 piangendo forte, e dicea: «O regina, 2.17.36 perché per ira hai voluto esser nulla? 2.17.37 Ancisa t' hai per non perder Lavina; 2.17.38 or m' hai perduta! Io son essa che lutto, 2.17.39 madre, a la tua pria ch' a l' altrui ruina». 2.17.40 Come si frange il sonno ove di butto 2.17.41 nova luce percuote il viso chiuso, 2.17.42 che fratto guizza pria che muoia tutto; 2.17.43 così l' imaginar mio cadde giuso 2.17.44 tosto che lume il volto mi percosse, 2.17.45 maggior assai che quel ch' è in nostro uso. 2.17.46 I' mi volgea per veder ov' io fosse, 2.17.47 quando una voce disse «Qui si monta», 2.17.48 che da ogne altro intento mi rimosse; 2.17.49 e fece la mia voglia tanto pronta 2.17.50 di riguardar chi era che parlava, 2.17.51 che mai non posa, se non si raffronta. 2.17.52 Ma come al sol che nostra vista grava 2.17.53 e per soverchio sua figura vela, 2.17.54 così la mia virtù quivi mancava. 2.17.55 «Questo è divino spirito, che ne la 2.17.56 via da ir sù ne drizza sanza prego, 2.17.57 e col suo lume sé medesmo cela. 2.17.58 Sì fa con noi, come l' uom si fa sego; 2.17.59 ché quale aspetta prego e l' uopo vede, 2.17.60 malignamente già si mette al nego. 2.17.61 Or accordiamo a tanto invito il piede; 2.17.62 procacciam di salir pria che s' abbui, 2.17.63 ché poi non si poria, se 'l dì non riede». 2.17.64 Così disse il mio duca, e io con lui 2.17.65 volgemmo i nostri passi ad una scala; 2.17.66 e tosto ch' io al primo grado fui, 2.17.67 senti'mi presso quasi un muover d' ala 2.17.68 e ventarmi nel viso e dir: "Beati 2.17.69 pacifici, che son sanz' ira mala!". 2.17.70 Già eran sovra noi tanto levati 2.17.71 li ultimi raggi che la notte segue, 2.17.72 che le stelle apparivan da più lati. 2.17.73 "O virtù mia, perché sì ti dilegue?", 2.17.74 fra me stesso dicea, ché mi sentiva 2.17.75 la possa de le gambe posta in triegue. 2.17.76 Noi eravam dove più non saliva 2.17.77 la scala sù, ed eravamo affissi, 2.17.78 pur come nave ch' a la piaggia arriva. 2.17.79 E io attesi un poco, s' io udissi 2.17.80 alcuna cosa nel novo girone; 2.17.81 poi mi volsi al maestro mio, e dissi: 2.17.82 «Dolce mio padre, dì, quale offensione 2.17.83 si purga qui nel giro dove semo? 2.17.84 Se i piè si stanno, non stea tuo sermone». 2.17.85 Ed elli a me: «L' amor del bene, scemo 2.17.86 del suo dover, quiritta si ristora; 2.17.87 qui si ribatte il mal tardato remo. 2.17.88 Ma perché più aperto intendi ancora, 2.17.89 volgi la mente a me, e prenderai 2.17.90 alcun buon frutto di nostra dimora». 2.17.91 «Né creator né creatura mai», 2.17.92 cominciò el, «figliuol, fu sanza amore, 2.17.93 o naturale o d' animo; e tu 'l sai. 2.17.94 Lo naturale è sempre sanza errore, 2.17.95 ma l' altro puote errar per malo obietto 2.17.96 o per troppo o per poco di vigore. 2.17.97 Mentre ch' elli è nel primo ben diretto, 2.17.98 e ne' secondi sé stesso misura, 2.17.99 esser non può cagion di mal diletto; 2.17.100 ma quando al mal si torce, o con più cura 2.17.101 o con men che non dee corre nel bene, 2.17.102 contra 'l fattore adovra sua fattura. 2.17.103 Quinci comprender puoi ch' esser convene 2.17.104 amor sementa in voi d' ogne virtute 2.17.105 e d' ogne operazion che merta pene. 2.17.106 Or, perché mai non può da la salute 2.17.107 amor del suo subietto volger viso, 2.17.108 da l' odio proprio son le cose tute; 2.17.109 e perché intender non si può diviso, 2.17.110 e per sé stante, alcuno esser dal primo, 2.17.111 da quello odiare ogne effetto è deciso. 2.17.112 Resta, se dividendo bene stimo, 2.17.113 che 'l mal che s' ama è del prossimo; ed esso 2.17.114 amor nasce in tre modi in vostro limo. 2.17.115 È chi, per esser suo vicin soppresso, 2.17.116 spera eccellenza, e sol per questo brama 2.17.117 ch' el sia di sua grandezza in basso messo; 2.17.118 è chi podere, grazia, onore e fama 2.17.119 teme di perder perch' altri sormonti, 2.17.120 onde s' attrista sì che 'l contrario ama; 2.17.121 ed è chi per ingiuria par ch' aonti, 2.17.122 sì che si fa de la vendetta ghiotto, 2.17.123 e tal convien che 'l male altrui impronti. 2.17.124 Questo triforme amor qua giù di sotto 2.17.125 si piange: or vo' che tu de l' altro intende, 2.17.126 che corre al ben con ordine corrotto. 2.17.127 Ciascun confusamente un bene apprende 2.17.128 nel qual si queti l' animo, e disira; 2.17.129 per che di giugner lui ciascun contende. 2.17.130 Se lento amore a lui veder vi tira 2.17.131 o a lui acquistar, questa cornice, 2.17.132 dopo giusto penter, ve ne martira. 2.17.133 Altro ben è che non fa l' uom felice; 2.17.134 non è felicità, non è la buona 2.17.135 essenza, d' ogne ben frutto e radice. 2.17.136 L' amor ch' ad esso troppo s' abbandona, 2.17.137 di sovr' a noi si piange per tre cerchi; 2.17.138 ma come tripartito si ragiona, 2.17.139 tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi».
CANTO XVIII
2.18.1 Posto avea fine al suo ragionamento 2.18.2 l' alto dottore, e attento guardava 2.18.3 ne la mia vista s' io parea contento; 2.18.4 e io, cui nova sete ancor frugava, 2.18.5 di fuor tacea, e dentro dicea: "Forse 2.18.6 lo troppo dimandar ch' io fo li grava". 2.18.7 Ma quel padre verace, che s' accorse 2.18.8 del timido voler che non s' apriva, 2.18.9 parlando, di parlare ardir mi porse. 2.18.10 Ond' io: «Maestro, il mio veder s' avviva 2.18.11 sì nel tuo lume, ch' io discerno chiaro 2.18.12 quanto la tua ragion parta o descriva. 2.18.13 Però ti prego, dolce padre caro, 2.18.14 che mi dimostri amore, a cui reduci 2.18.15 ogne buono operare e 'l suo contraro». 2.18.16 «Drizza», disse, «ver' me l' agute luci 2.18.17 de lo 'ntelletto, e fieti manifesto 2.18.18 l' error de' ciechi che si fanno duci. 2.18.19 L' animo, ch' è creato ad amar presto, 2.18.20 ad ogne cosa è mobile che piace, 2.18.21 tosto che dal piacere in atto è desto. 2.18.22 Vostra apprensiva da esser verace 2.18.23 tragge intenzione, e dentro a voi la spiega, 2.18.24 sì che l' animo ad essa volger face; 2.18.25 e se, rivolto, inver' di lei si piega, 2.18.26 quel piegare è amor, quell' è natura 2.18.27 che per piacer di novo in voi si lega. 2.18.28 Poi, come 'l foco movesi in altura 2.18.29 per la sua forma ch' è nata a salire 2.18.30 là dove più in sua matera dura, 2.18.31 così l' animo preso entra in disire, 2.18.32 ch' è moto spiritale, e mai non posa 2.18.33 fin che la cosa amata il fa gioire. 2.18.34 Or ti puote apparer quant' è nascosa 2.18.35 la veritate a la gente ch' avvera 2.18.36 ciascun amore in sé laudabil cosa; 2.18.37 però che forse appar la sua matera 2.18.38 sempre esser buona, ma non ciascun segno 2.18.39 è buono, ancor che buona sia la cera». 2.18.40 «Le tue parole e 'l mio seguace ingegno», 2.18.41 rispuos' io lui, «m' hanno amor discoverto, 2.18.42 ma ciò m' ha fatto di dubbiar più pregno; 2.18.43 ché, s' amore è di fuori a noi offerto 2.18.44 e l' anima non va con altro piede, 2.18.45 se dritta o torta va, non è suo merto». 2.18.46 Ed elli a me: «Quanto ragion qui vede, 2.18.47 dir ti poss' io; da indi in là t' aspetta 2.18.48 pur a Beatrice, ch' è opra di fede. 2.18.49 Ogne forma sustanzïal, che setta 2.18.50 è da matera ed è con lei unita, 2.18.51 specifica vertute ha in sé colletta, 2.18.52 la qual sanza operar non è sentita, 2.18.53 né si dimostra mai che per effetto, 2.18.54 come per verdi fronde in pianta vita. 2.18.55 Però, là onde vegna lo 'ntelletto 2.18.56 de le prime notizie, omo non sape, 2.18.57 e de' primi appetibili l' affetto, 2.18.58 che sono in voi sì come studio in ape 2.18.59 di far lo mele; e questa prima voglia 2.18.60 merto di lode o di biasmo non cape. 2.18.61 Or perché a questa ogn' altra si raccoglia, 2.18.62 innata v' è la virtù che consiglia, 2.18.63 e de l' assenso de' tener la soglia. 2.18.64 Quest' è 'l principio là onde si piglia 2.18.65 ragion di meritare in voi, secondo 2.18.66 che buoni e rei amori accoglie e viglia. 2.18.67 Color che ragionando andaro al fondo, 2.18.68 s' accorser d' esta innata libertate; 2.18.69 però moralità lasciaro al mondo. 2.18.70 Onde, poniam che di necessitate 2.18.71 surga ogne amor che dentro a voi s' accende, 2.18.72 di ritenerlo è in voi la podestate. 2.18.73 La nobile virtù Beatrice intende 2.18.74 per lo libero arbitrio, e però guarda 2.18.75 che l' abbi a mente, s' a parlar ten prende». 2.18.76 La luna, quasi a mezza notte tarda, 2.18.77 facea le stelle a noi parer più rade, 2.18.78 fatta com' un secchion che tuttor arda; 2.18.79 e correa contra 'l ciel per quelle strade 2.18.80 che 'l sole infiamma allor che quel da Roma 2.18.81 tra ' Sardi e ' Corsi il vede quando cade. 2.18.82 E quell' ombra gentil per cui si noma 2.18.83 Pietola più che villa mantoana, 2.18.84 del mio carcar diposta avea la soma; 2.18.85 per ch' io, che la ragione aperta e piana 2.18.86 sovra le mie quistioni avea ricolta, 2.18.87 stava com' om che sonnolento vana. 2.18.88 Ma questa sonnolenza mi fu tolta 2.18.89 subitamente da gente che dopo 2.18.90 le nostre spalle a noi era già volta. 2.18.91 E quale Ismeno già vide e Asopo 2.18.92 lungo di sé di notte furia e calca, 2.18.93 pur che i Teban di Bacco avesser uopo, 2.18.94 cotal per quel giron suo passo falca, 2.18.95 per quel ch' io vidi di color, venendo, 2.18.96 cui buon volere e giusto amor cavalca. 2.18.97 Tosto fur sovr' a noi, perché correndo 2.18.98 si movea tutta quella turba magna; 2.18.99 e due dinanzi gridavan piangendo: 2.18.100 «Maria corse con fretta a la montagna; 2.18.101 e Cesare, per soggiogare Ilerda, 2.18.102 punse Marsilia e poi corse in Ispagna». 2.18.103 «Ratto, ratto, che 'l tempo non si perda 2.18.104 per poco amor», gridavan li altri appresso, 2.18.105 «che studio di ben far grazia rinverda». 2.18.106 «O gente in cui fervore aguto adesso 2.18.107 ricompie forse negligenza e indugio 2.18.108 da voi per tepidezza in ben far messo, 2.18.109 questi che vive, e certo i' non vi bugio, 2.18.110 vuole andar sù, pur che 'l sol ne riluca; 2.18.111 però ne dite ond' è presso il pertugio». 2.18.112 Parole furon queste del mio duca; 2.18.113 e un di quelli spirti disse: «Vieni 2.18.114 di retro a noi, e troverai la buca. 2.18.115 Noi siam di voglia a muoverci sì pieni, 2.18.116 che restar non potem; però perdona, 2.18.117 se villania nostra giustizia tieni. 2.18.118 Io fui abate in San Zeno a Verona 2.18.119 sotto lo 'mperio del buon Barbarossa, 2.18.120 di cui dolente ancor Milan ragiona. 2.18.121 E tale ha già l' un piè dentro la fossa, 2.18.122 che tosto piangerà quel monastero, 2.18.123 e tristo fia d' avere avuta possa; 2.18.124 perché suo figlio, mal del corpo intero, 2.18.125 e de la mente peggio, e che mal nacque, 2.18.126 ha posto in loco di suo pastor vero». 2.18.127 Io non so se più disse o s' ei si tacque, 2.18.128 tant' era già di là da noi trascorso; 2.18.129 ma questo intesi, e ritener mi piacque. 2.18.130 E quei che m' era ad ogne uopo soccorso 2.18.131 disse: «Volgiti qua: vedine due 2.18.132 venir dando a l' accidïa di morso». 2.18.133 Di retro a tutti dicean: «Prima fue 2.18.134 morta la gente a cui il mar s' aperse, 2.18.135 che vedesse Iordan le rede sue. 2.18.136 E quella che l' affanno non sofferse 2.18.137 fino a la fine col figlio d' Anchise, 2.18.138 sé stessa a vita sanza gloria offerse». 2.18.139 Poi quando fuor da noi tanto divise 2.18.140 quell' ombre, che veder più non potiersi, 2.18.141 novo pensiero dentro a me si mise, 2.18.142 del qual più altri nacquero e diversi; 2.18.143 e tanto d' uno in altro vaneggiai, 2.18.144 che li occhi per vaghezza ricopersi, 2.18.145 e 'l pensamento in sogno trasmutai.
CANTO XIX
2.19.1 Ne l' ora che non può 'l calor dïurno 2.19.2 intepidar più 'l freddo de la luna, 2.19.3 vinto da terra, e talor da Saturno 2.19.4 --quando i geomanti lor Maggior Fortuna 2.19.5 veggiono in orïente, innanzi a l' alba, 2.19.6 surger per via che poco le sta bruna --, 2.19.7 mi venne in sogno una femmina balba, 2.19.8 ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, 2.19.9 con le man monche, e di colore scialba. 2.19.10 Io la mirava; e come 'l sol conforta 2.19.11 le fredde membra che la notte aggrava, 2.19.12 così lo sguardo mio le facea scorta 2.19.13 la lingua, e poscia tutta la drizzava 2.19.14 in poco d' ora, e lo smarrito volto, 2.19.15 com' amor vuol, così le colorava. 2.19.16 Poi ch' ell' avea 'l parlar così disciolto, 2.19.17 cominciava a cantar sì, che con pena 2.19.18 da lei avrei mio intento rivolto. 2.19.19 «Io son», cantava, «io son dolce serena, 2.19.20 che ' marinari in mezzo mar dismago; 2.19.21 tanto son di piacere a sentir piena! 2.19.22 Io volsi Ulisse del suo cammin vago 2.19.23 al canto mio; e qual meco s' ausa, 2.19.24 rado sen parte; sì tutto l' appago!». 2.19.25 Ancor non era sua bocca richiusa, 2.19.26 quand' una donna apparve santa e presta 2.19.27 lunghesso me per far colei confusa. 2.19.28 «O Virgilio, Virgilio, chi è questa?», 2.19.29 fieramente dicea; ed el venìa 2.19.30 con li occhi fitti pur in quella onesta. 2.19.31 L' altra prendea, e dinanzi l' apria 2.19.32 fendendo i drappi, e mostravami 'l ventre; 2.19.33 quel mi svegliò col puzzo che n' uscia. 2.19.34 Io mossi li occhi, e 'l buon maestro: «Almen tre 2.19.35 voci t' ho messe!», dicea, «Surgi e vieni; 2.19.36 troviam l' aperta per la qual tu entre». 2.19.37 Sù mi levai, e tutti eran già pieni 2.19.38 de l' alto dì i giron del sacro monte, 2.19.39 e andavam col sol novo a le reni. 2.19.40 Seguendo lui, portava la mia fronte 2.19.41 come colui che l' ha di pensier carca, 2.19.42 che fa di sé un mezzo arco di ponte; 2.19.43 quand' io udi' «Venite; qui si varca» 2.19.44 parlare in modo soave e benigno, 2.19.45 qual non si sente in questa mortal marca. 2.19.46 Con l' ali aperte, che parean di cigno, 2.19.47 volseci in sù colui che sì parlonne 2.19.48 tra due pareti del duro macigno. 2.19.49 Mosse le penne poi e ventilonne, 2.19.50 "Qui lugent"affermando esser beati, 2.19.51 ch' avran di consolar l' anime donne. 2.19.52 «Che hai che pur inver' la terra guati?», 2.19.53 la guida mia incominciò a dirmi, 2.19.54 poco amendue da l' angel sormontati. 2.19.55 E io: «Con tanta sospeccion fa irmi 2.19.56 novella visïon ch' a sé mi piega, 2.19.57 sì ch' io non posso dal pensar partirmi». 2.19.58 «Vedesti», disse, «quell' antica strega 2.19.59 che sola sovr' a noi omai si piagne; 2.19.60 vedesti come l' uom da lei si slega. 2.19.61 Bastiti, e batti a terra le calcagne; 2.19.62 li occhi rivolgi al logoro che gira 2.19.63 lo rege etterno con le rote magne». 2.19.64 Quale 'l falcon, che prima a' piè si mira, 2.19.65 indi si volge al grido e si protende 2.19.66 per lo disio del pasto che là il tira, 2.19.67 tal mi fec' io; e tal, quanto si fende 2.19.68 la roccia per dar via a chi va suso, 2.19.69 n' andai infin dove 'l cerchiar si prende. 2.19.70 Com' io nel quinto giro fui dischiuso, 2.19.71 vidi gente per esso che piangea, 2.19.72 giacendo a terra tutta volta in giuso. 2.19.73 "Adhaesit pavimento anima mea" 2.19.74 sentia dir lor con sì alti sospiri, 2.19.75 che la parola a pena s' intendea. 2.19.76 «O eletti di Dio, li cui soffriri 2.19.77 e giustizia e speranza fa men duri, 2.19.78 drizzate noi verso li alti saliri». 2.19.79 «Se voi venite dal giacer sicuri, 2.19.80 e volete trovar la via più tosto, 2.19.81 le vostre destre sien sempre di fori». 2.19.82 Così pregò 'l poeta, e sì risposto 2.19.83 poco dinanzi a noi ne fu; per ch' io 2.19.84 nel parlare avvisai l' altro nascosto, 2.19.85 e volsi li occhi a li occhi al segnor mio: 2.19.86 ond' elli m' assentì con lieto cenno 2.19.87 ciò che chiedea la vista del disio. 2.19.88 Poi ch' io potei di me fare a mio senno, 2.19.89 trassimi sovra quella creatura 2.19.90 le cui parole pria notar mi fenno, 2.19.91 dicendo: «Spirto in cui pianger matura 2.19.92 quel sanza 'l quale a Dio tornar non pòssi, 2.19.93 sosta un poco per me tua maggior cura. 2.19.94 Chi fosti e perché vòlti avete i dossi 2.19.95 al sù, mi dì, e se vuo' ch' io t' impetri 2.19.96 cosa di là ond' io vivendo mossi». 2.19.97 Ed elli a me: «Perché i nostri diretri 2.19.98 rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima 2.19.99 scias quod ego fui successor Petri. 2.19.100 Intra Sïestri e Chiaveri s' adima 2.19.101 una fiumana bella, e del suo nome 2.19.102 lo titol del mio sangue fa sua cima. 2.19.103 Un mese e poco più prova' io come 2.19.104 pesa il gran manto a chi dal fango il guarda, 2.19.105 che piuma sembran tutte l' altre some. 2.19.106 La mia conversïone, omè!, fu tarda; 2.19.107 ma, come fatto fui roman pastore, 2.19.108 così scopersi la vita bugiarda. 2.19.109 Vidi che lì non s' acquetava il core, 2.19.110 né più salir potiesi in quella vita; 2.19.111 per che di questa in me s' accese amore. 2.19.112 Fino a quel punto misera e partita 2.19.113 da Dio anima fui, del tutto avara; 2.19.114 or, come vedi, qui ne son punita. 2.19.115 Quel ch' avarizia fa, qui si dichiara 2.19.116 in purgazion de l' anime converse; 2.19.117 e nulla pena il monte ha più amara. 2.19.118 Sì come l' occhio nostro non s' aderse 2.19.119 in alto, fisso a le cose terrene, 2.19.120 così giustizia qui a terra il merse. 2.19.121 Come avarizia spense a ciascun bene 2.19.122 lo nostro amore, onde operar perdési, 2.19.123 così giustizia qui stretti ne tene, 2.19.124 ne' piedi e ne le man legati e presi; 2.19.125 e quanto fia piacer del giusto Sire, 2.19.126 tanto staremo immobili e distesi». 2.19.127 Io m' era inginocchiato e volea dire; 2.19.128 ma com' io cominciai ed el s' accorse, 2.19.129 solo ascoltando, del mio reverire, 2.19.130 «Qual cagion», disse, «in giù così ti torse?». 2.19.131 E io a lui: «Per vostra dignitate 2.19.132 mia coscïenza dritto mi rimorse». 2.19.133 «Drizza le gambe, lèvati sù, frate!», 2.19.134 rispuose; «non errar: conservo sono 2.19.135 teco e con li altri ad una podestate. 2.19.136 Se mai quel santo evangelico suono 2.19.137 che dice "Neque nubent"intendesti, 2.19.138 ben puoi veder perch' io così ragiono. 2.19.139 Vattene omai: non vo' che più t' arresti; 2.19.140 ché la tua stanza mio pianger disagia, 2.19.141 col qual maturo ciò che tu dicesti. 2.19.142 Nepote ho io di là c' ha nome Alagia, 2.19.143 buona da sé, pur che la nostra casa 2.19.144 non faccia lei per essempro malvagia; 2.19.145 e questa sola di là m' è rimasa».
CANTO XX
2.20.1 Contra miglior voler voler mal pugna; 2.20.2 onde contra 'l piacer mio, per piacerli, 2.20.3 trassi de l' acqua non sazia la spugna. 2.20.4 Mossimi; e 'l duca mio si mosse per li 2.20.5 luoghi spediti pur lungo la roccia, 2.20.6 come si va per muro stretto a' merli; 2.20.7 ché la gente che fonde a goccia a goccia 2.20.8 per li occhi il mal che tutto 'l mondo occupa, 2.20.9 da l' altra parte in fuor troppo s' approccia. 2.20.10 Maladetta sie tu, antica lupa, 2.20.11 che più che tutte l' altre bestie hai preda 2.20.12 per la tua fame sanza fine cupa! 2.20.13 O ciel, nel cui girar par che si creda 2.20.14 le condizion di qua giù trasmutarsi, 2.20.15 quando verrà per cui questa disceda? 2.20.16 Noi andavam con passi lenti e scarsi, 2.20.17 e io attento a l' ombre, ch' i' sentia 2.20.18 pietosamente piangere e lagnarsi; 2.20.19 e per ventura udi' «Dolce Maria!» 2.20.20 dinanzi a noi chiamar così nel pianto 2.20.21 come fa donna che in parturir sia; 2.20.22 e seguitar: «Povera fosti tanto, 2.20.23 quanto veder si può per quello ospizio 2.20.24 dove sponesti il tuo portato santo». 2.20.25 Seguentemente intesi: «O buon Fabrizio, 2.20.26 con povertà volesti anzi virtute 2.20.27 che gran ricchezza posseder con vizio». 2.20.28 Queste parole m' eran sì piaciute, 2.20.29 ch' io mi trassi oltre per aver contezza 2.20.30 di quello spirto onde parean venute. 2.20.31 Esso parlava ancor de la larghezza 2.20.32 che fece Niccolò a le pulcelle, 2.20.33 per condurre ad onor lor giovinezza. 2.20.34 «O anima che tanto ben favelle, 2.20.35 dimmi chi fosti», dissi, «e perché sola 2.20.36 tu queste degne lode rinovelle. 2.20.37 Non fia sanza mercé la tua parola, 2.20.38 s' io ritorno a compiér lo cammin corto 2.20.39 di quella vita ch' al termine vola». 2.20.40 Ed elli: «Io ti dirò, non per conforto 2.20.41 ch' io attenda di là, ma perché tanta 2.20.42 grazia in te luce prima che sie morto. 2.20.43 Io fui radice de la mala pianta 2.20.44 che la terra cristiana tutta aduggia, 2.20.45 sì che buon frutto rado se ne schianta. 2.20.46 Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia 2.20.47 potesser, tosto ne saria vendetta; 2.20.48 e io la cheggio a lui che tutto giuggia. 2.20.49 Chiamato fui di là Ugo Ciappetta; 2.20.50 di me son nati i Filippi e i Luigi 2.20.51 per cui novellamente è Francia retta. 2.20.52 Figliuol fu' io d' un beccaio di Parigi: 2.20.53 quando li regi antichi venner meno 2.20.54 tutti, fuor ch' un renduto in panni bigi, 2.20.55 trova'mi stretto ne le mani il freno 2.20.56 del governo del regno, e tanta possa 2.20.57 di nuovo acquisto, e sì d' amici pieno, 2.20.58 ch' a la corona vedova promossa 2.20.59 la testa di mio figlio fu, dal quale 2.20.60 cominciar di costor le sacrate ossa. 2.20.61 Mentre che la gran dota provenzale 2.20.62 al sangue mio non tolse la vergogna, 2.20.63 poco valea, ma pur non facea male. 2.20.64 Lì cominciò con forza e con menzogna 2.20.65 la sua rapina; e poscia, per ammenda, 2.20.66 Pontì e Normandia prese e Guascogna. 2.20.67 Carlo venne in Italia e, per ammenda, 2.20.68 vittima fé di Curradino; e poi 2.20.69 ripinse al ciel Tommaso, per ammenda. 2.20.70 Tempo vegg' io, non molto dopo ancoi, 2.20.71 che tragge un altro Carlo fuor di Francia, 2.20.72 per far conoscer meglio e sé e ' suoi. 2.20.73 Sanz' arme n' esce e solo con la lancia 2.20.74 con la qual giostrò Giuda, e quella ponta 2.20.75 sì, ch' a Fiorenza fa scoppiar la pancia. 2.20.76 Quindi non terra, ma peccato e onta 2.20.77 guadagnerà, per sé tanto più grave, 2.20.78 quanto più lieve simil danno conta. 2.20.79 L' altro, che già uscì preso di nave, 2.20.80 veggio vender sua figlia e patteggiarne 2.20.81 come fanno i corsar de l' altre schiave. 2.20.82 O avarizia, che puoi tu più farne, 2.20.83 poscia c' ha' il mio sangue a te sì tratto, 2.20.84 che non si cura de la propria carne? 2.20.85 Perché men paia il mal futuro e 'l fatto, 2.20.86 veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, 2.20.87 e nel vicario suo Cristo esser catto. 2.20.88 Veggiolo un' altra volta esser deriso; 2.20.89 veggio rinovellar l' aceto e 'l fiele, 2.20.90 e tra vivi ladroni esser anciso. 2.20.91 Veggio il novo Pilato sì crudele, 2.20.92 che ciò nol sazia, ma sanza decreto 2.20.93 portar nel Tempio le cupide vele. 2.20.94 O Segnor mio, quando sarò io lieto 2.20.95 a veder la vendetta che, nascosa, 2.20.96 fa dolce l' ira tua nel tuo secreto? 2.20.97 Ciò ch' io dicea di quell' unica sposa 2.20.98 de lo Spirito Santo e che ti fece 2.20.99 verso me volger per alcuna chiosa, 2.20.100 tanto è risposto a tutte nostre prece 2.20.101 quanto 'l dì dura; ma com' el s' annotta, 2.20.102 contrario suon prendemo in quella vece. 2.20.103 Noi repetiam Pigmalïon allotta, 2.20.104 cui traditore e ladro e paricida 2.20.105 fece la voglia sua de l' oro ghiotta; 2.20.106 e la miseria de l' avaro Mida, 2.20.107 che seguì a la sua dimanda gorda, 2.20.108 per la qual sempre convien che si rida. 2.20.109 Del folle Acàn ciascun poi si ricorda, 2.20.110 come furò le spoglie, sì che l' ira 2.20.111 di Iosüè qui par ch' ancor lo morda. 2.20.112 Indi accusiam col marito Saffira; 2.20.113 lodiamo i calci ch' ebbe Elïodoro; 2.20.114 e in infamia tutto 'l monte gira 2.20.115 Polinestòr ch' ancise Polidoro; 2.20.116 ultimamente ci si grida: "Crasso, 2.20.117 dilci, che 'l sai: di che sapore è l' oro?". 2.20.118 Talor parla l' uno alto e l' altro basso, 2.20.119 secondo l' affezion ch' ad ir ci sprona 2.20.120 ora a maggiore e ora a minor passo: 2.20.121 però al ben che 'l dì ci si ragiona, 2.20.122 dianzi non era io sol; ma qui da presso 2.20.123 non alzava la voce altra persona». 2.20.124 Noi eravam partiti già da esso, 2.20.125 e brigavam di soverchiar la strada 2.20.126 tanto quanto al poder n' era permesso, 2.20.127 quand' io senti', come cosa che cada, 2.20.128 tremar lo monte; onde mi prese un gelo 2.20.129 qual prender suol colui ch' a morte vada. 2.20.130 Certo non si scoteo sì forte Delo, 2.20.131 pria che Latona in lei facesse 'l nido 2.20.132 a parturir li due occhi del cielo. 2.20.133 Poi cominciò da tutte parti un grido 2.20.134 tal, che 'l maestro inverso me si feo, 2.20.135 dicendo: «Non dubbiar, mentr' io ti guido». 2.20.136 "Glorïa in excelsis"tutti "Deo" 2.20.137 dicean, per quel ch' io da' vicin compresi, 2.20.138 onde intender lo grido si poteo. 2.20.139 No' istavamo immobili e sospesi 2.20.140 come i pastor che prima udir quel canto, 2.20.141 fin che 'l tremar cessò ed el compiési. 2.20.142 Poi ripigliammo nostro cammin santo, 2.20.143 guardando l' ombre che giacean per terra, 2.20.144 tornate già in su l' usato pianto. 2.20.145 Nulla ignoranza mai con tanta guerra 2.20.146 mi fé desideroso di sapere, 2.20.147 se la memoria mia in ciò non erra, 2.20.148 quanta pareami allor, pensando, avere; 2.20.149 né per la fretta dimandare er' oso, 2.20.150 né per me lì potea cosa vedere: 2.20.151 così m' andava timido e pensoso.
CANTO XXI
2.21.1 La sete natural che mai non sazia 2.21.2 se non con l' acqua onde la femminetta 2.21.3 samaritana domandò la grazia, 2.21.4 mi travagliava, e pungeami la fretta 2.21.5 per la 'mpacciata via dietro al mio duca, 2.21.6 e condoleami a la giusta vendetta. 2.21.7 Ed ecco, sì come ne scrive Luca 2.21.8 che Cristo apparve a' due ch' erano in via, 2.21.9 già surto fuor de la sepulcral buca, 2.21.10 ci apparve un' ombra, e dietro a noi venìa, 2.21.11 dal piè guardando la turba che giace; 2.21.12 né ci addemmo di lei, sì parlò pria, 2.21.13 dicendo: «O frati miei, Dio vi dea pace». 2.21.14 Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio 2.21.15 rendéli 'l cenno ch' a ciò si conface. 2.21.16 Poi cominciò: «Nel beato concilio 2.21.17 ti ponga in pace la verace corte 2.21.18 che me rilega ne l' etterno essilio». 2.21.19 «Come!», diss' elli, e parte andavam forte: 2.21.20 «se voi siete ombre che Dio sù non degni, 2.21.21 chi v' ha per la sua scala tanto scorte?». 2.21.22 E 'l dottor mio: «Se tu riguardi a' segni 2.21.23 che questi porta e che l' angel profila, 2.21.24 ben vedrai che coi buon convien ch' e' regni. 2.21.25 Ma perché lei che dì e notte fila 2.21.26 non li avea tratta ancora la conocchia 2.21.27 che Cloto impone a ciascuno e compila, 2.21.28 l' anima sua, ch' è tua e mia serocchia, 2.21.29 venendo sù, non potea venir sola, 2.21.30 però ch' al nostro modo non adocchia. 2.21.31 Ond' io fui tratto fuor de l' ampia gola 2.21.32 d' inferno per mostrarli, e mosterrolli 2.21.33 oltre, quanto 'l potrà menar mia scola. 2.21.34 Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli 2.21.35 diè dianzi 'l monte, e perché tutto ad una 2.21.36 parve gridare infino a' suoi piè molli». 2.21.37 Sì mi diè, dimandando, per la cruna 2.21.38 del mio disio, che pur con la speranza 2.21.39 si fece la mia sete men digiuna. 2.21.40 Quei cominciò: «Cosa non è che sanza 2.21.41 ordine senta la religïone 2.21.42 de la montagna, o che sia fuor d' usanza. 2.21.43 Libero è qui da ogne alterazione: 2.21.44 di quel che 'l ciel da sé in sé riceve 2.21.45 esser ci puote, e non d' altro, cagione. 2.21.46 Per che non pioggia, non grando, non neve, 2.21.47 non rugiada, non brina più sù cade 2.21.48 che la scaletta di tre gradi breve; 2.21.49 nuvole spesse non paion né rade, 2.21.50 né coruscar, né figlia di Taumante, 2.21.51 che di là cangia sovente contrade; 2.21.52 secco vapor non surge più avante 2.21.53 ch' al sommo d' i tre gradi ch' io parlai, 2.21.54 dov' ha 'l vicario di Pietro le piante. 2.21.55 Trema forse più giù poco o assai; 2.21.56 ma per vento che 'n terra si nasconda, 2.21.57 non so come, qua sù non tremò mai. 2.21.58 Tremaci quando alcuna anima monda 2.21.59 sentesi, sì che surga o che si mova 2.21.60 per salir sù; e tal grido seconda. 2.21.61 De la mondizia sol voler fa prova, 2.21.62 che, tutto libero a mutar convento, 2.21.63 l' alma sorprende, e di voler le giova. 2.21.64 Prima vuol ben, ma non lascia il talento 2.21.65 che divina giustizia, contra voglia, 2.21.66 come fu al peccar, pone al tormento. 2.21.67 E io, che son giaciuto a questa doglia 2.21.68 cinquecent' anni e più, pur mo sentii 2.21.69 libera volontà di miglior soglia: 2.21.70 però sentisti il tremoto e li pii 2.21.71 spiriti per lo monte render lode 2.21.72 a quel Segnor, che tosto sù li 'nvii». 2.21.73 Così ne disse; e però ch' el si gode 2.21.74 tanto del ber quant' è grande la sete, 2.21.75 non saprei dir quant' el mi fece prode. 2.21.76 E 'l savio duca: «Omai veggio la rete 2.21.77 che qui vi 'mpiglia e come si scalappia, 2.21.78 perché ci trema e di che congaudete. 2.21.79 Ora chi fosti, piacciati ch' io sappia, 2.21.80 e perché tanti secoli giaciuto 2.21.81 qui se', ne le parole tue mi cappia». 2.21.82 «Nel tempo che 'l buon Tito, con l' aiuto 2.21.83 del sommo rege, vendicò le fóra 2.21.84 ond' uscì 'l sangue per Giuda venduto, 2.21.85 col nome che più dura e più onora 2.21.86 era io di là», rispuose quello spirto, 2.21.87 «famoso assai, ma non con fede ancora. 2.21.88 Tanto fu dolce mio vocale spirto, 2.21.89 che, tolosano, a sé mi trasse Roma, 2.21.90 dove mertai le tempie ornar di mirto. 2.21.91 Stazio la gente ancor di là mi noma: 2.21.92 cantai di Tebe, e poi del grande Achille; 2.21.93 ma caddi in via con la seconda soma. 2.21.94 Al mio ardor fuor seme le faville, 2.21.95 che mi scaldar, de la divina fiamma 2.21.96 onde sono allumati più di mille; 2.21.97 de l' Enëida dico, la qual mamma 2.21.98 fummi, e fummi nutrice, poetando: 2.21.99 sanz' essa non fermai peso di dramma. 2.21.100 E per esser vivuto di là quando 2.21.101 visse Virgilio, assentirei un sole 2.21.102 più che non deggio al mio uscir di bando». 2.21.103 Volser Virgilio a me queste parole 2.21.104 con viso che, tacendo, disse "Taci"; 2.21.105 ma non può tutto la virtù che vuole; 2.21.106 ché riso e pianto son tanto seguaci 2.21.107 a la passion di che ciascun si spicca, 2.21.108 che men seguon voler ne' più veraci. 2.21.109 Io pur sorrisi come l' uom ch' ammicca; 2.21.110 per che l' ombra si tacque, e riguardommi 2.21.111 ne li occhi ove 'l sembiante più si ficca; 2.21.112 e «Se tanto labore in bene assommi», 2.21.113 disse, «perché la tua faccia testeso 2.21.114 un lampeggiar di riso dimostrommi?». 2.21.115 Or son io d' una parte e d' altra preso: 2.21.116 l' una mi fa tacer, l' altra scongiura 2.21.117 ch' io dica; ond' io sospiro, e sono inteso 2.21.118 dal mio maestro, e «Non aver paura», 2.21.119 mi dice, «di parlar; ma parla e digli 2.21.120 quel ch' e' dimanda con cotanta cura». 2.21.121 Ond' io: «Forse che tu ti maravigli, 2.21.122 antico spirto, del rider ch' io fei; 2.21.123 ma più d' ammirazion vo' che ti pigli. 2.21.124 Questi che guida in alto li occhi miei, 2.21.125 è quel Virgilio dal qual tu togliesti 2.21.126 forte a cantar de li uomini e d' i dèi. 2.21.127 Se cagion altra al mio rider credesti, 2.21.128 lasciala per non vera, ed esser credi 2.21.129 quelle parole che di lui dicesti». 2.21.130 Già s' inchinava ad abbracciar li piedi 2.21.131 al mio dottor, ma el li disse: «Frate, 2.21.132 non far, ché tu se' ombra e ombra vedi». 2.21.133 Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate 2.21.134 comprender de l' amor ch' a te mi scalda, 2.21.135 quand' io dismento nostra vanitate, 2.21.136 trattando l' ombre come cosa salda».
CANTO XXII
2.22.1 Già era l' angel dietro a noi rimaso, 2.22.2 l' angel che n' avea vòlti al sesto giro, 2.22.3 avendomi dal viso un colpo raso; 2.22.4 e quei c' hanno a giustizia lor disiro 2.22.5 detto n' avea beati, e le sue voci 2.22.6 con "sitiunt", sanz' altro, ciò forniro. 2.22.7 E io più lieve che per l' altre foci 2.22.8 m' andava, sì che sanz' alcun labore 2.22.9 seguiva in sù li spiriti veloci; 2.22.10 quando Virgilio incominciò: «Amore, 2.22.11 acceso di virtù, sempre altro accese, 2.22.12 pur che la fiamma sua paresse fore; 2.22.13 onde da l' ora che tra noi discese 2.22.14 nel limbo de lo 'nferno Giovenale, 2.22.15 che la tua affezion mi fé palese, 2.22.16 mia benvoglienza inverso te fu quale 2.22.17 più strinse mai di non vista persona, 2.22.18 sì ch' or mi parran corte queste scale. 2.22.19 Ma dimmi, e come amico mi perdona 2.22.20 se troppa sicurtà m' allarga il freno, 2.22.21 e come amico omai meco ragiona: 2.22.22 come poté trovar dentro al tuo seno 2.22.23 loco avarizia, tra cotanto senno 2.22.24 di quanto per tua cura fosti pieno?». 2.22.25 Queste parole Stazio mover fenno 2.22.26 un poco a riso pria; poscia rispuose: 2.22.27 «Ogne tuo dir d' amor m' è caro cenno. 2.22.28 Veramente più volte appaion cose 2.22.29 che danno a dubitar falsa matera 2.22.30 per le vere ragion che son nascose. 2.22.31 La tua dimanda tuo creder m' avvera 2.22.32 esser ch' i' fossi avaro in l' altra vita, 2.22.33 forse per quella cerchia dov' io era. 2.22.34 Or sappi ch' avarizia fu partita 2.22.35 troppo da me, e questa dismisura 2.22.36 migliaia di lunari hanno punita. 2.22.37 E se non fosse ch' io drizzai mia cura, 2.22.38 quand' io intesi là dove tu chiame, 2.22.39 crucciato quasi a l' umana natura: 2.22.40 "Per che non reggi tu, o sacra fame 2.22.41 de l' oro, l' appetito de' mortali?", 2.22.42 voltando sentirei le giostre grame. 2.22.43 Allor m' accorsi che troppo aprir l' ali 2.22.44 potean le mani a spendere, e pente'mi 2.22.45 così di quel come de li altri mali. 2.22.46 Quanti risurgeran coi crini scemi 2.22.47 per ignoranza, che di questa pecca 2.22.48 toglie 'l penter vivendo e ne li stremi! 2.22.49 E sappie che la colpa che rimbecca 2.22.50 per dritta opposizione alcun peccato, 2.22.51 con esso insieme qui suo verde secca; 2.22.52 però, s' io son tra quella gente stato 2.22.53 che piange l' avarizia, per purgarmi, 2.22.54 per lo contrario suo m' è incontrato». 2.22.55 «Or quando tu cantasti le crude armi 2.22.56 de la doppia trestizia di Giocasta», 2.22.57 disse 'l cantor de' buccolici carmi, 2.22.58 «per quello che Clïò teco lì tasta, 2.22.59 non par che ti facesse ancor fedele 2.22.60 la fede, sanza qual ben far non basta. 2.22.61 Se così è, qual sole o quai candele 2.22.62 ti stenebraron sì, che tu drizzasti 2.22.63 poscia di retro al pescator le vele?». 2.22.64 Ed elli a lui: «Tu prima m' invïasti 2.22.65 verso Parnaso a ber ne le sue grotte, 2.22.66 e prima appresso Dio m' alluminasti. 2.22.67 Facesti come quei che va di notte, 2.22.68 che porta il lume dietro e sé non giova, 2.22.69 ma dopo sé fa le persone dotte, 2.22.70 quando dicesti: "Secol si rinova; 2.22.71 torna giustizia e primo tempo umano, 2.22.72 e progenïe scende da ciel nova". 2.22.73 Per te poeta fui, per te cristiano: 2.22.74 ma perché veggi mei ciò ch' io disegno, 2.22.75 a colorare stenderò la mano. 2.22.76 Già era 'l mondo tutto quanto pregno 2.22.77 de la vera credenza, seminata 2.22.78 per li messaggi de l' etterno regno; 2.22.79 e la parola tua sopra toccata 2.22.80 si consonava a' nuovi predicanti; 2.22.81 ond' io a visitarli presi usata. 2.22.82 Vennermi poi parendo tanto santi, 2.22.83 che, quando Domizian li perseguette, 2.22.84 sanza mio lagrimar non fur lor pianti; 2.22.85 e mentre che di là per me si stette, 2.22.86 io li sovvenni, e i lor dritti costumi 2.22.87 fer dispregiare a me tutte altre sette. 2.22.88 E pria ch' io conducessi i Greci a' fiumi 2.22.89 di Tebe poetando, ebb' io battesmo; 2.22.90 ma per paura chiuso cristian fu'mi, 2.22.91 lungamente mostrando paganesmo; 2.22.92 e questa tepidezza il quarto cerchio 2.22.93 cerchiar mi fé più che 'l quarto centesmo. 2.22.94 Tu dunque, che levato hai il coperchio 2.22.95 che m' ascondeva quanto bene io dico, 2.22.96 mentre che del salire avem soverchio, 2.22.97 dimmi dov' è Terrenzio nostro antico, 2.22.98 Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai: 2.22.99 dimmi se son dannati, e in qual vico». 2.22.100 «Costoro e Persio e io e altri assai», 2.22.101 rispuose il duca mio, «siam con quel Greco 2.22.102 che le Muse lattar più ch' altri mai, 2.22.103 nel primo cinghio del carcere cieco; 2.22.104 spesse fïate ragioniam del monte 2.22.105 che sempre ha le nutrice nostre seco. 2.22.106 Euripide v' è nosco e Antifonte, 2.22.107 Simonide, Agatone e altri piùe 2.22.108 Greci che già di lauro ornar la fronte. 2.22.109 Quivi si veggion de le genti tue 2.22.110 Antigone, Dëifile e Argia, 2.22.111 e Ismene sì trista come fue. 2.22.112 Védeisi quella che mostrò Langia; 2.22.113 èvvi la figlia di Tiresia, e Teti, 2.22.114 e con le suore sue Dëidamia». 2.22.115 Tacevansi ambedue già li poeti, 2.22.116 di novo attenti a riguardar dintorno, 2.22.117 liberi da saliri e da pareti; 2.22.118 e già le quattro ancelle eran del giorno 2.22.119 rimase a dietro, e la quinta era al temo, 2.22.120 drizzando pur in sù l' ardente corno, 2.22.121 quando il mio duca: «Io credo ch' a lo stremo 2.22.122 le destre spalle volger ne convegna, 2.22.123 girando il monte come far solemo». 2.22.124 Così l' usanza fu lì nostra insegna, 2.22.125 e prendemmo la via con men sospetto 2.22.126 per l' assentir di quell' anima degna. 2.22.127 Elli givan dinanzi, e io soletto 2.22.128 di retro, e ascoltava i lor sermoni, 2.22.129 ch' a poetar mi davano intelletto. 2.22.130 Ma tosto ruppe le dolci ragioni 2.22.131 un alber che trovammo in mezza strada, 2.22.132 con pomi a odorar soavi e buoni; 2.22.133 e come abete in alto si digrada 2.22.134 di ramo in ramo, così quello in giuso, 2.22.135 cred' io, perché persona sù non vada. 2.22.136 Dal lato onde 'l cammin nostro era chiuso, 2.22.137 cadea de l' alta roccia un liquor chiaro 2.22.138 e si spandeva per le foglie suso. 2.22.139 Li due poeti a l' alber s' appressaro; 2.22.140 e una voce per entro le fronde 2.22.141 gridò: «Di questo cibo avrete caro». 2.22.142 Poi disse: «Più pensava Maria onde 2.22.143 fosser le nozze orrevoli e intere, 2.22.144 ch' a la sua bocca, ch' or per voi risponde. 2.22.145 E le Romane antiche, per lor bere, 2.22.146 contente furon d' acqua; e Danïello 2.22.147 dispregiò cibo e acquistò savere. 2.22.148 Lo secol primo, quant' oro fu bello, 2.22.149 fé savorose con fame le ghiande, 2.22.150 e nettare con sete ogne ruscello. 2.22.151 Mele e locuste furon le vivande 2.22.152 che nodriro il Batista nel diserto; 2.22.153 per ch' elli è glorïoso e tanto grande 2.22.154 quanto per lo Vangelio v' è aperto».
CANTO XXIII
2.23.1 Mentre che li occhi per la fronda verde 2.23.2 ficcava ïo sì come far suole 2.23.3 chi dietro a li uccellin sua vita perde, 2.23.4 lo più che padre mi dicea: «Figliuole, 2.23.5 vienne oramai, ché 'l tempo che n' è imposto 2.23.6 più utilmente compartir si vuole». 2.23.7 Io volsi 'l viso, e 'l passo non men tosto, 2.23.8 appresso i savi, che parlavan sìe, 2.23.9 che l' andar mi facean di nullo costo. 2.23.10 Ed ecco piangere e cantar s' udìe 2.23.11 "Labïa mëa, Domine"per modo 2.23.12 tal, che diletto e doglia parturìe. 2.23.13 «O dolce padre, che è quel ch' i' odo?», 2.23.14 comincia' io; ed elli: «Ombre che vanno 2.23.15 forse di lor dover solvendo il nodo». 2.23.16 Sì come i peregrin pensosi fanno, 2.23.17 giugnendo per cammin gente non nota, 2.23.18 che si volgono ad essa e non restanno, 2.23.19 così di retro a noi, più tosto mota, 2.23.20 venendo e trapassando ci ammirava 2.23.21 d' anime turba tacita e devota. 2.23.22 Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, 2.23.23 palida ne la faccia, e tanto scema 2.23.24 che da l' ossa la pelle s' informava. 2.23.25 Non credo che così a buccia strema 2.23.26 Erisittone fosse fatto secco, 2.23.27 per digiunar, quando più n' ebbe tema. 2.23.28 Io dicea fra me stesso pensando: "Ecco 2.23.29 la gente che perdé Ierusalemme, 2.23.30 quando Maria nel figlio diè di becco!". 2.23.31 Parean l' occhiaie anella sanza gemme: 2.23.32 chi nel viso de li uomini legge "omo" 2.23.33 ben avria quivi conosciuta l' emme. 2.23.34 Chi crederebbe che l' odor d' un pomo 2.23.35 sì governasse, generando brama, 2.23.36 e quel d' un' acqua, non sappiendo como? 2.23.37 Già era in ammirar che sì li affama, 2.23.38 per la cagione ancor non manifesta 2.23.39 di lor magrezza e di lor trista squama, 2.23.40 ed ecco del profondo de la testa 2.23.41 volse a me li occhi un' ombra e guardò fiso; 2.23.42 poi gridò forte: «Qual grazia m' è questa?». 2.23.43 Mai non l' avrei riconosciuto al viso; 2.23.44 ma ne la voce sua mi fu palese 2.23.45 ciò che l' aspetto in sé avea conquiso. 2.23.46 Questa favilla tutta mi raccese 2.23.47 mia conoscenza a la cangiata labbia, 2.23.48 e ravvisai la faccia di Forese. 2.23.49 «Deh, non contendere a l' asciutta scabbia 2.23.50 che mi scolora», pregava, «la pelle, 2.23.51 né a difetto di carne ch' io abbia; 2.23.52 ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle 2.23.53 due anime che là ti fanno scorta; 2.23.54 non rimaner che tu non mi favelle!». 2.23.55 «La faccia tua, ch' io lagrimai già morta, 2.23.56 mi dà di pianger mo non minor doglia», 2.23.57 rispuos' io lui, «veggendola sì torta. 2.23.58 Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia; 2.23.59 non mi far dir mentr' io mi maraviglio, 2.23.60 ché mal può dir chi è pien d' altra voglia». 2.23.61 Ed elli a me: «De l' etterno consiglio 2.23.62 cade vertù ne l' acqua e ne la pianta 2.23.63 rimasa dietro, ond' io sì m' assottiglio. 2.23.64 Tutta esta gente che piangendo canta 2.23.65 per seguitar la gola oltra misura, 2.23.66 in fame e 'n sete qui si rifà santa. 2.23.67 Di bere e di mangiar n' accende cura 2.23.68 l' odor ch' esce del pomo e de lo sprazzo 2.23.69 che si distende su per sua verdura. 2.23.70 E non pur una volta, questo spazzo 2.23.71 girando, si rinfresca nostra pena: 2.23.72 io dico pena, e dovria dir sollazzo, 2.23.73 ché quella voglia a li alberi ci mena 2.23.74 che menò Cristo lieto a dire "Elì", 2.23.75 quando ne liberò con la sua vena». 2.23.76 E io a lui: «Forese, da quel dì 2.23.77 nel qual mutasti mondo a miglior vita, 2.23.78 cinqu' anni non son vòlti infino a qui. 2.23.79 Se prima fu la possa in te finita 2.23.80 di peccar più, che sovvenisse l' ora 2.23.81 del buon dolor ch' a Dio ne rimarita, 2.23.82 come se' tu qua sù venuto ancora? 2.23.83 Io ti credea trovar là giù di sotto, 2.23.84 dove tempo per tempo si ristora». 2.23.85 Ond' elli a me: «Sì tosto m' ha condotto 2.23.86 a ber lo dolce assenzo d' i martìri 2.23.87 la Nella mia con suo pianger dirotto. 2.23.88 Con suoi prieghi devoti e con sospiri 2.23.89 tratto m' ha de la costa ove s' aspetta, 2.23.90 e liberato m' ha de li altri giri. 2.23.91 Tanto è a Dio più cara e più diletta 2.23.92 la vedovella mia, che molto amai, 2.23.93 quanto in bene operare è più soletta; 2.23.94 ché la Barbagia di Sardigna assai 2.23.95 ne le femmine sue più è pudica 2.23.96 che la Barbagia dov' io la lasciai. 2.23.97 O dolce frate, che vuo' tu ch' io dica? 2.23.98 Tempo futuro m' è già nel cospetto, 2.23.99 cui non sarà quest' ora molto antica, 2.23.100 nel qual sarà in pergamo interdetto 2.23.101 a le sfacciate donne fiorentine 2.23.102 l' andar mostrando con le poppe il petto. 2.23.103 Quai barbare fuor mai, quai saracine, 2.23.104 cui bisognasse, per farle ir coperte, 2.23.105 o spiritali o altre discipline? 2.23.106 Ma se le svergognate fosser certe 2.23.107 di quel che 'l ciel veloce loro ammanna, 2.23.108 già per urlare avrian le bocche aperte; 2.23.109 ché, se l' antiveder qui non m' inganna, 2.23.110 prima fien triste che le guance impeli 2.23.111 colui che mo si consola con nanna. 2.23.112 Deh, frate, or fa che più non mi ti celi! 2.23.113 vedi che non pur io, ma questa gente 2.23.114 tutta rimira là dove 'l sol veli». 2.23.115 Per ch' io a lui: «Se tu riduci a mente 2.23.116 qual fosti meco, e qual io teco fui, 2.23.117 ancor fia grave il memorar presente. 2.23.118 Di quella vita mi volse costui 2.23.119 che mi va innanzi, l' altr' ier, quando tonda 2.23.120 vi si mostrò la suora di colui», 2.23.121 e 'l sol mostrai; «costui per la profonda 2.23.122 notte menato m' ha d' i veri morti 2.23.123 con questa vera carne che 'l seconda. 2.23.124 Indi m' han tratto sù li suoi conforti, 2.23.125 salendo e rigirando la montagna 2.23.126 che drizza voi che 'l mondo fece torti. 2.23.127 Tanto dice di farmi sua compagna 2.23.128 che io sarò là dove fia Beatrice; 2.23.129 quivi convien che sanza lui rimagna. 2.23.130 Virgilio è questi che così mi dice», 2.23.131 e addita'lo; «e quest' altro è quell' ombra 2.23.132 per cüi scosse dianzi ogne pendice 2.23.133 lo vostro regno, che da sé lo sgombra».
CANTO XXIV
2.24.1 Né 'l dir l' andar, né l' andar lui più lento 2.24.2 facea, ma ragionando andavam forte, 2.24.3 sì come nave pinta da buon vento; 2.24.4 e l' ombre, che parean cose rimorte, 2.24.5 per le fosse de li occhi ammirazione 2.24.6 traean di me, di mio vivere accorte. 2.24.7 E io, continüando al mio sermone, 2.24.8 dissi: «Ella sen va sù forse più tarda 2.24.9 che non farebbe, per altrui cagione. 2.24.10 Ma dimmi, se tu sai, dov' è Piccarda; 2.24.11 dimmi s' io veggio da notar persona 2.24.12 tra questa gente che sì mi riguarda». 2.24.13 «La mia sorella, che tra bella e buona 2.24.14 non so qual fosse più, trïunfa lieta 2.24.15 ne l' alto Olimpo già di sua corona». 2.24.16 Sì disse prima; e poi: «Qui non si vieta 2.24.17 di nominar ciascun, da ch' è sì munta 2.24.18 nostra sembianza via per la dïeta. 2.24.19 Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta, 2.24.20 Bonagiunta da Lucca; e quella faccia 2.24.21 di là da lui più che l' altre trapunta 2.24.22 ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: 2.24.23 dal Torso fu, e purga per digiuno 2.24.24 l' anguille di Bolsena e la vernaccia». 2.24.25 Molti altri mi nomò ad uno ad uno; 2.24.26 e del nomar parean tutti contenti, 2.24.27 sì ch' io però non vidi un atto bruno. 2.24.28 Vidi per fame a vòto usar li denti 2.24.29 Ubaldin da la Pila e Bonifazio 2.24.30 che pasturò col rocco molte genti. 2.24.31 Vidi messer Marchese, ch' ebbe spazio 2.24.32 già di bere a Forlì con men secchezza, 2.24.33 e sì fu tal, che non si sentì sazio. 2.24.34 Ma come fa chi guarda e poi s' apprezza 2.24.35 più d' un che d' altro, fei a quel da Lucca, 2.24.36 che più parea di me aver contezza. 2.24.37 El mormorava; e non so che «Gentucca» 2.24.38 sentiv' io là, ov' el sentia la piaga 2.24.39 de la giustizia che sì li pilucca. 2.24.40 «O anima», diss' io, «che par sì vaga 2.24.41 di parlar meco, fa sì ch' io t' intenda, 2.24.42 e te e me col tuo parlare appaga». 2.24.43 «Femmina è nata, e non porta ancor benda», 2.24.44 cominciò el, «che ti farà piacere 2.24.45 la mia città, come ch' om la riprenda. 2.24.46 Tu te n' andrai con questo antivedere: 2.24.47 se nel mio mormorar prendesti errore, 2.24.48 dichiareranti ancor le cose vere. 2.24.49 Ma dì s' i' veggio qui colui che fore 2.24.50 trasse le nove rime, cominciando 2.24.51 "Donne ch' avete intelletto d' amore"». 2.24.52 E io a lui: «I' mi son un che, quando 2.24.53 Amor mi spira, noto, e a quel modo 2.24.54 ch' e' ditta dentro vo significando». 2.24.55 «O frate, issa vegg' io», diss' elli, «il nodo 2.24.56 che 'l Notaro e Guittone e me ritenne 2.24.57 di qua dal dolce stil novo ch' i' odo! 2.24.58 Io veggio ben come le vostre penne 2.24.59 di retro al dittator sen vanno strette, 2.24.60 che de le nostre certo non avvenne; 2.24.61 e qual più a gradire oltre si mette, 2.24.62 non vede più da l' uno a l' altro stilo»; 2.24.63 e, quasi contentato, si tacette. 2.24.64 Come li augei che vernan lungo 'l Nilo, 2.24.65 alcuna volta in aere fanno schiera, 2.24.66 poi volan più a fretta e vanno in filo, 2.24.67 così tutta la gente che lì era, 2.24.68 volgendo 'l viso, raffrettò suo passo, 2.24.69 e per magrezza e per voler leggera. 2.24.70 E come l' uom che di trottare è lasso, 2.24.71 lascia andar li compagni, e sì passeggia 2.24.72 fin che si sfoghi l' affollar del casso, 2.24.73 sì lasciò trapassar la santa greggia 2.24.74 Forese, e dietro meco sen veniva, 2.24.75 dicendo: «Quando fia ch' io ti riveggia?». 2.24.76 «Non so», rispuos' io lui, «quant' io mi viva; 2.24.77 ma già non fïa il tornar mio tantosto, 2.24.78 ch' io non sia col voler prima a la riva; 2.24.79 però che 'l loco u' fui a viver posto, 2.24.80 di giorno in giorno più di ben si spolpa, 2.24.81 e a trista ruina par disposto». 2.24.82 «Or va», diss' el; «che quei che più n' ha colpa, 2.24.83 vegg' ïo a coda d' una bestia tratto 2.24.84 inver' la valle ove mai non si scolpa. 2.24.85 La bestia ad ogne passo va più ratto, 2.24.86 crescendo sempre, fin ch' ella il percuote, 2.24.87 e lascia il corpo vilmente disfatto. 2.24.88 Non hanno molto a volger quelle ruote», 2.24.89 e drizzò li occhi al ciel, «che ti fia chiaro 2.24.90 ciò che 'l mio dir più dichiarar non puote. 2.24.91 Tu ti rimani omai; ché 'l tempo è caro 2.24.92 in questo regno, sì ch' io perdo troppo 2.24.93 venendo teco sì a paro a paro». 2.24.94 Qual esce alcuna volta di gualoppo 2.24.95 lo cavalier di schiera che cavalchi, 2.24.96 e va per farsi onor del primo intoppo, 2.24.97 tal si partì da noi con maggior valchi; 2.24.98 e io rimasi in via con esso i due 2.24.99 che fuor del mondo sì gran marescalchi. 2.24.100 E quando innanzi a noi intrato fue, 2.24.101 che li occhi miei si fero a lui seguaci, 2.24.102 come la mente a le parole sue, 2.24.103 parvermi i rami gravidi e vivaci 2.24.104 d' un altro pomo, e non molto lontani 2.24.105 per esser pur allora vòlto in laci. 2.24.106 Vidi gente sott' esso alzar le mani 2.24.107 e gridar non so che verso le fronde, 2.24.108 quasi bramosi fantolini e vani 2.24.109 che pregano, e 'l pregato non risponde, 2.24.110 ma, per fare esser ben la voglia acuta, 2.24.111 tien alto lor disio e nol nasconde. 2.24.112 Poi si partì sì come ricreduta; 2.24.113 e noi venimmo al grande arbore adesso, 2.24.114 che tanti prieghi e lagrime rifiuta. 2.24.115 «Trapassate oltre sanza farvi presso: 2.24.116 legno è più sù che fu morso da Eva, 2.24.117 e questa pianta si levò da esso». 2.24.118 Sì tra le frasche non so chi diceva; 2.24.119 per che Virgilio e Stazio e io, ristretti, 2.24.120 oltre andavam dal lato che si leva. 2.24.121 «Ricordivi», dicea, «d' i maladetti 2.24.122 nei nuvoli formati, che, satolli, 2.24.123 Tesëo combatter co' doppi petti; 2.24.124 e de li Ebrei ch' al ber si mostrar molli, 2.24.125 per che no i volle Gedeon compagni, 2.24.126 quando inver' Madïan discese i colli». 2.24.127 Sì accostati a l' un d' i due vivagni 2.24.128 passammo, udendo colpe de la gola 2.24.129 seguite già da miseri guadagni. 2.24.130 Poi, rallargati per la strada sola, 2.24.131 ben mille passi e più ci portar oltre, 2.24.132 contemplando ciascun sanza parola. 2.24.133 «Che andate pensando sì voi sol tre?», 2.24.134 sùbita voce disse; ond' io mi scossi 2.24.135 come fan bestie spaventate e poltre. 2.24.136 Drizzai la testa per veder chi fossi; 2.24.137 e già mai non si videro in fornace 2.24.138 vetri o metalli sì lucenti e rossi, 2.24.139 com' io vidi un che dicea: «S' a voi piace 2.24.140 montare in sù, qui si convien dar volta; 2.24.141 quinci si va chi vuole andar per pace». 2.24.142 L' aspetto suo m' avea la vista tolta; 2.24.143 per ch' io mi volsi dietro a' miei dottori, 2.24.144 com' om che va secondo ch' elli ascolta. 2.24.145 E quale, annunziatrice de li albori, 2.24.146 l' aura di maggio movesi e olezza, 2.24.147 tutta impregnata da l' erba e da' fiori; 2.24.148 tal mi senti' un vento dar per mezza 2.24.149 la fronte, e ben senti' mover la piuma, 2.24.150 che fé sentir d' ambrosïa l' orezza. 2.24.151 E senti' dir: «Beati cui alluma 2.24.152 tanto di grazia, che l' amor del gusto 2.24.153 nel petto lor troppo disir non fuma, 2.24.154 esurïendo sempre quanto è giusto!».
CANTO XXV
2.25.1 Ora era onde 'l salir non volea storpio; 2.25.2 ché 'l sole avëa il cerchio di merigge 2.25.3 lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio: 2.25.4 per che, come fa l' uom che non s' affigge 2.25.5 ma vassi a la via sua, che che li appaia, 2.25.6 se di bisogno stimolo il trafigge, 2.25.7 così intrammo noi per la callaia, 2.25.8 uno innanzi altro prendendo la scala 2.25.9 che per artezza i salitor dispaia. 2.25.10 E quale il cicognin che leva l' ala 2.25.11 per voglia di volare, e non s' attenta 2.25.12 d' abbandonar lo nido, e giù la cala; 2.25.13 tal era io con voglia accesa e spenta 2.25.14 di dimandar, venendo infino a l' atto 2.25.15 che fa colui ch' a dicer s' argomenta. 2.25.16 Non lasciò, per l' andar che fosse ratto, 2.25.17 lo dolce padre mio, ma disse: «Scocca 2.25.18 l' arco del dir, che 'nfino al ferro hai tratto». 2.25.19 Allor sicuramente apri' la bocca 2.25.20 e cominciai: «Come si può far magro 2.25.21 là dove l' uopo di nodrir non tocca?». 2.25.22 «Se t' ammentassi come Meleagro 2.25.23 si consumò al consumar d' un stizzo, 2.25.24 non fora», disse, «a te questo sì agro; 2.25.25 e se pensassi come, al vostro guizzo, 2.25.26 guizza dentro a lo specchio vostra image, 2.25.27 ciò che par duro ti parrebbe vizzo. 2.25.28 Ma perché dentro a tuo voler t' adage, 2.25.29 ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego 2.25.30 che sia or sanator de le tue piage». 2.25.31 «Se la veduta etterna li dislego», 2.25.32 rispuose Stazio, «là dove tu sie, 2.25.33 discolpi me non potert' io far nego». 2.25.34 Poi cominciò: «Se le parole mie, 2.25.35 figlio, la mente tua guarda e riceve, 2.25.36 lume ti fiero al come che tu die. 2.25.37 Sangue perfetto, che poi non si beve 2.25.38 da l' assetate vene, e si rimane 2.25.39 quasi alimento che di mensa leve, 2.25.40 prende nel core a tutte membra umane 2.25.41 virtute informativa, come quello 2.25.42 ch' a farsi quelle per le vene vane. 2.25.43 Ancor digesto, scende ov' è più bello 2.25.44 tacer che dire; e quindi poscia geme 2.25.45 sovr' altrui sangue in natural vasello. 2.25.46 Ivi s' accoglie l' uno e l' altro insieme, 2.25.47 l' un disposto a patire, e l' altro a fare 2.25.48 per lo perfetto loco onde si preme; 2.25.49 e, giunto lui, comincia ad operare 2.25.50 coagulando prima, e poi avviva 2.25.51 ciò che per sua matera fé constare. 2.25.52 Anima fatta la virtute attiva 2.25.53 qual d' una pianta, in tanto differente, 2.25.54 che questa è in via e quella è già a riva, 2.25.55 tanto ovra poi, che già si move e sente, 2.25.56 come spungo marino; e indi imprende 2.25.57 ad organar le posse ond' è semente. 2.25.58 Or si spiega, figliuolo, or si distende 2.25.59 la virtù ch' è dal cor del generante, 2.25.60 dove natura a tutte membra intende. 2.25.61 Ma come d' animal divegna fante, 2.25.62 non vedi tu ancor: quest' è tal punto, 2.25.63 che più savio di te fé già errante, 2.25.64 sì che per sua dottrina fé disgiunto 2.25.65 da l' anima il possibile intelletto, 2.25.66 perché da lui non vide organo assunto. 2.25.67 Apri a la verità che viene il petto; 2.25.68 e sappi che, sì tosto come al feto 2.25.69 l' articular del cerebro è perfetto, 2.25.70 lo motor primo a lui si volge lieto 2.25.71 sovra tant' arte di natura, e spira 2.25.72 spirito novo, di vertù repleto, 2.25.73 che ciò che trova attivo quivi, tira 2.25.74 in sua sustanzia, e fassi un' alma sola, 2.25.75 che vive e sente e sé in sé rigira. 2.25.76 E perché meno ammiri la parola, 2.25.77 guarda il calor del sol che si fa vino, 2.25.78 giunto a l' omor che de la vite cola. 2.25.79 Quando Làchesis non ha più del lino, 2.25.80 solvesi da la carne, e in virtute 2.25.81 ne porta seco e l' umano e 'l divino: 2.25.82 l' altre potenze tutte quante mute; 2.25.83 memoria, intelligenza e volontade 2.25.84 in atto molto più che prima agute. 2.25.85 Sanza restarsi, per sé stessa cade 2.25.86 mirabilmente a l' una de le rive; 2.25.87 quivi conosce prima le sue strade. 2.25.88 Tosto che loco lì la circunscrive, 2.25.89 la virtù formativa raggia intorno 2.25.90 così e quanto ne le membra vive. 2.25.91 E come l' aere, quand' è ben pïorno, 2.25.92 per l' altrui raggio che 'n sé si reflette, 2.25.93 di diversi color diventa addorno; 2.25.94 così l' aere vicin quivi si mette 2.25.95 e in quella forma ch' è in lui suggella 2.25.96 virtüalmente l' alma che ristette; 2.25.97 e simigliante poi a la fiammella 2.25.98 che segue il foco là 'vunque si muta, 2.25.99 segue lo spirto sua forma novella. 2.25.100 Però che quindi ha poscia sua paruta, 2.25.101 è chiamata ombra; e quindi organa poi 2.25.102 ciascun sentire infino a la veduta. 2.25.103 Quindi parliamo e quindi ridiam noi; 2.25.104 quindi facciam le lagrime e ' sospiri 2.25.105 che per lo monte aver sentiti puoi. 2.25.106 Secondo che ci affliggono i disiri 2.25.107 e li altri affetti, l' ombra si figura; 2.25.108 e quest' è la cagion di che tu miri». 2.25.109 E già venuto a l' ultima tortura 2.25.110 s' era per noi, e vòlto a la man destra, 2.25.111 ed eravamo attenti ad altra cura. 2.25.112 Quivi la ripa fiamma in fuor balestra, 2.25.113 e la cornice spira fiato in suso 2.25.114 che la reflette e via da lei sequestra; 2.25.115 ond' ir ne convenia dal lato schiuso 2.25.116 ad uno ad uno; e io temëa 'l foco 2.25.117 quinci, e quindi temeva cader giuso. 2.25.118 Lo duca mio dicea: «Per questo loco 2.25.119 si vuol tenere a li occhi stretto il freno, 2.25.120 però ch' errar potrebbesi per poco». 2.25.121 "Summae Deus clementïae"nel seno 2.25.122 al grande ardore allora udi' cantando, 2.25.123 che di volger mi fé caler non meno; 2.25.124 e vidi spirti per la fiamma andando; 2.25.125 per ch' io guardava a loro e a' miei passi, 2.25.126 compartendo la vista a quando a quando. 2.25.127 Appresso il fine ch' a quell' inno fassi, 2.25.128 gridavano alto: "Virum non cognosco"; 2.25.129 indi ricominciavan l' inno bassi. 2.25.130 Finitolo, anco gridavano: «Al bosco 2.25.131 si tenne Diana, ed Elice caccionne 2.25.132 che di Venere avea sentito il tòsco». 2.25.133 Indi al cantar tornavano; indi donne 2.25.134 gridavano e mariti che fuor casti 2.25.135 come virtute e matrimonio imponne. 2.25.136 E questo modo credo che lor basti 2.25.137 per tutto il tempo che 'l foco li abbruscia: 2.25.138 con tal cura conviene e con tai pasti 2.25.139 che la piaga da sezzo si ricuscia.
CANTO XXVI
2.26.1 Mentre che sì per l' orlo, uno innanzi altro, 2.26.2 ce n' andavamo, e spesso il buon maestro 2.26.3 diceami: «Guarda: giovi ch' io ti scaltro»; 2.26.4 feriami il sole in su l' omero destro, 2.26.5 che già, raggiando, tutto l' occidente 2.26.6 mutava in bianco aspetto di cilestro; 2.26.7 e io facea con l' ombra più rovente 2.26.8 parer la fiamma; e pur a tanto indizio 2.26.9 vidi molt' ombre, andando, poner mente. 2.26.10 Questa fu la cagion che diede inizio 2.26.11 loro a parlar di me; e cominciarsi 2.26.12 a dir: «Colui non par corpo fittizio»; 2.26.13 poi verso me, quanto potëan farsi, 2.26.14 certi si fero, sempre con riguardo 2.26.15 di non uscir dove non fosser arsi. 2.26.16 «O tu che vai, non per esser più tardo, 2.26.17 ma forse reverente, a li altri dopo, 2.26.18 rispondi a me che 'n sete e 'n foco ardo. 2.26.19 Né solo a me la tua risposta è uopo; 2.26.20 ché tutti questi n' hanno maggior sete 2.26.21 che d' acqua fredda Indo o Etïopo. 2.26.22 Dinne com' è che fai di te parete 2.26.23 al sol, pur come tu non fossi ancora 2.26.24 di morte intrato dentro da la rete». 2.26.25 Sì mi parlava un d' essi; e io mi fora 2.26.26 già manifesto, s' io non fossi atteso 2.26.27 ad altra novità ch' apparve allora; 2.26.28 ché per lo mezzo del cammino acceso 2.26.29 venne gente col viso incontro a questa, 2.26.30 la qual mi fece a rimirar sospeso. 2.26.31 Lì veggio d' ogne parte farsi presta 2.26.32 ciascun' ombra e basciarsi una con una 2.26.33 sanza restar, contente a brieve festa; 2.26.34 così per entro loro schiera bruna 2.26.35 s' ammusa l' una con l' altra formica, 2.26.36 forse a spïar lor via e lor fortuna. 2.26.37 Tosto che parton l' accoglienza amica, 2.26.38 prima che 'l primo passo lì trascorra, 2.26.39 sopragridar ciascuna s' affatica: 2.26.40 la nova gente: «Soddoma e Gomorra»; 2.26.41 e l' altra: «Ne la vacca entra Pasife, 2.26.42 perché 'l torello a sua lussuria corra». 2.26.43 Poi, come grue ch' a le montagne Rife 2.26.44 volasser parte, e parte inver' l' arene, 2.26.45 queste del gel, quelle del sole schife, 2.26.46 l' una gente sen va, l' altra sen vene; 2.26.47 e tornan, lagrimando, a' primi canti 2.26.48 e al gridar che più lor si convene; 2.26.49 e raccostansi a me, come davanti, 2.26.50 essi medesmi che m' avean pregato, 2.26.51 attenti ad ascoltar ne' lor sembianti. 2.26.52 Io, che due volte avea visto lor grato, 2.26.53 incominciai: «O anime sicure 2.26.54 d' aver, quando che sia, di pace stato, 2.26.55 non son rimase acerbe né mature 2.26.56 le membra mie di là, ma son qui meco 2.26.57 col sangue suo e con le sue giunture. 2.26.58 Quinci sù vo per non esser più cieco; 2.26.59 donna è di sopra che m' acquista grazia, 2.26.60 per che 'l mortal per vostro mondo reco. 2.26.61 Ma se la vostra maggior voglia sazia 2.26.62 tosto divegna, sì che 'l ciel v' alberghi 2.26.63 ch' è pien d' amore e più ampio si spazia, 2.26.64 ditemi, acciò ch' ancor carte ne verghi, 2.26.65 chi siete voi, e chi è quella turba 2.26.66 che se ne va di retro a' vostri terghi». 2.26.67 Non altrimenti stupido si turba 2.26.68 lo montanaro, e rimirando ammuta, 2.26.69 quando rozzo e salvatico s' inurba, 2.26.70 che ciascun' ombra fece in sua paruta; 2.26.71 ma poi che furon di stupore scarche, 2.26.72 lo qual ne li alti cuor tosto s' attuta, 2.26.73 «Beato te, che de le nostre marche», 2.26.74 ricominciò colei che pria m' inchiese, 2.26.75 «per morir meglio, esperïenza imbarche! 2.26.76 La gente che non vien con noi, offese 2.26.77 di ciò per che già Cesar, trïunfando, 2.26.78 "Regina"contra sé chiamar s' intese: 2.26.79 però si parton "Soddoma"gridando, 2.26.80 rimproverando a sé com' hai udito, 2.26.81 e aiutan l' arsura vergognando. 2.26.82 Nostro peccato fu ermafrodito; 2.26.83 ma perché non servammo umana legge, 2.26.84 seguendo come bestie l' appetito, 2.26.85 in obbrobrio di noi, per noi si legge, 2.26.86 quando partinci, il nome di colei 2.26.87 che s' imbestiò ne le 'mbestiate schegge. 2.26.88 Or sai nostri atti e di che fummo rei: 2.26.89 se forse a nome vuo' saper chi semo, 2.26.90 tempo non è di dire, e non saprei. 2.26.91 Farotti ben di me volere scemo: 2.26.92 son Guido Guinizzelli, e già mi purgo 2.26.93 per ben dolermi prima ch' a lo stremo». 2.26.94 Quali ne la tristizia di Ligurgo 2.26.95 si fer due figli a riveder la madre, 2.26.96 tal mi fec' io, ma non a tanto insurgo, 2.26.97 quand' io odo nomar sé stesso il padre 2.26.98 mio e de li altri miei miglior che mai 2.26.99 rime d' amor usar dolci e leggiadre; 2.26.100 e sanza udire e dir pensoso andai 2.26.101 lunga fïata rimirando lui, 2.26.102 né, per lo foco, in là più m' appressai. 2.26.103 Poi che di riguardar pasciuto fui, 2.26.104 tutto m' offersi pronto al suo servigio 2.26.105 con l' affermar che fa credere altrui. 2.26.106 Ed elli a me: «Tu lasci tal vestigio, 2.26.107 per quel ch' i' odo, in me, e tanto chiaro, 2.26.108 che Letè nol può tòrre né far bigio. 2.26.109 Ma se le tue parole or ver giuraro, 2.26.110 dimmi che è cagion per che dimostri 2.26.111 nel dire e nel guardar d' avermi caro». 2.26.112 E io a lui: «Li dolci detti vostri, 2.26.113 che, quanto durerà l' uso moderno, 2.26.114 faranno cari ancora i loro incostri». 2.26.115 «O frate», disse, «questi ch' io ti cerno 2.26.116 col dito», e additò un spirto innanzi, 2.26.117 «fu miglior fabbro del parlar materno. 2.26.118 Versi d' amore e prose di romanzi 2.26.119 soverchiò tutti; e lascia dir li stolti 2.26.120 che quel di Lemosì credon ch' avanzi. 2.26.121 A voce più ch' al ver drizzan li volti, 2.26.122 e così ferman sua oppinïone 2.26.123 prima ch' arte o ragion per lor s' ascolti. 2.26.124 Così fer molti antichi di Guittone, 2.26.125 di grido in grido pur lui dando pregio, 2.26.126 fin che l' ha vinto il ver con più persone. 2.26.127 Or se tu hai sì ampio privilegio, 2.26.128 che licito ti sia l' andare al chiostro 2.26.129 nel quale è Cristo abate del collegio, 2.26.130 falli per me un dir d' un paternostro, 2.26.131 quanto bisogna a noi di questo mondo, 2.26.132 dove poter peccar non è più nostro». 2.26.133 Poi, forse per dar luogo altrui secondo 2.26.134 che presso avea, disparve per lo foco, 2.26.135 come per l' acqua il pesce andando al fondo. 2.26.136 Io mi fei al mostrato innanzi un poco, 2.26.137 e dissi ch' al suo nome il mio disire 2.26.138 apparecchiava grazïoso loco. 2.26.139 El cominciò liberamente a dire: 2.26.140 «Tan m' abellis vostre cortes deman, 2.26.141 qu' ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. 2.26.142 Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; 2.26.143 consiros vei la passada folor, 2.26.144 e vei jausen lo joi qu' esper, denan. 2.26.145 Ara vos prec, per aquella valor 2.26.146 que vos guida al som de l' escalina, 2.26.147 sovenha vos a temps de ma dolor!». 2.26.148 Poi s' ascose nel foco che li affina.
CANTO XXVII
2.27.1 Sì come quando i primi raggi vibra 2.27.2 là dove il suo fattor lo sangue sparse, 2.27.3 cadendo Ibero sotto l' alta Libra, 2.27.4 e l' onde in Gange da nona rïarse, 2.27.5 sì stava il sole; onde 'l giorno sen giva, 2.27.6 come l' angel di Dio lieto ci apparse. 2.27.7 Fuor de la fiamma stava in su la riva, 2.27.8 e cantava "Beati mundo corde!" 2.27.9 in voce assai più che la nostra viva. 2.27.10 Poscia «Più non si va, se pria non morde, 2.27.11 anime sante, il foco: intrate in esso, 2.27.12 e al cantar di là non siate sorde», 2.27.13 ci disse come noi li fummo presso; 2.27.14 per ch' io divenni tal, quando lo 'ntesi, 2.27.15 qual è colui che ne la fossa è messo. 2.27.16 In su le man commesse mi protesi, 2.27.17 guardando il foco e imaginando forte 2.27.18 umani corpi già veduti accesi. 2.27.19 Volsersi verso me le buone scorte; 2.27.20 e Virgilio mi disse: «Figliuol mio, 2.27.21 qui può esser tormento, ma non morte. 2.27.22 Ricorditi, ricorditi! E se io 2.27.23 sovresso Gerïon ti guidai salvo, 2.27.24 che farò ora presso più a Dio? 2.27.25 Credi per certo che se dentro a l' alvo 2.27.26 di questa fiamma stessi ben mille anni, 2.27.27 non ti potrebbe far d' un capel calvo. 2.27.28 E se tu forse credi ch' io t' inganni, 2.27.29 fatti ver' lei, e fatti far credenza 2.27.30 con le tue mani al lembo d' i tuoi panni. 2.27.31 Pon giù omai, pon giù ogne temenza; 2.27.32 volgiti in qua e vieni: entra sicuro!». 2.27.33 E io pur fermo e contra coscïenza. 2.27.34 Quando mi vide star pur fermo e duro, 2.27.35 turbato un poco disse: «Or vedi, figlio: 2.27.36 tra Bëatrice e te è questo muro». 2.27.37 Come al nome di Tisbe aperse il ciglio 2.27.38 Piramo in su la morte, e riguardolla, 2.27.39 allor che 'l gelso diventò vermiglio; 2.27.40 così, la mia durezza fatta solla, 2.27.41 mi volsi al savio duca, udendo il nome 2.27.42 che ne la mente sempre mi rampolla. 2.27.43 Ond' ei crollò la fronte e disse: «Come! 2.27.44 volenci star di qua?»; indi sorrise 2.27.45 come al fanciul si fa ch' è vinto al pome. 2.27.46 Poi dentro al foco innanzi mi si mise, 2.27.47 pregando Stazio che venisse retro, 2.27.48 che pria per lunga strada ci divise. 2.27.49 Sì com' fui dentro, in un bogliente vetro 2.27.50 gittato mi sarei per rinfrescarmi, 2.27.51 tant' era ivi lo 'ncendio sanza metro. 2.27.52 Lo dolce padre mio, per confortarmi, 2.27.53 pur di Beatrice ragionando andava, 2.27.54 dicendo: «Li occhi suoi già veder parmi». 2.27.55 Guidavaci una voce che cantava 2.27.56 di là; e noi, attenti pur a lei, 2.27.57 venimmo fuor là ove si montava. 2.27.58 "Venite, benedicti Patris mei", 2.27.59 sonò dentro a un lume che lì era, 2.27.60 tal che mi vinse e guardar nol potei. 2.27.61 «Lo sol sen va», soggiunse, «e vien la sera; 2.27.62 non v' arrestate, ma studiate il passo, 2.27.63 mentre che l' occidente non si annera». 2.27.64 Dritta salia la via per entro 'l sasso 2.27.65 verso tal parte ch' io toglieva i raggi 2.27.66 dinanzi a me del sol ch' era già basso. 2.27.67 E di pochi scaglion levammo i saggi, 2.27.68 che 'l sol corcar, per l' ombra che si spense, 2.27.69 sentimmo dietro e io e li miei saggi. 2.27.70 E pria che 'n tutte le sue parti immense 2.27.71 fosse orizzonte fatto d' uno aspetto, 2.27.72 e notte avesse tutte sue dispense, 2.27.73 ciascun di noi d' un grado fece letto; 2.27.74 ché la natura del monte ci affranse 2.27.75 la possa del salir più e 'l diletto. 2.27.76 Quali si stanno ruminando manse 2.27.77 le capre, state rapide e proterve 2.27.78 sovra le cime avante che sien pranse, 2.27.79 tacite a l' ombra, mentre che 'l sol ferve, 2.27.80 guardate dal pastor, che 'n su la verga 2.27.81 poggiato s' è e lor di posa serve; 2.27.82 e quale il mandrïan che fori alberga, 2.27.83 lungo il pecuglio suo queto pernotta, 2.27.84 guardando perché fiera non lo sperga; 2.27.85 tali eravamo tutti e tre allotta, 2.27.86 io come capra, ed ei come pastori, 2.27.87 fasciati quinci e quindi d' alta grotta. 2.27.88 Poco parer potea lì del di fori; 2.27.89 ma, per quel poco, vedea io le stelle 2.27.90 di lor solere e più chiare e maggiori. 2.27.91 Sì ruminando e sì mirando in quelle, 2.27.92 mi prese il sonno; il sonno che sovente, 2.27.93 anzi che 'l fatto sia, sa le novelle. 2.27.94 Ne l' ora, credo, che de l' orïente 2.27.95 prima raggiò nel monte Citerea, 2.27.96 che di foco d' amor par sempre ardente, 2.27.97 giovane e bella in sogno mi parea 2.27.98 donna vedere andar per una landa 2.27.99 cogliendo fiori; e cantando dicea: 2.27.100 «Sappia qualunque il mio nome dimanda 2.27.101 ch' i' mi son Lia, e vo movendo intorno 2.27.102 le belle mani a farmi una ghirlanda. 2.27.103 Per piacermi a lo specchio, qui m' addorno; 2.27.104 ma mia suora Rachel mai non si smaga 2.27.105 dal suo miraglio, e siede tutto giorno. 2.27.106 Ell' è d' i suoi belli occhi veder vaga 2.27.107 com' io de l' addornarmi con le mani; 2.27.108 lei lo vedere, e me l' ovrare appaga». 2.27.109 E già per li splendori antelucani, 2.27.110 che tanto a' pellegrin surgon più grati, 2.27.111 quanto, tornando, albergan men lontani, 2.27.112 le tenebre fuggian da tutti lati, 2.27.113 e 'l sonno mio con esse; ond' io leva'mi, 2.27.114 veggendo i gran maestri già levati. 2.27.115 «Quel dolce pome che per tanti rami 2.27.116 cercando va la cura de' mortali, 2.27.117 oggi porrà in pace le tue fami». 2.27.118 Virgilio inverso me queste cotali 2.27.119 parole usò; e mai non furo strenne 2.27.120 che fosser di piacere a queste iguali. 2.27.121 Tanto voler sopra voler mi venne 2.27.122 de l' esser sù, ch' ad ogne passo poi 2.27.123 al volo mi sentia crescer le penne. 2.27.124 Come la scala tutta sotto noi 2.27.125 fu corsa e fummo in su 'l grado superno, 2.27.126 in me ficcò Virgilio li occhi suoi, 2.27.127 e disse: «Il temporal foco e l' etterno 2.27.128 veduto hai, figlio; e se' venuto in parte 2.27.129 dov' io per me più oltre non discerno. 2.27.130 Tratto t' ho qui con ingegno e con arte; 2.27.131 lo tuo piacere omai prendi per duce; 2.27.132 fuor se' de l' erte vie, fuor se' de l' arte. 2.27.133 Vedi lo sol che 'n fronte ti riluce; 2.27.134 vedi l' erbette, i fiori e li arbuscelli 2.27.135 che qui la terra sol da sé produce. 2.27.136 Mentre che vegnan lieti li occhi belli 2.27.137 che, lagrimando, a te venir mi fenno, 2.27.138 seder ti puoi e puoi andar tra elli. 2.27.139 Non aspettar mio dir più né mio cenno; 2.27.140 libero, dritto e sano è tuo arbitrio, 2.27.141 e fallo fora non fare a suo senno: 2.27.142 per ch' io te sovra te corono e mitrio».
CANTO XXVIII
2.28.1 Vago già di cercar dentro e dintorno 2.28.2 la divina foresta spessa e viva, 2.28.3 ch' a li occhi temperava il novo giorno, 2.28.4 sanza più aspettar, lasciai la riva, 2.28.5 prendendo la campagna lento lento 2.28.6 su per lo suol che d' ogne parte auliva. 2.28.7 Un' aura dolce, sanza mutamento 2.28.8 avere in sé, mi feria per la fronte 2.28.9 non di più colpo che soave vento; 2.28.10 per cui le fronde, tremolando, pronte 2.28.11 tutte quante piegavano a la parte 2.28.12 u' la prim' ombra gitta il santo monte; 2.28.13 non però dal loro esser dritto sparte 2.28.14 tanto, che li augelletti per le cime 2.28.15 lasciasser d' operare ogne lor arte; 2.28.16 ma con piena letizia l' ore prime, 2.28.17 cantando, ricevieno intra le foglie, 2.28.18 che tenevan bordone a le sue rime, 2.28.19 tal qual di ramo in ramo si raccoglie 2.28.20 per la pineta in su 'l lito di Chiassi, 2.28.21 quand' Ëolo scilocco fuor discioglie. 2.28.22 Già m' avean trasportato i lenti passi 2.28.23 dentro a la selva antica tanto, ch' io 2.28.24 non potea rivedere ond' io mi 'ntrassi; 2.28.25 ed ecco più andar mi tolse un rio, 2.28.26 che 'nver' sinistra con sue picciole onde 2.28.27 piegava l' erba che 'n sua ripa uscìo. 2.28.28 Tutte l' acque che son di qua più monde, 2.28.29 parrieno avere in sé mistura alcuna 2.28.30 verso di quella, che nulla nasconde, 2.28.31 avvegna che si mova bruna bruna 2.28.32 sotto l' ombra perpetüa, che mai 2.28.33 raggiar non lascia sole ivi né luna. 2.28.34 Coi piè ristetti e con li occhi passai 2.28.35 di là dal fiumicello, per mirare 2.28.36 la gran varïazion d' i freschi mai; 2.28.37 e là m' apparve, sì com' elli appare 2.28.38 subitamente cosa che disvia 2.28.39 per maraviglia tutto altro pensare, 2.28.40 una donna soletta che si gia 2.28.41 e cantando e scegliendo fior da fiore 2.28.42 ond' era pinta tutta la sua via. 2.28.43 «Deh, bella donna, che a' raggi d' amore 2.28.44 ti scaldi, s' i' vo' credere a' sembianti 2.28.45 che soglion esser testimon del core, 2.28.46 vegnati in voglia di trarreti avanti», 2.28.47 diss' io a lei, «verso questa rivera, 2.28.48 tanto ch' io possa intender che tu canti. 2.28.49 Tu mi fai rimembrar dove e qual era 2.28.50 Proserpina nel tempo che perdette 2.28.51 la madre lei, ed ella primavera». 2.28.52 Come si volge, con le piante strette 2.28.53 a terra e intra sé, donna che balli, 2.28.54 e piede innanzi piede a pena mette, 2.28.55 volsesi in su i vermigli e in su i gialli 2.28.56 fioretti verso me, non altrimenti 2.28.57 che vergine che li occhi onesti avvalli; 2.28.58 e fece i prieghi miei esser contenti, 2.28.59 sì appressando sé, che 'l dolce suono 2.28.60 veniva a me co' suoi intendimenti. 2.28.61 Tosto che fu là dove l' erbe sono 2.28.62 bagnate già da l' onde del bel fiume, 2.28.63 di levar li occhi suoi mi fece dono. 2.28.64 Non credo che splendesse tanto lume 2.28.65 sotto le ciglia a Venere, trafitta 2.28.66 dal figlio fuor di tutto suo costume. 2.28.67 Ella ridea da l' altra riva dritta, 2.28.68 trattando più color con le sue mani, 2.28.69 che l' alta terra sanza seme gitta. 2.28.70 Tre passi ci facea il fiume lontani; 2.28.71 ma Elesponto, là 've passò Serse, 2.28.72 ancora freno a tutti orgogli umani, 2.28.73 più odio da Leandro non sofferse 2.28.74 per mareggiare intra Sesto e Abido, 2.28.75 che quel da me perch' allor non s' aperse. 2.28.76 «Voi siete nuovi, e forse perch' io rido», 2.28.77 cominciò ella, «in questo luogo eletto 2.28.78 a l' umana natura per suo nido, 2.28.79 maravigliando tienvi alcun sospetto; 2.28.80 ma luce rende il salmo Delectasti, 2.28.81 che puote disnebbiar vostro intelletto. 2.28.82 E tu che se' dinanzi e mi pregasti, 2.28.83 dì s' altro vuoli udir; ch' i' venni presta 2.28.84 ad ogne tua question tanto che basti». 2.28.85 «L' acqua», diss' io, «e 'l suon de la foresta 2.28.86 impugnan dentro a me novella fede 2.28.87 di cosa ch' io udi' contraria a questa». 2.28.88 Ond' ella: «Io dicerò come procede 2.28.89 per sua cagion ciò ch' ammirar ti face, 2.28.90 e purgherò la nebbia che ti fiede. 2.28.91 Lo sommo Ben, che solo esso a sé piace, 2.28.92 fé l' uom buono e a bene, e questo loco 2.28.93 diede per arr' a lui d' etterna pace. 2.28.94 Per sua difalta qui dimorò poco; 2.28.95 per sua difalta in pianto e in affanno 2.28.96 cambiò onesto riso e dolce gioco. 2.28.97 Perché 'l turbar che sotto da sé fanno 2.28.98 l' essalazion de l' acqua e de la terra, 2.28.99 che quanto posson dietro al calor vanno, 2.28.100 a l' uomo non facesse alcuna guerra, 2.28.101 questo monte salìo verso 'l ciel tanto, 2.28.102 e libero n' è d' indi ove si serra. 2.28.103 Or perché in circuito tutto quanto 2.28.104 l' aere si volge con la prima volta, 2.28.105 se non li è rotto il cerchio d' alcun canto, 2.28.106 in questa altezza ch' è tutta disciolta 2.28.107 ne l' aere vivo, tal moto percuote, 2.28.108 e fa sonar la selva perch' è folta; 2.28.109 e la percossa pianta tanto puote, 2.28.110 che de la sua virtute l' aura impregna 2.28.111 e quella poi, girando, intorno scuote; 2.28.112 e l' altra terra, secondo ch' è degna 2.28.113 per sé e per suo ciel, concepe e figlia 2.28.114 di diverse virtù diverse legna. 2.28.115 Non parrebbe di là poi maraviglia, 2.28.116 udito questo, quando alcuna pianta 2.28.117 sanza seme palese vi s' appiglia. 2.28.118 E saper dei che la campagna santa 2.28.119 dove tu se', d' ogne semenza è piena, 2.28.120 e frutto ha in sé che di là non si schianta. 2.28.121 L' acqua che vedi non surge di vena 2.28.122 che ristori vapor che gel converta, 2.28.123 come fiume ch' acquista e perde lena; 2.28.124 ma esce di fontana salda e certa, 2.28.125 che tanto dal voler di Dio riprende, 2.28.126 quant' ella versa da due parti aperta. 2.28.127 Da questa parte con virtù discende 2.28.128 che toglie altrui memoria del peccato; 2.28.129 da l' altra d' ogne ben fatto la rende. 2.28.130 Quinci Letè; così da l' altro lato 2.28.131 Ëunoè si chiama, e non adopra 2.28.132 se quinci e quindi pria non è gustato: 2.28.133 a tutti altri sapori esto è di sopra. 2.28.134 E avvegna ch' assai possa esser sazia 2.28.135 la sete tua perch' io più non ti scuopra, 2.28.136 darotti un corollario ancor per grazia; 2.28.137 né credo che 'l mio dir ti sia men caro, 2.28.138 se oltre promession teco si spazia. 2.28.139 Quelli ch' anticamente poetaro 2.28.140 l' età de l' oro e suo stato felice, 2.28.141 forse in Parnaso esto loco sognaro. 2.28.142 Qui fu innocente l' umana radice; 2.28.143 qui primavera sempre e ogne frutto; 2.28.144 nettare è questo di che ciascun dice». 2.28.145 Io mi rivolsi 'n dietro allora tutto 2.28.146 a' miei poeti, e vidi che con riso 2.28.147 udito avëan l' ultimo costrutto; 2.28.148 poi a la bella donna torna' il viso.
CANTO XXIX
2.29.1 Cantando come donna innamorata, 2.29.2 continüò col fin di sue parole: 2.29.3 "Beati quorum tecta sunt peccata!". 2.29.4 E come ninfe che si givan sole 2.29.5 per le salvatiche ombre, disïando 2.29.6 qual di veder, qual di fuggir lo sole, 2.29.7 allor si mosse contra 'l fiume, andando 2.29.8 su per la riva; e io pari di lei, 2.29.9 picciol passo con picciol seguitando. 2.29.10 Non eran cento tra ' suoi passi e ' miei, 2.29.11 quando le ripe igualmente dier volta, 2.29.12 per modo ch' a levante mi rendei. 2.29.13 Né ancor fu così nostra via molta, 2.29.14 quando la donna tutta a me si torse, 2.29.15 dicendo: «Frate mio, guarda e ascolta». 2.29.16 Ed ecco un lustro sùbito trascorse 2.29.17 da tutte parti per la gran foresta, 2.29.18 tal che di balenar mi mise in forse. 2.29.19 Ma perché 'l balenar, come vien, resta, 2.29.20 e quel, durando, più e più splendeva, 2.29.21 nel mio pensier dicea: "Che cosa è questa?". 2.29.22 E una melodia dolce correva 2.29.23 per l' aere luminoso; onde buon zelo 2.29.24 mi fé riprender l' ardimento d' Eva, 2.29.25 che là dove ubidia la terra e 'l cielo, 2.29.26 femmina, sola e pur testé formata, 2.29.27 non sofferse di star sotto alcun velo; 2.29.28 sotto 'l qual se divota fosse stata, 2.29.29 avrei quelle ineffabili delizie 2.29.30 sentite prima e più lunga fïata. 2.29.31 Mentr' io m' andava tra tante primizie 2.29.32 de l' etterno piacer tutto sospeso, 2.29.33 e disïoso ancora a più letizie, 2.29.34 dinanzi a noi, tal quale un foco acceso, 2.29.35 ci si fé l' aere sotto i verdi rami; 2.29.36 e 'l dolce suon per canti era già inteso. 2.29.37 O sacrosante Vergini, se fami, 2.29.38 freddi o vigilie mai per voi soffersi, 2.29.39 cagion mi sprona ch' io mercé vi chiami. 2.29.40 Or convien che Elicona per me versi, 2.29.41 e Uranìe m' aiuti col suo coro 2.29.42 forti cose a pensar mettere in versi. 2.29.43 Poco più oltre, sette alberi d' oro 2.29.44 falsava nel parere il lungo tratto 2.29.45 del mezzo ch' era ancor tra noi e loro; 2.29.46 ma quand' i' fui sì presso di lor fatto, 2.29.47 che l' obietto comun, che 'l senso inganna, 2.29.48 non perdea per distanza alcun suo atto, 2.29.49 la virtù ch' a ragion discorso ammanna, 2.29.50 sì com' elli eran candelabri apprese, 2.29.51 e ne le voci del cantare "Osanna". 2.29.52 Di sopra fiammeggiava il bello arnese 2.29.53 più chiaro assai che luna per sereno 2.29.54 di mezza notte nel suo mezzo mese. 2.29.55 Io mi rivolsi d' ammirazion pieno 2.29.56 al buon Virgilio, ed esso mi rispuose 2.29.57 con vista carca di stupor non meno. 2.29.58 Indi rendei l' aspetto a l' alte cose 2.29.59 che si movieno incontr' a noi sì tardi, 2.29.60 che foran vinte da novelle spose. 2.29.61 La donna mi sgridò: «Perché pur ardi 2.29.62 sì ne l' affetto de le vive luci, 2.29.63 e ciò che vien di retro a lor non guardi?». 2.29.64 Genti vid' io allor, come a lor duci, 2.29.65 venire appresso, vestite di bianco; 2.29.66 e tal candor di qua già mai non fuci. 2.29.67 L' acqua imprendëa dal sinistro fianco, 2.29.68 e rendea me la mia sinistra costa, 2.29.69 s' io riguardava in lei, come specchio anco. 2.29.70 Quand' io da la mia riva ebbi tal posta, 2.29.71 che solo il fiume mi facea distante, 2.29.72 per veder meglio ai passi diedi sosta, 2.29.73 e vidi le fiammelle andar davante, 2.29.74 lasciando dietro a sé l' aere dipinto, 2.29.75 e di tratti pennelli avean sembiante; 2.29.76 sì che lì sopra rimanea distinto 2.29.77 di sette liste, tutte in quei colori 2.29.78 onde fa l' arco il Sole e Delia il cinto. 2.29.79 Questi ostendali in dietro eran maggiori 2.29.80 che la mia vista; e, quanto a mio avviso, 2.29.81 diece passi distavan quei di fori. 2.29.82 Sotto così bel ciel com' io diviso, 2.29.83 ventiquattro seniori, a due a due, 2.29.84 coronati venien di fiordaliso. 2.29.85 Tutti cantavan: «Benedicta tue 2.29.86 ne le figlie d' Adamo, e benedette 2.29.87 sieno in etterno le bellezze tue!». 2.29.88 Poscia che i fiori e l' altre fresche erbette 2.29.89 a rimpetto di me da l' altra sponda 2.29.90 libere fuor da quelle genti elette, 2.29.91 sì come luce luce in ciel seconda, 2.29.92 vennero appresso lor quattro animali, 2.29.93 coronati ciascun di verde fronda. 2.29.94 Ognuno era pennuto di sei ali; 2.29.95 le penne piene d' occhi; e li occhi d' Argo, 2.29.96 se fosser vivi, sarebber cotali. 2.29.97 A descriver lor forme più non spargo 2.29.98 rime, lettor; ch' altra spesa mi strigne, 2.29.99 tanto ch' a questa non posso esser largo; 2.29.100 ma leggi Ezechïel, che li dipigne 2.29.101 come li vide da la fredda parte 2.29.102 venir con vento e con nube e con igne; 2.29.103 e quali i troverai ne le sue carte, 2.29.104 tali eran quivi, salvo ch' a le penne 2.29.105 Giovanni è meco e da lui si diparte. 2.29.106 Lo spazio dentro a lor quattro contenne 2.29.107 un carro, in su due rote, trïunfale, 2.29.108 ch' al collo d' un grifon tirato venne. 2.29.109 Esso tendeva in sù l' una e l' altra ale 2.29.110 tra la mezzana e le tre e tre liste, 2.29.111 sì ch' a nulla, fendendo, facea male. 2.29.112 Tanto salivan che non eran viste; 2.29.113 le membra d' oro avea quant' era uccello, 2.29.114 e bianche l' altre, di vermiglio miste. 2.29.115 Non che Roma di carro così bello 2.29.116 rallegrasse Affricano, o vero Augusto, 2.29.117 ma quel del Sol saria pover con ello; 2.29.118 quel del Sol che, svïando, fu combusto 2.29.119 per l' orazion de la Terra devota, 2.29.120 quando fu Giove arcanamente giusto. 2.29.121 Tre donne in giro da la destra rota 2.29.122 venian danzando; l' una tanto rossa 2.29.123 ch' a pena fora dentro al foco nota; 2.29.124 l' altr' era come se le carni e l' ossa 2.29.125 fossero state di smeraldo fatte; 2.29.126 la terza parea neve testé mossa; 2.29.127 e or parëan da la bianca tratte, 2.29.128 or da la rossa; e dal canto di questa 2.29.129 l' altre toglien l' andare e tarde e ratte. 2.29.130 Da la sinistra quattro facean festa, 2.29.131 in porpore vestite, dietro al modo 2.29.132 d' una di lor ch' avea tre occhi in testa. 2.29.133 Appresso tutto il pertrattato nodo 2.29.134 vidi due vecchi in abito dispari, 2.29.135 ma pari in atto e onesto e sodo. 2.29.136 L' un si mostrava alcun de' famigliari 2.29.137 di quel sommo Ipocràte che natura 2.29.138 a li animali fé ch' ell' ha più cari; 2.29.139 mostrava l' altro la contraria cura 2.29.140 con una spada lucida e aguta, 2.29.141 tal che di qua dal rio mi fé paura. 2.29.142 Poi vidi quattro in umile paruta; 2.29.143 e di retro da tutti un vecchio solo 2.29.144 venir, dormendo, con la faccia arguta. 2.29.145 E questi sette col primaio stuolo 2.29.146 erano abitüati, ma di gigli 2.29.147 dintorno al capo non facëan brolo, 2.29.148 anzi di rose e d' altri fior vermigli; 2.29.149 giurato avria poco lontano aspetto 2.29.150 che tutti ardesser di sopra da' cigli. 2.29.151 E quando il carro a me fu a rimpetto, 2.29.152 un tuon s' udì, e quelle genti degne 2.29.153 parvero aver l' andar più interdetto, 2.29.154 fermandosi ivi con le prime insegne.
CANTO XXX
2.30.1 Quando il settentrïon del primo cielo, 2.30.2 che né occaso mai seppe né orto 2.30.3 né d' altra nebbia che di colpa velo, 2.30.4 e che faceva lì ciascuno accorto 2.30.5 di suo dover, come 'l più basso face 2.30.6 qual temon gira per venire a porto, 2.30.7 fermo s' affisse: la gente verace, 2.30.8 venuta prima tra 'l grifone ed esso, 2.30.9 al carro volse sé come a sua pace; 2.30.10 e un di loro, quasi da ciel messo, 2.30.11 "Veni, sponsa, de Libano"cantando 2.30.12 gridò tre volte, e tutti li altri appresso. 2.30.13 Quali i beati al novissimo bando 2.30.14 surgeran presti ognun di sua caverna, 2.30.15 la revestita voce alleluiando, 2.30.16 cotali in su la divina basterna 2.30.17 si levar cento, ad vocem tanti senis, 2.30.18 ministri e messaggier di vita etterna. 2.30.19 Tutti dicean: "Benedictus qui venis!", 2.30.20 e fior gittando e di sopra e dintorno, 2.30.21 "Manibus, oh, date lilïa plenis!". 2.30.22 Io vidi già nel cominciar del giorno 2.30.23 la parte orïental tutta rosata, 2.30.24 e l' altro ciel di bel sereno addorno; 2.30.25 e la faccia del sol nascere ombrata, 2.30.26 sì che per temperanza di vapori 2.30.27 l' occhio la sostenea lunga fïata: 2.30.28 così dentro una nuvola di fiori 2.30.29 che da le mani angeliche saliva 2.30.30 e ricadeva in giù dentro e di fori, 2.30.31 sovra candido vel cinta d' uliva 2.30.32 donna m' apparve, sotto verde manto 2.30.33 vestita di color di fiamma viva. 2.30.34 E lo spirito mio, che già cotanto 2.30.35 tempo era stato ch' a la sua presenza 2.30.36 non era di stupor, tremando, affranto, 2.30.37 sanza de li occhi aver più conoscenza, 2.30.38 per occulta virtù che da lei mosse, 2.30.39 d' antico amor sentì la gran potenza. 2.30.40 Tosto che ne la vista mi percosse 2.30.41 l' alta virtù che già m' avea trafitto 2.30.42 prima ch' io fuor di püerizia fosse, 2.30.43 volsimi a la sinistra col respitto 2.30.44 col quale il fantolin corre a la mamma 2.30.45 quando ha paura o quando elli è afflitto, 2.30.46 per dicere a Virgilio: "Men che dramma 2.30.47 di sangue m' è rimaso che non tremi: 2.30.48 conosco i segni de l' antica fiamma". 2.30.49 Ma Virgilio n' avea lasciati scemi 2.30.50 di sé, Virgilio dolcissimo patre, 2.30.51 Virgilio a cui per mia salute die'mi; 2.30.52 né quantunque perdeo l' antica matre, 2.30.53 valse a le guance nette di rugiada 2.30.54 che, lagrimando, non tornasser atre. 2.30.55 «Dante, perché Virgilio se ne vada, 2.30.56 non pianger anco, non piangere ancora; 2.30.57 ché pianger ti conven per altra spada». 2.30.58 Quasi ammiraglio che in poppa e in prora 2.30.59 viene a veder la gente che ministra 2.30.60 per li altri legni, e a ben far l' incora; 2.30.61 in su la sponda del carro sinistra, 2.30.62 quando mi volsi al suon del nome mio, 2.30.63 che di necessità qui si registra, 2.30.64 vidi la donna che pria m' appario 2.30.65 velata sotto l' angelica festa, 2.30.66 drizzar li occhi ver' me di qua dal rio. 2.30.67 Tutto che 'l vel che le scendea di testa, 2.30.68 cerchiato de le fronde di Minerva, 2.30.69 non la lasciasse parer manifesta, 2.30.70 regalmente ne l' atto ancor proterva 2.30.71 continüò come colui che dice 2.30.72 e 'l più caldo parlar dietro reserva: 2.30.73 «Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice. 2.30.74 Come degnasti d' accedere al monte? 2.30.75 non sapei tu che qui è l' uom felice?». 2.30.76 Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte; 2.30.77 ma veggendomi in esso, i trassi a l' erba, 2.30.78 tanta vergogna mi gravò la fronte. 2.30.79 Così la madre al figlio par superba, 2.30.80 com' ella parve a me; perché d' amaro 2.30.81 sente il sapor de la pietade acerba. 2.30.82 Ella si tacque; e li angeli cantaro 2.30.83 di sùbito "In te, Domine, speravi"; 2.30.84 ma oltre "pedes meos"non passaro. 2.30.85 Sì come neve tra le vive travi 2.30.86 per lo dosso d' Italia si congela, 2.30.87 soffiata e stretta da li venti schiavi, 2.30.88 poi, liquefatta, in sé stessa trapela, 2.30.89 pur che la terra che perde ombra spiri, 2.30.90 sì che par foco fonder la candela; 2.30.91 così fui sanza lagrime e sospiri 2.30.92 anzi 'l cantar di quei che notan sempre 2.30.93 dietro a le note de li etterni giri; 2.30.94 ma poi che 'ntesi ne le dolci tempre 2.30.95 lor compartire a me, par che se detto 2.30.96 avesser: "Donna, perché sì lo stempre?", 2.30.97 lo gel che m' era intorno al cor ristretto, 2.30.98 spirito e acqua fessi, e con angoscia 2.30.99 de la bocca e de li occhi uscì del petto. 2.30.100 Ella, pur ferma in su la detta coscia 2.30.101 del carro stando, a le sustanze pie 2.30.102 volse le sue parole così poscia: 2.30.103 «Voi vigilate ne l' etterno die, 2.30.104 sì che notte né sonno a voi non fura 2.30.105 passo che faccia il secol per sue vie; 2.30.106 onde la mia risposta è con più cura 2.30.107 che m' intenda colui che di là piagne, 2.30.108 perché sia colpa e duol d' una misura. 2.30.109 Non pur per ovra de le rote magne, 2.30.110 che drizzan ciascun seme ad alcun fine 2.30.111 secondo che le stelle son compagne, 2.30.112 ma per larghezza di grazie divine, 2.30.113 che sì alti vapori hanno a lor piova, 2.30.114 che nostre viste là non van vicine, 2.30.115 questi fu tal ne la sua vita nova 2.30.116 virtüalmente, ch' ogne abito destro 2.30.117 fatto averebbe in lui mirabil prova. 2.30.118 Ma tanto più maligno e più silvestro 2.30.119 si fa 'l terren col mal seme e non cólto, 2.30.120 quant' elli ha più di buon vigor terrestro. 2.30.121 Alcun tempo il sostenni col mio volto: 2.30.122 mostrando li occhi giovanetti a lui, 2.30.123 meco il menava in dritta parte vòlto. 2.30.124 Sì tosto come in su la soglia fui 2.30.125 di mia seconda etade e mutai vita, 2.30.126 questi si tolse a me, e diessi altrui. 2.30.127 Quando di carne a spirto era salita, 2.30.128 e bellezza e virtù cresciuta m' era, 2.30.129 fu' io a lui men cara e men gradita; 2.30.130 e volse i passi suoi per via non vera, 2.30.131 imagini di ben seguendo false, 2.30.132 che nulla promession rendono intera. 2.30.133 Né l' impetrare ispirazion mi valse, 2.30.134 con le quali e in sogno e altrimenti 2.30.135 lo rivocai: sì poco a lui ne calse! 2.30.136 Tanto giù cadde, che tutti argomenti 2.30.137 a la salute sua eran già corti, 2.30.138 fuor che mostrarli le perdute genti. 2.30.139 Per questo visitai l' uscio d' i morti, 2.30.140 e a colui che l' ha qua sù condotto, 2.30.141 li preghi miei, piangendo, furon porti. 2.30.142 Alto fato di Dio sarebbe rotto, 2.30.143 se Letè si passasse e tal vivanda 2.30.144 fosse gustata sanza alcuno scotto 2.30.145 di pentimento che lagrime spanda».
CANTO XXXI
2.31.1 «O tu che se' di là dal fiume sacro», 2.31.2 volgendo suo parlare a me per punta, 2.31.3 che pur per taglio m' era paruto acro, 2.31.4 ricominciò, seguendo sanza cunta, 2.31.5 «dì, dì se questo è vero; a tanta accusa 2.31.6 tua confession conviene esser congiunta». 2.31.7 Era la mia virtù tanto confusa, 2.31.8 che la voce si mosse, e pria si spense 2.31.9 che da li organi suoi fosse dischiusa. 2.31.10 Poco sofferse; poi disse: «Che pense? 2.31.11 Rispondi a me; ché le memorie triste 2.31.12 in te non sono ancor da l' acqua offense». 2.31.13 Confusione e paura insieme miste 2.31.14 mi pinsero un tal «sì»fuor de la bocca, 2.31.15 al quale intender fuor mestier le viste. 2.31.16 Come balestro frange, quando scocca 2.31.17 da troppa tesa, la sua corda e l' arco, 2.31.18 e con men foga l' asta il segno tocca, 2.31.19 sì scoppia' io sottesso grave carco, 2.31.20 fuori sgorgando lagrime e sospiri, 2.31.21 e la voce allentò per lo suo varco. 2.31.22 Ond' ella a me: «Per entro i mie' disiri, 2.31.23 che ti menavano ad amar lo bene 2.31.24 di là dal qual non è a che s' aspiri, 2.31.25 quai fossi attraversati o quai catene 2.31.26 trovasti, per che del passare innanzi 2.31.27 dovessiti così spogliar la spene? 2.31.28 E quali agevolezze o quali avanzi 2.31.29 ne la fronte de li altri si mostraro, 2.31.30 per che dovessi lor passeggiare anzi?». 2.31.31 Dopo la tratta d' un sospiro amaro, 2.31.32 a pena ebbi la voce che rispuose, 2.31.33 e le labbra a fatica la formaro. 2.31.34 Piangendo dissi: «Le presenti cose 2.31.35 col falso lor piacer volser miei passi, 2.31.36 tosto che 'l vostro viso si nascose». 2.31.37 Ed ella: «Se tacessi o se negassi 2.31.38 ciò che confessi, non fora men nota 2.31.39 la colpa tua: da tal giudice sassi! 2.31.40 Ma quando scoppia de la propria gota 2.31.41 l' accusa del peccato, in nostra corte 2.31.42 rivolge sé contra 'l taglio la rota. 2.31.43 Tuttavia, perché mo vergogna porte 2.31.44 del tuo errore, e perché altra volta, 2.31.45 udendo le serene, sie più forte, 2.31.46 pon giù il seme del piangere e ascolta: 2.31.47 sì udirai come in contraria parte 2.31.48 mover dovieti mia carne sepolta. 2.31.49 Mai non t' appresentò natura o arte 2.31.50 piacer, quanto le belle membra in ch' io 2.31.51 rinchiusa fui, e che so' 'n terra sparte; 2.31.52 e se 'l sommo piacer sì ti fallio 2.31.53 per la mia morte, qual cosa mortale 2.31.54 dovea poi trarre te nel suo disio? 2.31.55 Ben ti dovevi, per lo primo strale 2.31.56 de le cose fallaci, levar suso 2.31.57 di retro a me che non era più tale. 2.31.58 Non ti dovea gravar le penne in giuso, 2.31.59 ad aspettar più colpo, o pargoletta 2.31.60 o altra novità con sì breve uso. 2.31.61 Novo augelletto due o tre aspetta; 2.31.62 ma dinanzi da li occhi d' i pennuti 2.31.63 rete si spiega indarno o si saetta». 2.31.64 Quali fanciulli, vergognando, muti 2.31.65 con li occhi a terra stannosi, ascoltando 2.31.66 e sé riconoscendo e ripentuti, 2.31.67 tal mi stav' io; ed ella disse: «Quando 2.31.68 per udir se' dolente, alza la barba, 2.31.69 e prenderai più doglia riguardando». 2.31.70 Con men di resistenza si dibarba 2.31.71 robusto cerro, o vero al nostral vento 2.31.72 o vero a quel de la terra di Iarba, 2.31.73 ch' io non levai al suo comando il mento; 2.31.74 e quando per la barba il viso chiese, 2.31.75 ben conobbi il velen de l' argomento. 2.31.76 E come la mia faccia si distese, 2.31.77 posarsi quelle prime creature 2.31.78 da loro aspersïon l' occhio comprese; 2.31.79 e le mie luci, ancor poco sicure, 2.31.80 vider Beatrice volta in su la fiera 2.31.81 ch' è sola una persona in due nature. 2.31.82 Sotto 'l suo velo e oltre la rivera 2.31.83 vincer pariemi più sé stessa antica, 2.31.84 vincer che l' altre qui, quand' ella c' era. 2.31.85 Di penter sì mi punse ivi l' ortica, 2.31.86 che di tutte altre cose qual mi torse 2.31.87 più nel suo amor, più mi si fé nemica. 2.31.88 Tanta riconoscenza il cor mi morse, 2.31.89 ch' io caddi vinto; e quale allora femmi, 2.31.90 salsi colei che la cagion mi porse. 2.31.91 Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi, 2.31.92 la donna ch' io avea trovata sola 2.31.93 sopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!». 2.31.94 Tratto m' avea nel fiume infin la gola, 2.31.95 e tirandosi me dietro sen giva 2.31.96 sovresso l' acqua lieve come scola. 2.31.97 Quando fui presso a la beata riva, 2.31.98 "Asperges me"sì dolcemente udissi, 2.31.99 che nol so rimembrar, non ch' io lo scriva. 2.31.100 La bella donna ne le braccia aprissi; 2.31.101 abbracciommi la testa e mi sommerse 2.31.102 ove convenne ch' io l' acqua inghiottissi. 2.31.103 Indi mi tolse, e bagnato m' offerse 2.31.104 dentro a la danza de le quattro belle; 2.31.105 e ciascuna del braccio mi coperse. 2.31.106 «Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle; 2.31.107 pria che Beatrice discendesse al mondo, 2.31.108 fummo ordinate a lei per sue ancelle. 2.31.109 Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo 2.31.110 lume ch' è dentro aguzzeranno i tuoi 2.31.111 le tre di là, che miran più profondo». 2.31.112 Così cantando cominciaro; e poi 2.31.113 al petto del grifon seco menarmi, 2.31.114 ove Beatrice stava volta a noi. 2.31.115 Disser: «Fa che le viste non risparmi; 2.31.116 posto t' avem dinanzi a li smeraldi 2.31.117 ond' Amor già ti trasse le sue armi». 2.31.118 Mille disiri più che fiamma caldi 2.31.119 strinsermi li occhi a li occhi rilucenti, 2.31.120 che pur sopra 'l grifone stavan saldi. 2.31.121 Come in lo specchio il sol, non altrimenti 2.31.122 la doppia fiera dentro vi raggiava, 2.31.123 or con altri, or con altri reggimenti. 2.31.124 Pensa, lettor, s' io mi maravigliava, 2.31.125 quando vedea la cosa in sé star queta, 2.31.126 e ne l' idolo suo si trasmutava. 2.31.127 Mentre che piena di stupore e lieta 2.31.128 l' anima mia gustava di quel cibo 2.31.129 che, saziando di sé, di sé asseta, 2.31.130 sé dimostrando di più alto tribo 2.31.131 ne li atti, l' altre tre si fero avanti, 2.31.132 danzando al loro angelico caribo. 2.31.133 «Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi», 2.31.134 era la sua canzone, «al tuo fedele 2.31.135 che, per vederti, ha mossi passi tanti! 2.31.136 Per grazia fa noi grazia che disvele 2.31.137 a lui la bocca tua, sì che discerna 2.31.138 la seconda bellezza che tu cele». 2.31.139 O isplendor di viva luce etterna, 2.31.140 chi palido si fece sotto l' ombra 2.31.141 sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna, 2.31.142 che non paresse aver la mente ingombra, 2.31.143 tentando a render te qual tu paresti 2.31.144 là dove armonizzando il ciel t' adombra, 2.31.145 quando ne l' aere aperto ti solvesti?
CANTO XXXII
2.32.1 Tant' eran li occhi miei fissi e attenti 2.32.2 a disbramarsi la decenne sete, 2.32.3 che li altri sensi m' eran tutti spenti. 2.32.4 Ed essi quinci e quindi avien parete 2.32.5 di non caler --così lo santo riso 2.32.6 a sé traéli con l' antica rete! --; 2.32.7 quando per forza mi fu vòlto il viso 2.32.8 ver' la sinistra mia da quelle dee, 2.32.9 perch' io udi' da loro un «Troppo fiso!»; 2.32.10 e la disposizion ch' a veder èe 2.32.11 ne li occhi pur testé dal sol percossi, 2.32.12 sanza la vista alquanto esser mi fée. 2.32.13 Ma poi ch' al poco il viso riformossi 2.32.14 (e dico "al poco"per rispetto al molto 2.32.15 sensibile onde a forza mi rimossi), 2.32.16 vidi 'n sul braccio destro esser rivolto 2.32.17 lo glorïoso essercito, e tornarsi 2.32.18 col sole e con le sette fiamme al volto. 2.32.19 Come sotto li scudi per salvarsi 2.32.20 volgesi schiera, e sé gira col segno, 2.32.21 prima che possa tutta in sé mutarsi; 2.32.22 quella milizia del celeste regno 2.32.23 che procedeva, tutta trapassonne 2.32.24 pria che piegasse il carro il primo legno. 2.32.25 Indi a le rote si tornar le donne, 2.32.26 e 'l grifon mosse il benedetto carco 2.32.27 sì, che però nulla penna crollonne. 2.32.28 La bella donna che mi trasse al varco 2.32.29 e Stazio e io seguitavam la rota 2.32.30 che fé l' orbita sua con minore arco. 2.32.31 Sì passeggiando l' alta selva vòta, 2.32.32 colpa di quella ch' al serpente crese, 2.32.33 temprava i passi un' angelica nota. 2.32.34 Forse in tre voli tanto spazio prese 2.32.35 disfrenata saetta, quanto eramo 2.32.36 rimossi, quando Bëatrice scese. 2.32.37 Io senti' mormorare a tutti «Adamo»; 2.32.38 poi cerchiaro una pianta dispogliata 2.32.39 di foglie e d' altra fronda in ciascun ramo. 2.32.40 La coma sua, che tanto si dilata 2.32.41 più quanto più è sù, fora da l' Indi 2.32.42 ne' boschi lor per altezza ammirata. 2.32.43 «Beato se', grifon, che non discindi 2.32.44 col becco d' esto legno dolce al gusto, 2.32.45 poscia che mal si torce il ventre quindi». 2.32.46 Così dintorno a l' albero robusto 2.32.47 gridaron li altri; e l' animal binato: 2.32.48 «Sì si conserva il seme d' ogne giusto». 2.32.49 E vòlto al temo ch' elli avea tirato, 2.32.50 trasselo al piè de la vedova frasca, 2.32.51 e quel di lei a lei lasciò legato. 2.32.52 Come le nostre piante, quando casca 2.32.53 giù la gran luce mischiata con quella 2.32.54 che raggia dietro a la celeste lasca, 2.32.55 turgide fansi, e poi si rinovella 2.32.56 di suo color ciascuna, pria che 'l sole 2.32.57 giunga li suoi corsier sotto altra stella; 2.32.58 men che di rose e più che di vïole 2.32.59 colore aprendo, s' innovò la pianta, 2.32.60 che prima avea le ramora sì sole. 2.32.61 Io non lo 'ntesi, né qui non si canta 2.32.62 l' inno che quella gente allor cantaro, 2.32.63 né la nota soffersi tutta quanta. 2.32.64 S' io potessi ritrar come assonnaro 2.32.65 li occhi spietati udendo di Siringa, 2.32.66 li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro; 2.32.67 come pintor che con essempro pinga, 2.32.68 disegnerei com' io m' addormentai; 2.32.69 ma qual vuol sia che l' assonnar ben finga. 2.32.70 Però trascorro a quando mi svegliai, 2.32.71 e dico ch' un splendor mi squarciò 'l velo 2.32.72 del sonno, e un chiamar: «Surgi: che fai?». 2.32.73 Quali a veder de' fioretti del melo 2.32.74 che del suo pome li angeli fa ghiotti 2.32.75 e perpetüe nozze fa nel cielo, 2.32.76 Pietro e Giovanni e Iacopo condotti 2.32.77 e vinti, ritornaro a la parola 2.32.78 da la qual furon maggior sonni rotti, 2.32.79 e videro scemata loro scuola 2.32.80 così di Möisè come d' Elia, 2.32.81 e al maestro suo cangiata stola; 2.32.82 tal torna' io, e vidi quella pia 2.32.83 sovra me starsi che conducitrice 2.32.84 fu de' miei passi lungo 'l fiume pria. 2.32.85 E tutto in dubbio dissi: «Ov' è Beatrice?». 2.32.86 Ond' ella: «Vedi lei sotto la fronda 2.32.87 nova sedere in su la sua radice. 2.32.88 Vedi la compagnia che la circonda: 2.32.89 li altri dopo 'l grifon sen vanno suso 2.32.90 con più dolce canzone e più profonda». 2.32.91 E se più fu lo suo parlar diffuso, 2.32.92 non so, però che già ne li occhi m' era 2.32.93 quella ch' ad altro intender m' avea chiuso. 2.32.94 Sola sedeasi in su la terra vera, 2.32.95 come guardia lasciata lì del plaustro 2.32.96 che legar vidi a la biforme fera. 2.32.97 In cerchio le facevan di sé claustro 2.32.98 le sette ninfe, con quei lumi in mano 2.32.99 che son sicuri d' Aquilone e d' Austro. 2.32.100 «Qui sarai tu poco tempo silvano; 2.32.101 e sarai meco sanza fine cive 2.32.102 di quella Roma onde Cristo è romano. 2.32.103 Però, in pro del mondo che mal vive, 2.32.104 al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, 2.32.105 ritornato di là, fa che tu scrive». 2.32.106 Così Beatrice; e io, che tutto ai piedi 2.32.107 d' i suoi comandamenti era divoto, 2.32.108 la mente e li occhi ov' ella volle diedi. 2.32.109 Non scese mai con sì veloce moto 2.32.110 foco di spessa nube, quando piove 2.32.111 da quel confine che più va remoto, 2.32.112 com' io vidi calar l' uccel di Giove 2.32.113 per l' alber giù, rompendo de la scorza, 2.32.114 non che d' i fiori e de le foglie nove; 2.32.115 e ferì 'l carro di tutta sua forza; 2.32.116 ond' el piegò come nave in fortuna, 2.32.117 vinta da l' onda, or da poggia, or da orza. 2.32.118 Poscia vidi avventarsi ne la cuna 2.32.119 del trïunfal veiculo una volpe 2.32.120 che d' ogne pasto buon parea digiuna; 2.32.121 ma, riprendendo lei di laide colpe, 2.32.122 la donna mia la volse in tanta futa 2.32.123 quanto sofferser l' ossa sanza polpe. 2.32.124 Poscia per indi ond' era pria venuta, 2.32.125 l' aguglia vidi scender giù ne l' arca 2.32.126 del carro e lasciar lei di sé pennuta; 2.32.127 e qual esce di cuor che si rammarca, 2.32.128 tal voce uscì del cielo e cotal disse: 2.32.129 «O navicella mia, com' mal se' carca!». 2.32.130 Poi parve a me che la terra s' aprisse 2.32.131 tr' ambo le ruote, e vidi uscirne un drago 2.32.132 che per lo carro sù la coda fisse; 2.32.133 e come vespa che ritragge l' ago, 2.32.134 a sé traendo la coda maligna, 2.32.135 trasse del fondo, e gissen vago vago. 2.32.136 Quel che rimase, come da gramigna 2.32.137 vivace terra, da la piuma, offerta 2.32.138 forse con intenzion sana e benigna, 2.32.139 si ricoperse, e funne ricoperta 2.32.140 e l' una e l' altra rota e 'l temo, in tanto 2.32.141 che più tiene un sospir la bocca aperta. 2.32.142 Trasformato così 'l dificio santo 2.32.143 mise fuor teste per le parti sue, 2.32.144 tre sovra 'l temo e una in ciascun canto. 2.32.145 Le prime eran cornute come bue, 2.32.146 ma le quattro un sol corno avean per fronte: 2.32.147 simile mostro visto ancor non fue. 2.32.148 Sicura, quasi rocca in alto monte, 2.32.149 seder sovresso una puttana sciolta 2.32.150 m' apparve con le ciglia intorno pronte; 2.32.151 e come perché non li fosse tolta, 2.32.152 vidi di costa a lei dritto un gigante; 2.32.153 e basciavansi insieme alcuna volta. 2.32.154 Ma perché l' occhio cupido e vagante 2.32.155 a me rivolse, quel feroce drudo 2.32.156 la flagellò dal capo infin le piante; 2.32.157 poi, di sospetto pieno e d' ira crudo, 2.32.158 disciolse il mostro, e trassel per la selva, 2.32.159 tanto che sol di lei mi fece scudo 2.32.160 a la puttana e a la nova belva.
CANTO XXXIII
2.33.1 "Deus, venerunt gentes", alternando 2.33.2 or tre or quattro dolce salmodia, 2.33.3 le donne incominciaro, e lagrimando; 2.33.4 e Bëatrice, sospirosa e pia, 2.33.5 quelle ascoltava sì fatta, che poco 2.33.6 più a la croce si cambiò Maria. 2.33.7 Ma poi che l' altre vergini dier loco 2.33.8 a lei di dir, levata dritta in pè, 2.33.9 rispuose, colorata come foco: 2.33.10 "Modicum, et non videbitis me; 2.33.11 et iterum, sorelle mie dilette, 2.33.12 modicum, et vos videbitis me". 2.33.13 Poi le si mise innanzi tutte e sette, 2.33.14 e dopo sé, solo accennando, mosse 2.33.15 me e la donna e 'l savio che ristette. 2.33.16 Così sen giva; e non credo che fosse 2.33.17 lo decimo suo passo in terra posto, 2.33.18 quando con li occhi li occhi mi percosse; 2.33.19 e con tranquillo aspetto «Vien più tosto», 2.33.20 mi disse, «tanto che, s' io parlo teco, 2.33.21 ad ascoltarmi tu sie ben disposto». 2.33.22 Sì com' io fui, com' io dovëa, seco, 2.33.23 dissemi: «Frate, perché non t' attenti 2.33.24 a domandarmi omai venendo meco?». 2.33.25 Come a color che troppo reverenti 2.33.26 dinanzi a suo maggior parlando sono, 2.33.27 che non traggon la voce viva ai denti, 2.33.28 avvenne a me, che sanza intero suono 2.33.29 incominciai: «Madonna, mia bisogna 2.33.30 voi conoscete, e ciò ch' ad essa è buono». 2.33.31 Ed ella a me: «Da tema e da vergogna 2.33.32 voglio che tu omai ti disviluppe, 2.33.33 sì che non parli più com' om che sogna. 2.33.34 Sappi che 'l vaso che 'l serpente ruppe, 2.33.35 fu e non è; ma chi n' ha colpa, creda 2.33.36 che vendetta di Dio non teme suppe. 2.33.37 Non sarà tutto tempo sanza reda 2.33.38 l' aguglia che lasciò le penne al carro, 2.33.39 per che divenne mostro e poscia preda; 2.33.40 ch' io veggio certamente, e però il narro, 2.33.41 a darne tempo già stelle propinque, 2.33.42 secure d' ogn' intoppo e d' ogne sbarro, 2.33.43 nel quale un cinquecento diece e cinque, 2.33.44 messo di Dio, anciderà la fuia 2.33.45 con quel gigante che con lei delinque. 2.33.46 E forse che la mia narrazion buia, 2.33.47 qual Temi e Sfinge, men ti persuade, 2.33.48 perch' a lor modo lo 'ntelletto attuia; 2.33.49 ma tosto fier li fatti le Naiade, 2.33.50 che solveranno questo enigma forte 2.33.51 sanza danno di pecore o di biade. 2.33.52 Tu nota; e sì come da me son porte, 2.33.53 così queste parole segna a' vivi 2.33.54 del viver ch' è un correre a la morte. 2.33.55 E aggi a mente, quando tu le scrivi, 2.33.56 di non celar qual hai vista la pianta 2.33.57 ch' è or due volte dirubata quivi. 2.33.58 Qualunque ruba quella o quella schianta, 2.33.59 con bestemmia di fatto offende a Dio, 2.33.60 che solo a l' uso suo la creò santa. 2.33.61 Per morder quella, in pena e in disio 2.33.62 cinquemilia anni e più l' anima prima 2.33.63 bramò colui che 'l morso in sé punio. 2.33.64 Dorme lo 'ngegno tuo, se non estima 2.33.65 per singular cagione essere eccelsa 2.33.66 lei tanto e sì travolta ne la cima. 2.33.67 E se stati non fossero acqua d' elsa 2.33.68 li pensier vani intorno a la tua mente, 2.33.69 e 'l piacer loro un Piramo a la gelsa, 2.33.70 per tante circostanze solamente 2.33.71 la giustizia di Dio, ne l' interdetto, 2.33.72 conosceresti a l' arbor moralmente. 2.33.73 Ma perch' io veggio te ne lo 'ntelletto 2.33.74 fatto di pietra e, impetrato, tinto, 2.33.75 sì che t' abbaglia il lume del mio detto, 2.33.76 voglio anco, e se non scritto, almen dipinto, 2.33.77 che 'l te ne porti dentro a te per quello 2.33.78 che si reca il bordon di palma cinto». 2.33.79 E io: «Sì come cera da suggello, 2.33.80 che la figura impressa non trasmuta, 2.33.81 segnato è or da voi lo mio cervello. 2.33.82 Ma perché tanto sovra mia veduta 2.33.83 vostra parola disïata vola, 2.33.84 che più la perde quanto più s' aiuta?». 2.33.85 «Perché conoschi», disse, «quella scuola 2.33.86 c' hai seguitata, e veggi sua dottrina 2.33.87 come può seguitar la mia parola; 2.33.88 e veggi vostra via da la divina 2.33.89 distar cotanto, quanto si discorda 2.33.90 da terra il ciel che più alto festina». 2.33.91 Ond' io rispuosi lei: «Non mi ricorda 2.33.92 ch' i' stranïasse me già mai da voi, 2.33.93 né honne coscïenza che rimorda». 2.33.94 «E se tu ricordar non te ne puoi», 2.33.95 sorridendo rispuose, «or ti rammenta 2.33.96 come bevesti di Letè ancoi; 2.33.97 e se dal fummo foco s' argomenta, 2.33.98 cotesta oblivïon chiaro conchiude 2.33.99 colpa ne la tua voglia altrove attenta. 2.33.100 Veramente oramai saranno nude 2.33.101 le mie parole, quanto converrassi 2.33.102 quelle scovrire a la tua vista rude». 2.33.103 E più corusco e con più lenti passi 2.33.104 teneva il sole il cerchio di merigge, 2.33.105 che qua e là, come li aspetti, fassi, 2.33.106 quando s' affisser, sì come s' affigge 2.33.107 chi va dinanzi a gente per iscorta 2.33.108 se trova novitate o sue vestigge, 2.33.109 le sette donne al fin d' un' ombra smorta, 2.33.110 qual sotto foglie verdi e rami nigri 2.33.111 sovra suoi freddi rivi l' alpe porta. 2.33.112 Dinanzi ad esse Ëufratès e Tigri 2.33.113 veder mi parve uscir d' una fontana, 2.33.114 e, quasi amici, dipartirsi pigri. 2.33.115 «O luce, o gloria de la gente umana, 2.33.116 che acqua è questa che qui si dispiega 2.33.117 da un principio e sé da sé lontana?». 2.33.118 Per cotal priego detto mi fu: «Priega 2.33.119 Matelda che 'l ti dica». E qui rispuose, 2.33.120 come fa chi da colpa si dislega, 2.33.121 la bella donna: «Questo e altre cose 2.33.122 dette li son per me; e son sicura 2.33.123 che l' acqua di Letè non gliel nascose». 2.33.124 E Bëatrice: «Forse maggior cura, 2.33.125 che spesse volte la memoria priva, 2.33.126 fatt' ha la mente sua ne li occhi oscura. 2.33.127 Ma vedi Ëunoè che là diriva: 2.33.128 menalo ad esso, e come tu se' usa, 2.33.129 la tramortita sua virtù ravviva». 2.33.130 Come anima gentil, che non fa scusa, 2.33.131 ma fa sua voglia de la voglia altrui 2.33.132 tosto che è per segno fuor dischiusa; 2.33.133 così, poi che da essa preso fui, 2.33.134 la bella donna mossesi, e a Stazio 2.33.135 donnescamente disse: «Vien con lui». 2.33.136 S' io avessi, lettor, più lungo spazio 2.33.137 da scrivere, i' pur cantere' in parte 2.33.138 lo dolce ber che mai non m' avria sazio; 2.33.139 ma perché piene son tutte le carte 2.33.140 ordite a questa cantica seconda, 2.33.141 non mi lascia più ir lo fren de l' arte. 2.33.142 Io ritornai da la santissima onda 2.33.143 rifatto sì come piante novelle 2.33.144 rinovellate di novella fronda, 2.33.145 puro e disposto a salire a le stelle.

Paradiso

CANTO I
3.1.1 La gloria di colui che tutto move 3.1.2 per l' universo penetra, e risplende 3.1.3 in una parte più e meno altrove. 3.1.4 Nel ciel che più de la sua luce prende 3.1.5 fu' io, e vidi cose che ridire 3.1.6 né sa né può chi di là sù discende; 3.1.7 perché appressando sé al suo disire, 3.1.8 nostro intelletto si profonda tanto, 3.1.9 che dietro la memoria non può ire. 3.1.10 Veramente quant' io del regno santo 3.1.11 ne la mia mente potei far tesoro, 3.1.12 sarà ora materia del mio canto. 3.1.13 O buono Appollo, a l' ultimo lavoro 3.1.14 fammi del tuo valor sì fatto vaso, 3.1.15 come dimandi a dar l' amato alloro. 3.1.16 Infino a qui l' un giogo di Parnaso 3.1.17 assai mi fu; ma or con amendue 3.1.18 m' è uopo intrar ne l' aringo rimaso. 3.1.19 Entra nel petto mio, e spira tue 3.1.20 sì come quando Marsïa traesti 3.1.21 de la vagina de le membra sue. 3.1.22 O divina virtù, se mi ti presti 3.1.23 tanto che l' ombra del beato regno 3.1.24 segnata nel mio capo io manifesti, 3.1.25 vedra'mi al piè del tuo diletto legno 3.1.26 venire, e coronarmi de le foglie 3.1.27 che la materia e tu mi farai degno. 3.1.28 Sì rade volte, padre, se ne coglie 3.1.29 per trïunfare o cesare o poeta, 3.1.30 colpa e vergogna de l' umane voglie, 3.1.31 che parturir letizia in su la lieta 3.1.32 delfica dëità dovria la fronda 3.1.33 peneia, quando alcun di sé asseta. 3.1.34 Poca favilla gran fiamma seconda: 3.1.35 forse di retro a me con miglior voci 3.1.36 si pregherà perché Cirra risponda. 3.1.37 Surge ai mortali per diverse foci 3.1.38 la lucerna del mondo; ma da quella 3.1.39 che quattro cerchi giugne con tre croci, 3.1.40 con miglior corso e con migliore stella 3.1.41 esce congiunta, e la mondana cera 3.1.42 più a suo modo tempera e suggella. 3.1.43 Fatto avea di là mane e di qua sera 3.1.44 tal foce, e quasi tutto era là bianco 3.1.45 quello emisperio, e l' altra parte nera, 3.1.46 quando Beatrice in sul sinistro fianco 3.1.47 vidi rivolta e riguardar nel sole: 3.1.48 aguglia sì non li s' affisse unquanco. 3.1.49 E sì come secondo raggio suole 3.1.50 uscir del primo e risalire in suso, 3.1.51 pur come pelegrin che tornar vuole, 3.1.52 così de l' atto suo, per li occhi infuso 3.1.53 ne l' imagine mia, il mio si fece, 3.1.54 e fissi li occhi al sole oltre nostr' uso. 3.1.55 Molto è licito là, che qui non lece 3.1.56 a le nostre virtù, mercé del loco 3.1.57 fatto per proprio de l' umana spece. 3.1.58 Io nol soffersi molto, né sì poco, 3.1.59 ch' io nol vedessi sfavillar dintorno, 3.1.60 com' ferro che bogliente esce del foco; 3.1.61 e di sùbito parve giorno a giorno 3.1.62 essere aggiunto, come quei che puote 3.1.63 avesse il ciel d' un altro sole addorno. 3.1.64 Beatrice tutta ne l' etterne rote 3.1.65 fissa con li occhi stava; e io in lei 3.1.66 le luci fissi, di là sù rimote. 3.1.67 Nel suo aspetto tal dentro mi fei, 3.1.68 qual si fé Glauco nel gustar de l' erba 3.1.69 che 'l fé consorto in mar de li altri dèi. 3.1.70 Trasumanar significar per verba 3.1.71 non si poria; però l' essemplo basti 3.1.72 a cui esperïenza grazia serba. 3.1.73 S' i' era sol di me quel che creasti 3.1.74 novellamente, amor che 'l ciel governi, 3.1.75 tu 'l sai, che col tuo lume mi levasti. 3.1.76 Quando la rota che tu sempiterni 3.1.77 desiderato, a sé mi fece atteso 3.1.78 con l' armonia che temperi e discerni, 3.1.79 parvemi tanto allor del cielo acceso 3.1.80 de la fiamma del sol, che pioggia o fiume 3.1.81 lago non fece alcun tanto disteso. 3.1.82 La novità del suono e 'l grande lume 3.1.83 di lor cagion m' accesero un disio 3.1.84 mai non sentito di cotanto acume. 3.1.85 Ond' ella, che vedea me sì com' io, 3.1.86 a quïetarmi l' animo commosso, 3.1.87 pria ch' io a dimandar, la bocca aprio 3.1.88 e cominciò: «Tu stesso ti fai grosso 3.1.89 col falso imaginar, sì che non vedi 3.1.90 ciò che vedresti se l' avessi scosso. 3.1.91 Tu non se' in terra, sì come tu credi; 3.1.92 ma folgore, fuggendo il proprio sito, 3.1.93 non corse come tu ch' ad esso riedi». 3.1.94 S' io fui del primo dubbio disvestito 3.1.95 per le sorrise parolette brevi, 3.1.96 dentro ad un nuovo più fu' inretito 3.1.97 e dissi: «Già contento requïevi 3.1.98 di grande ammirazion; ma ora ammiro 3.1.99 com' io trascenda questi corpi levi». 3.1.100 Ond' ella, appresso d' un pïo sospiro, 3.1.101 li occhi drizzò ver' me con quel sembiante 3.1.102 che madre fa sovra figlio deliro, 3.1.103 e cominciò: «Le cose tutte quante 3.1.104 hanno ordine tra loro, e questo è forma 3.1.105 che l' universo a Dio fa simigliante. 3.1.106 Qui veggion l' alte creature l' orma 3.1.107 de l' etterno valore, il qual è fine 3.1.108 al quale è fatta la toccata norma. 3.1.109 Ne l' ordine ch' io dico sono accline 3.1.110 tutte nature, per diverse sorti, 3.1.111 più al principio loro e men vicine; 3.1.112 onde si muovono a diversi porti 3.1.113 per lo gran mar de l' essere, e ciascuna 3.1.114 con istinto a lei dato che la porti. 3.1.115 Questi ne porta il foco inver' la luna; 3.1.116 questi ne' cor mortali è permotore; 3.1.117 questi la terra in sé stringe e aduna; 3.1.118 né pur le creature che son fore 3.1.119 d' intelligenza quest' arco saetta, 3.1.120 ma quelle c' hanno intelletto e amore. 3.1.121 La provedenza, che cotanto assetta, 3.1.122 del suo lume fa 'l ciel sempre quïeto 3.1.123 nel qual si volge quel c' ha maggior fretta; 3.1.124 e ora lì, come a sito decreto, 3.1.125 cen porta la virtù di quella corda 3.1.126 che ciò che scocca drizza in segno lieto. 3.1.127 Vero è che, come forma non s' accorda 3.1.128 molte fïate a l' intenzion de l' arte, 3.1.129 perch' a risponder la materia è sorda, 3.1.130 così da questo corso si diparte 3.1.131 talor la creatura, c' ha podere 3.1.132 di piegar, così pinta, in altra parte; 3.1.133 e sì come veder si può cadere 3.1.134 foco di nube, sì l' impeto primo 3.1.135 l' atterra torto da falso piacere. 3.1.136 Non dei più ammirar, se bene stimo, 3.1.137 lo tuo salir, se non come d' un rivo 3.1.138 se d' alto monte scende giuso ad imo. 3.1.139 Maraviglia sarebbe in te se, privo 3.1.140 d' impedimento, giù ti fossi assiso, 3.1.141 com' a terra quïete in foco vivo». 3.1.142 Quinci rivolse inver' lo cielo il viso.
CANTO II
3.2.1 O voi che siete in piccioletta barca, 3.2.2 desiderosi d' ascoltar, seguiti 3.2.3 dietro al mio legno che cantando varca, 3.2.4 tornate a riveder li vostri liti: 3.2.5 non vi mettete in pelago, ché forse, 3.2.6 perdendo me, rimarreste smarriti. 3.2.7 L' acqua ch' io prendo già mai non si corse; 3.2.8 Minerva spira, e conducemi Appollo, 3.2.9 e nove Muse mi dimostran l' Orse. 3.2.10 Voialtri pochi che drizzaste il collo 3.2.11 per tempo al pan de li angeli, del quale 3.2.12 vivesi qui ma non sen vien satollo, 3.2.13 metter potete ben per l' alto sale 3.2.14 vostro navigio, servando mio solco 3.2.15 dinanzi a l' acqua che ritorna equale. 3.2.16 Que' glorïosi che passaro al Colco 3.2.17 non s' ammiraron come voi farete, 3.2.18 quando Iasón vider fatto bifolco. 3.2.19 La concreata e perpetüa sete 3.2.20 del dëiforme regno cen portava 3.2.21 veloci quasi come 'l ciel vedete. 3.2.22 Beatrice in suso, e io in lei guardava; 3.2.23 e forse in tanto in quanto un quadrel posa 3.2.24 e vola e da la noce si dischiava, 3.2.25 giunto mi vidi ove mirabil cosa 3.2.26 mi torse il viso a sé; e però quella 3.2.27 cui non potea mia cura essere ascosa, 3.2.28 volta ver' me, sì lieta come bella, 3.2.29 «Drizza la mente in Dio grata», mi disse, 3.2.30 «che n' ha congiunti con la prima stella». 3.2.31 Parev' a me che nube ne coprisse 3.2.32 lucida, spessa, solida e pulita, 3.2.33 quasi adamante che lo sol ferisse. 3.2.34 Per entro sé l' etterna margarita 3.2.35 ne ricevette, com' acqua recepe 3.2.36 raggio di luce permanendo unita. 3.2.37 S' io era corpo, e qui non si concepe 3.2.38 com' una dimensione altra patio, 3.2.39 ch' esser convien se corpo in corpo repe, 3.2.40 accender ne dovria più il disio 3.2.41 di veder quella essenza in che si vede 3.2.42 come nostra natura e Dio s' unio. 3.2.43 Lì si vedrà ciò che tenem per fede, 3.2.44 non dimostrato, ma fia per sé noto 3.2.45 a guisa del ver primo che l' uom crede. 3.2.46 Io rispuosi: «Madonna, sì devoto 3.2.47 com' esser posso più, ringrazio lui 3.2.48 lo qual dal mortal mondo m' ha remoto. 3.2.49 Ma ditemi: che son li segni bui 3.2.50 di questo corpo, che là giuso in terra 3.2.51 fan di Cain favoleggiare altrui?». 3.2.52 Ella sorrise alquanto, e poi «S' elli erra 3.2.53 l' oppinïon», mi disse, «d' i mortali 3.2.54 dove chiave di senso non diserra, 3.2.55 certo non ti dovrien punger li strali 3.2.56 d' ammirazione omai, poi dietro ai sensi 3.2.57 vedi che la ragione ha corte l' ali. 3.2.58 Ma dimmi quel che tu da te ne pensi». 3.2.59 E io: «Ciò che n' appar qua sù diverso 3.2.60 credo che fanno i corpi rari e densi». 3.2.61 Ed ella: «Certo assai vedrai sommerso 3.2.62 nel falso il creder tuo, se bene ascolti 3.2.63 l' argomentar ch' io li farò avverso. 3.2.64 La spera ottava vi dimostra molti 3.2.65 lumi, li quali e nel quale e nel quanto 3.2.66 notar si posson di diversi volti. 3.2.67 Se raro e denso ciò facesser tanto, 3.2.68 una sola virtù sarebbe in tutti, 3.2.69 più e men distributa e altrettanto. 3.2.70 Virtù diverse esser convegnon frutti 3.2.71 di princìpi formali, e quei, for ch' uno, 3.2.72 seguiterieno a tua ragion distrutti. 3.2.73 Ancor, se raro fosse di quel bruno 3.2.74 cagion che tu dimandi, o d' oltre in parte 3.2.75 fora di sua materia sì digiuno 3.2.76 esto pianeto, o, sì come comparte 3.2.77 lo grasso e 'l magro un corpo, così questo 3.2.78 nel suo volume cangerebbe carte. 3.2.79 Se 'l primo fosse, fora manifesto 3.2.80 ne l' eclissi del sol, per trasparere 3.2.81 lo lume come in altro raro ingesto. 3.2.82 Questo non è: però è da vedere 3.2.83 de l' altro; e s' elli avvien ch' io l' altro cassi, 3.2.84 falsificato fia lo tuo parere. 3.2.85 S' elli è che questo raro non trapassi, 3.2.86 esser conviene un termine da onde 3.2.87 lo suo contrario più passar non lassi; 3.2.88 e indi l' altrui raggio si rifonde 3.2.89 così come color torna per vetro 3.2.90 lo qual di retro a sé piombo nasconde. 3.2.91 Or dirai tu ch' el si dimostra tetro 3.2.92 ivi lo raggio più che in altre parti, 3.2.93 per esser lì refratto più a retro. 3.2.94 Da questa instanza può deliberarti 3.2.95 esperïenza, se già mai la provi, 3.2.96 ch' esser suol fonte ai rivi di vostr' arti. 3.2.97 Tre specchi prenderai; e i due rimovi 3.2.98 da te d' un modo, e l' altro, più rimosso, 3.2.99 tr' ambo li primi li occhi tuoi ritrovi. 3.2.100 Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso 3.2.101 ti stea un lume che i tre specchi accenda 3.2.102 e torni a te da tutti ripercosso. 3.2.103 Ben che nel quanto tanto non si stenda 3.2.104 la vista più lontana, lì vedrai 3.2.105 come convien ch' igualmente risplenda. 3.2.106 Or, come ai colpi de li caldi rai 3.2.107 de la neve riman nudo il suggetto 3.2.108 e dal colore e dal freddo primai, 3.2.109 così rimaso te ne l' intelletto 3.2.110 voglio informar di luce sì vivace, 3.2.111 che ti tremolerà nel suo aspetto. 3.2.112 Dentro dal ciel de la divina pace 3.2.113 si gira un corpo ne la cui virtute 3.2.114 l' esser di tutto suo contento giace. 3.2.115 Lo ciel seguente, c' ha tante vedute, 3.2.116 quell' esser parte per diverse essenze, 3.2.117 da lui distratte e da lui contenute. 3.2.118 Li altri giron per varie differenze 3.2.119 le distinzion che dentro da sé hanno 3.2.120 dispongono a lor fini e lor semenze. 3.2.121 Questi organi del mondo così vanno, 3.2.122 come tu vedi omai, di grado in grado, 3.2.123 che di sù prendono e di sotto fanno. 3.2.124 Riguarda bene omai sì com' io vado 3.2.125 per questo loco al vero che disiri, 3.2.126 sì che poi sappi sol tener lo guado. 3.2.127 Lo moto e la virtù d' i santi giri, 3.2.128 come dal fabbro l' arte del martello, 3.2.129 da' beati motor convien che spiri; 3.2.130 e 'l ciel cui tanti lumi fanno bello, 3.2.131 de la mente profonda che lui volve 3.2.132 prende l' image e fassene suggello. 3.2.133 E come l' alma dentro a vostra polve 3.2.134 per differenti membra e conformate 3.2.135 a diverse potenze si risolve, 3.2.136 così l' intelligenza sua bontate 3.2.137 multiplicata per le stelle spiega, 3.2.138 girando sé sovra sua unitate. 3.2.139 Virtù diversa fa diversa lega 3.2.140 col prezïoso corpo ch' ella avviva, 3.2.141 nel qual, sì come vita in voi, si lega. 3.2.142 Per la natura lieta onde deriva, 3.2.143 la virtù mista per lo corpo luce 3.2.144 come letizia per pupilla viva. 3.2.145 Da essa vien ciò che da luce a luce 3.2.146 par differente, non da denso e raro; 3.2.147 essa è formal principio che produce, 3.2.148 conforme a sua bontà, lo turbo e 'l chiaro».
CANTO III
3.3.1 Quel sol che pria d' amor mi scaldò 'l petto, 3.3.2 di bella verità m' avea scoverto, 3.3.3 provando e riprovando, il dolce aspetto; 3.3.4 e io, per confessar corretto e certo 3.3.5 me stesso, tanto quanto si convenne 3.3.6 leva' il capo a proferer più erto; 3.3.7 ma visïone apparve che ritenne 3.3.8 a sé me tanto stretto, per vedersi, 3.3.9 che di mia confession non mi sovvenne. 3.3.10 Quali per vetri trasparenti e tersi, 3.3.11 o ver per acque nitide e tranquille, 3.3.12 non sì profonde che i fondi sien persi, 3.3.13 tornan d' i nostri visi le postille 3.3.14 debili sì, che perla in bianca fronte 3.3.15 non vien men forte a le nostre pupille; 3.3.16 tali vid' io più facce a parlar pronte; 3.3.17 per ch' io dentro a l' error contrario corsi 3.3.18 a quel ch' accese amor tra l' omo e 'l fonte. 3.3.19 Sùbito sì com' io di lor m' accorsi, 3.3.20 quelle stimando specchiati sembianti, 3.3.21 per veder di cui fosser, li occhi torsi; 3.3.22 e nulla vidi, e ritorsili avanti 3.3.23 dritti nel lume de la dolce guida, 3.3.24 che, sorridendo, ardea ne li occhi santi. 3.3.25 «Non ti maravigliar perch' io sorrida», 3.3.26 mi disse, «appresso il tuo püeril coto, 3.3.27 poi sopra 'l vero ancor lo piè non fida, 3.3.28 ma te rivolve, come suole, a vòto: 3.3.29 vere sustanze son ciò che tu vedi, 3.3.30 qui rilegate per manco di voto. 3.3.31 Però parla con esse e odi e credi; 3.3.32 ché la verace luce che le appaga 3.3.33 da sé non lascia lor torcer li piedi». 3.3.34 E io a l' ombra che parea più vaga 3.3.35 di ragionar, drizza'mi, e cominciai, 3.3.36 quasi com' uom cui troppa voglia smaga: 3.3.37 «O ben creato spirito, che a' rai 3.3.38 di vita etterna la dolcezza senti 3.3.39 che, non gustata, non s' intende mai, 3.3.40 grazïoso mi fia se mi contenti 3.3.41 del nome tuo e de la vostra sorte». 3.3.42 Ond' ella, pronta e con occhi ridenti: 3.3.43 «La nostra carità non serra porte 3.3.44 a giusta voglia, se non come quella 3.3.45 che vuol simile a sé tutta sua corte. 3.3.46 I' fui nel mondo vergine sorella; 3.3.47 e se la mente tua ben sé riguarda, 3.3.48 non mi ti celerà l' esser più bella, 3.3.49 ma riconoscerai ch' i' son Piccarda, 3.3.50 che, posta qui con questi altri beati, 3.3.51 beata sono in la spera più tarda. 3.3.52 Li nostri affetti, che solo infiammati 3.3.53 son nel piacer de lo Spirito Santo, 3.3.54 letizian del suo ordine formati. 3.3.55 E questa sorte che par giù cotanto, 3.3.56 però n' è data, perché fuor negletti 3.3.57 li nostri voti, e vòti in alcun canto». 3.3.58 Ond' io a lei: «Ne' mirabili aspetti 3.3.59 vostri risplende non so che divino 3.3.60 che vi trasmuta da' primi concetti: 3.3.61 però non fui a rimembrar festino; 3.3.62 ma or m' aiuta ciò che tu mi dici, 3.3.63 sì che raffigurar m' è più latino. 3.3.64 Ma dimmi: voi che siete qui felici, 3.3.65 disiderate voi più alto loco 3.3.66 per più vedere e per più farvi amici?». 3.3.67 Con quelle altr' ombre pria sorrise un poco; 3.3.68 da indi mi rispuose tanto lieta, 3.3.69 ch' arder parea d' amor nel primo foco: 3.3.70 «Frate, la nostra volontà quïeta 3.3.71 virtù di carità, che fa volerne 3.3.72 sol quel ch' avemo, e d' altro non ci asseta. 3.3.73 Se disïassimo esser più superne, 3.3.74 foran discordi li nostri disiri 3.3.75 dal voler di colui che qui ne cerne; 3.3.76 che vedrai non capere in questi giri, 3.3.77 s' essere in carità è qui necesse, 3.3.78 e se la sua natura ben rimiri. 3.3.79 Anzi è formale ad esto beato esse 3.3.80 tenersi dentro a la divina voglia, 3.3.81 per ch' una fansi nostre voglie stesse; 3.3.82 sì che, come noi sem di soglia in soglia 3.3.83 per questo regno, a tutto il regno piace 3.3.84 com' a lo re che 'n suo voler ne 'nvoglia. 3.3.85 E 'n la sua volontade è nostra pace: 3.3.86 ell' è quel mare al qual tutto si move 3.3.87 ciò ch' ella crïa o che natura face». 3.3.88 Chiaro mi fu allor come ogne dove 3.3.89 in cielo è paradiso, etsi la grazia 3.3.90 del sommo ben d' un modo non vi piove. 3.3.91 Ma sì com' elli avvien, s' un cibo sazia 3.3.92 e d' un altro rimane ancor la gola, 3.3.93 che quel si chere e di quel si ringrazia, 3.3.94 così fec' io con atto e con parola, 3.3.95 per apprender da lei qual fu la tela 3.3.96 onde non trasse infino a co la spuola. 3.3.97 «Perfetta vita e alto merto inciela 3.3.98 donna più sù», mi disse, «a la cui norma 3.3.99 nel vostro mondo giù si veste e vela, 3.3.100 perché fino al morir si vegghi e dorma 3.3.101 con quello sposo ch' ogne voto accetta 3.3.102 che caritate a suo piacer conforma. 3.3.103 Dal mondo, per seguirla, giovinetta 3.3.104 fuggi'mi, e nel suo abito mi chiusi 3.3.105 e promisi la via de la sua setta. 3.3.106 Uomini poi, a mal più ch' a bene usi, 3.3.107 fuor mi rapiron de la dolce chiostra: 3.3.108 Iddio si sa qual poi mia vita fusi. 3.3.109 E quest' altro splendor che ti si mostra 3.3.110 da la mia destra parte e che s' accende 3.3.111 di tutto il lume de la spera nostra, 3.3.112 ciò ch' io dico di me, di sé intende; 3.3.113 sorella fu, e così le fu tolta 3.3.114 di capo l' ombra de le sacre bende. 3.3.115 Ma poi che pur al mondo fu rivolta 3.3.116 contra suo grado e contra buona usanza, 3.3.117 non fu dal vel del cor già mai disciolta. 3.3.118 Quest' è la luce de la gran Costanza 3.3.119 che del secondo vento di Soave 3.3.120 generò 'l terzo e l' ultima possanza». 3.3.121 Così parlommi, e poi cominciò "Ave, 3.3.122 Maria"cantando, e cantando vanio 3.3.123 come per acqua cupa cosa grave. 3.3.124 La vista mia, che tanto lei seguio 3.3.125 quanto possibil fu, poi che la perse, 3.3.126 volsesi al segno di maggior disio, 3.3.127 e a Beatrice tutta si converse; 3.3.128 ma quella folgorò nel mïo sguardo 3.3.129 sì che da prima il viso non sofferse; 3.3.130 e ciò mi fece a dimandar più tardo.
CANTO IV
3.4.1 Intra due cibi, distanti e moventi 3.4.2 d' un modo, prima si morria di fame, 3.4.3 che liber' omo l' un recasse ai denti; 3.4.4 sì si starebbe un agno intra due brame 3.4.5 di fieri lupi, igualmente temendo; 3.4.6 sì si starebbe un cane intra due dame: 3.4.7 per che, s' i' mi tacea, me non riprendo, 3.4.8 da li miei dubbi d' un modo sospinto, 3.4.9 poi ch' era necessario, né commendo. 3.4.10 Io mi tacea, ma 'l mio disir dipinto 3.4.11 m' era nel viso, e 'l dimandar con ello, 3.4.12 più caldo assai che per parlar distinto. 3.4.13 Fé sì Beatrice qual fé Danïello, 3.4.14 Nabuccodonosor levando d' ira, 3.4.15 che l' avea fatto ingiustamente fello; 3.4.16 e disse: «Io veggio ben come ti tira 3.4.17 uno e altro disio, sì che tua cura 3.4.18 sé stessa lega sì che fuor non spira. 3.4.19 Tu argomenti: "Se 'l buon voler dura, 3.4.20 la vïolenza altrui per qual ragione 3.4.21 di meritar mi scema la misura?". 3.4.22 Ancor di dubitar ti dà cagione 3.4.23 parer tornarsi l' anime a le stelle, 3.4.24 secondo la sentenza di Platone. 3.4.25 Queste son le question che nel tuo velle 3.4.26 pontano igualmente; e però pria 3.4.27 tratterò quella che più ha di felle. 3.4.28 D' i Serafin colui che più s' india, 3.4.29 Möisè, Samuel, e quel Giovanni 3.4.30 che prender vuoli, io dico, non Maria, 3.4.31 non hanno in altro cielo i loro scanni 3.4.32 che questi spirti che mo t' appariro, 3.4.33 né hanno a l' esser lor più o meno anni; 3.4.34 ma tutti fanno bello il primo giro, 3.4.35 e differentemente han dolce vita 3.4.36 per sentir più e men l' etterno spiro. 3.4.37 Qui si mostraro, non perché sortita 3.4.38 sia questa spera lor, ma per far segno 3.4.39 de la celestïal c' ha men salita. 3.4.40 Così parlar conviensi al vostro ingegno, 3.4.41 però che solo da sensato apprende 3.4.42 ciò che fa poscia d' intelletto degno. 3.4.43 Per questo la Scrittura condescende 3.4.44 a vostra facultate, e piedi e mano 3.4.45 attribuisce a Dio e altro intende; 3.4.46 e Santa Chiesa con aspetto umano 3.4.47 Gabrïel e Michel vi rappresenta, 3.4.48 e l' altro che Tobia rifece sano. 3.4.49 Quel che Timeo de l' anime argomenta 3.4.50 non è simile a ciò che qui si vede, 3.4.51 però che, come dice, par che senta. 3.4.52 Dice che l' alma a la sua stella riede, 3.4.53 credendo quella quindi esser decisa 3.4.54 quando natura per forma la diede; 3.4.55 e forse sua sentenza è d' altra guisa 3.4.56 che la voce non suona, ed esser puote 3.4.57 con intenzion da non esser derisa. 3.4.58 S' elli intende tornare a queste ruote 3.4.59 l' onor de la influenza e 'l biasmo, forse 3.4.60 in alcun vero suo arco percuote. 3.4.61 Questo principio, male inteso, torse 3.4.62 già tutto il mondo quasi, sì che Giove, 3.4.63 Mercurio e Marte a nominar trascorse. 3.4.64 L' altra dubitazion che ti commove 3.4.65 ha men velen, però che sua malizia 3.4.66 non ti poria menar da me altrove. 3.4.67 Parere ingiusta la nostra giustizia 3.4.68 ne li occhi d' i mortali, è argomento 3.4.69 di fede e non d' eretica nequizia. 3.4.70 Ma perché puote vostro accorgimento 3.4.71 ben penetrare a questa veritate, 3.4.72 come disiri, ti farò contento. 3.4.73 Se vïolenza è quando quel che pate 3.4.74 nïente conferisce a quel che sforza, 3.4.75 non fuor quest' alme per essa scusate: 3.4.76 ché volontà, se non vuol, non s' ammorza, 3.4.77 ma fa come natura face in foco, 3.4.78 se mille volte vïolenza il torza. 3.4.79 Per che, s' ella si piega assai o poco, 3.4.80 segue la forza; e così queste fero 3.4.81 possendo rifuggir nel santo loco. 3.4.82 Se fosse stato lor volere intero, 3.4.83 come tenne Lorenzo in su la grada, 3.4.84 e fece Muzio a la sua man severo, 3.4.85 così l' avria ripinte per la strada 3.4.86 ond' eran tratte, come fuoro sciolte; 3.4.87 ma così salda voglia è troppo rada. 3.4.88 E per queste parole, se ricolte 3.4.89 l' hai come dei, è l' argomento casso 3.4.90 che t' avria fatto noia ancor più volte. 3.4.91 Ma or ti s' attraversa un altro passo 3.4.92 dinanzi a li occhi, tal che per te stesso 3.4.93 non usciresti: pria saresti lasso. 3.4.94 Io t' ho per certo ne la mente messo 3.4.95 ch' alma beata non poria mentire, 3.4.96 però ch' è sempre al primo vero appresso; 3.4.97 e poi potesti da Piccarda udire 3.4.98 che l' affezion del vel Costanza tenne; 3.4.99 sì ch' ella par qui meco contradire. 3.4.100 Molte fïate già, frate, addivenne 3.4.101 che, per fuggir periglio, contra grato 3.4.102 si fé di quel che far non si convenne; 3.4.103 come Almeone, che, di ciò pregato 3.4.104 dal padre suo, la propria madre spense, 3.4.105 per non perder pietà si fé spietato. 3.4.106 A questo punto voglio che tu pense 3.4.107 che la forza al voler si mischia, e fanno 3.4.108 sì che scusar non si posson l' offense. 3.4.109 Voglia assoluta non consente al danno; 3.4.110 ma consentevi in tanto in quanto teme, 3.4.111 se si ritrae, cadere in più affanno. 3.4.112 Però, quando Piccarda quello spreme, 3.4.113 de la voglia assoluta intende, e io 3.4.114 de l' altra; sì che ver diciamo insieme». 3.4.115 Cotal fu l' ondeggiar del santo rio 3.4.116 ch' uscì del fonte ond' ogne ver deriva; 3.4.117 tal puose in pace uno e altro disio. 3.4.118 «O amanza del primo amante, o diva», 3.4.119 diss' io appresso, «il cui parlar m' inonda 3.4.120 e scalda sì, che più e più m' avviva, 3.4.121 non è l' affezion mia tanto profonda, 3.4.122 che basti a render voi grazia per grazia; 3.4.123 ma quei che vede e puote a ciò risponda. 3.4.124 Io veggio ben che già mai non si sazia 3.4.125 nostro intelletto, se 'l ver non lo illustra 3.4.126 di fuor dal qual nessun vero si spazia. 3.4.127 Posasi in esso, come fera in lustra, 3.4.128 tosto che giunto l' ha; e giugner puollo: 3.4.129 se non, ciascun disio sarebbe frustra. 3.4.130 Nasce per quello, a guisa di rampollo, 3.4.131 a piè del vero il dubbio; ed è natura 3.4.132 ch' al sommo pinge noi di collo in collo. 3.4.133 Questo m' invita, questo m' assicura 3.4.134 con reverenza, donna, a dimandarvi 3.4.135 d' un' altra verità che m' è oscura. 3.4.136 Io vo' saper se l' uom può sodisfarvi 3.4.137 ai voti manchi sì con altri beni, 3.4.138 ch' a la vostra statera non sien parvi». 3.4.139 Beatrice mi guardò con li occhi pieni 3.4.140 di faville d' amor così divini, 3.4.141 che, vinta, mia virtute diè le reni, 3.4.142 e quasi mi perdei con li occhi chini.
CANTO V
3.5.1 «S' io ti fiammeggio nel caldo d' amore 3.5.2 di là dal modo che 'n terra si vede, 3.5.3 sì che del viso tuo vinco il valore, 3.5.4 non ti maravigliar, ché ciò procede 3.5.5 da perfetto veder, che, come apprende, 3.5.6 così nel bene appreso move il piede. 3.5.7 Io veggio ben sì come già resplende 3.5.8 ne l' intelletto tuo l' etterna luce, 3.5.9 che, vista, sola e sempre amore accende; 3.5.10 e s' altra cosa vostro amor seduce, 3.5.11 non è se non di quella alcun vestigio, 3.5.12 mal conosciuto, che quivi traluce. 3.5.13 Tu vuo' saper se con altro servigio, 3.5.14 per manco voto, si può render tanto 3.5.15 che l' anima sicuri di letigio». 3.5.16 Sì cominciò Beatrice questo canto; 3.5.17 e sì com' uom che suo parlar non spezza, 3.5.18 continüò così 'l processo santo: 3.5.19 «Lo maggior don che Dio per sua larghezza 3.5.20 fesse creando, e a la sua bontate 3.5.21 più conformato, e quel ch' e' più apprezza, 3.5.22 fu de la volontà la libertate; 3.5.23 di che le creature intelligenti, 3.5.24 e tutte e sole, fuoro e son dotate. 3.5.25 Or ti parrà, se tu quinci argomenti, 3.5.26 l' alto valor del voto, s' è sì fatto 3.5.27 che Dio consenta quando tu consenti; 3.5.28 ché, nel fermar tra Dio e l' omo il patto, 3.5.29 vittima fassi di questo tesoro, 3.5.30 tal quale io dico; e fassi col suo atto. 3.5.31 Dunque che render puossi per ristoro? 3.5.32 Se credi bene usar quel c' hai offerto, 3.5.33 di maltolletto vuo' far buon lavoro. 3.5.34 Tu se' omai del maggior punto certo; 3.5.35 ma perché Santa Chiesa in ciò dispensa, 3.5.36 che par contra lo ver ch' i' t' ho scoverto, 3.5.37 convienti ancor sedere un poco a mensa, 3.5.38 però che 'l cibo rigido c' hai preso, 3.5.39 richiede ancora aiuto a tua dispensa. 3.5.40 Apri la mente a quel ch' io ti paleso 3.5.41 e fermalvi entro; ché non fa scïenza, 3.5.42 sanza lo ritenere, avere inteso. 3.5.43 Due cose si convegnono a l' essenza 3.5.44 di questo sacrificio: l' una è quella 3.5.45 di che si fa; l' altr' è la convenenza. 3.5.46 Quest' ultima già mai non si cancella 3.5.47 se non servata; e intorno di lei 3.5.48 sì preciso di sopra si favella: 3.5.49 però necessitato fu a li Ebrei 3.5.50 pur l' offerere, ancor ch' alcuna offerta 3.5.51 si permutasse, come saver dei. 3.5.52 L' altra, che per materia t' è aperta, 3.5.53 puote ben esser tal, che non si falla 3.5.54 se con altra materia si converta. 3.5.55 Ma non trasmuti carco a la sua spalla 3.5.56 per suo arbitrio alcun, sanza la volta 3.5.57 e de la chiave bianca e de la gialla; 3.5.58 e ogne permutanza credi stolta, 3.5.59 se la cosa dimessa in la sorpresa 3.5.60 come 'l quattro nel sei non è raccolta. 3.5.61 Però qualunque cosa tanto pesa 3.5.62 per suo valor che tragga ogne bilancia, 3.5.63 sodisfar non si può con altra spesa. 3.5.64 Non prendan li mortali il voto a ciancia; 3.5.65 siate fedeli, e a ciò far non bieci, 3.5.66 come Ieptè a la sua prima mancia; 3.5.67 cui più si convenia dicer "Mal feci", 3.5.68 che, servando, far peggio; e così stolto 3.5.69 ritrovar puoi il gran duca de' Greci, 3.5.70 onde pianse Efigènia il suo bel volto, 3.5.71 e fé pianger di sé i folli e i savi 3.5.72 ch' udir parlar di così fatto cólto. 3.5.73 Siate, Cristiani, a muovervi più gravi: 3.5.74 non siate come penna ad ogne vento, 3.5.75 e non crediate ch' ogne acqua vi lavi. 3.5.76 Avete il novo e 'l vecchio Testamento, 3.5.77 e 'l pastor de la Chiesa che vi guida; 3.5.78 questo vi basti a vostro salvamento. 3.5.79 Se mala cupidigia altro vi grida, 3.5.80 uomini siate, e non pecore matte, 3.5.81 sì che 'l Giudeo di voi tra voi non rida! 3.5.82 Non fate com' agnel che lascia il latte 3.5.83 de la sua madre, e semplice e lascivo 3.5.84 seco medesmo a suo piacer combatte!». 3.5.85 Così Beatrice a me com' ïo scrivo; 3.5.86 poi si rivolse tutta disïante 3.5.87 a quella parte ove 'l mondo è più vivo. 3.5.88 Lo suo tacere e 'l trasmutar sembiante 3.5.89 puoser silenzio al mio cupido ingegno, 3.5.90 che già nuove questioni avea davante; 3.5.91 e sì come saetta che nel segno 3.5.92 percuote pria che sia la corda queta, 3.5.93 così corremmo nel secondo regno. 3.5.94 Quivi la donna mia vid' io sì lieta, 3.5.95 come nel lume di quel ciel si mise, 3.5.96 che più lucente se ne fé 'l pianeta. 3.5.97 E se la stella si cambiò e rise, 3.5.98 qual mi fec' io che pur da mia natura 3.5.99 trasmutabile son per tutte guise! 3.5.100 Come 'n peschiera ch' è tranquilla e pura 3.5.101 traggonsi i pesci a ciò che vien di fori 3.5.102 per modo che lo stimin lor pastura, 3.5.103 sì vid' io ben più di mille splendori 3.5.104 trarsi ver' noi, e in ciascun s' udia: 3.5.105 «Ecco chi crescerà li nostri amori». 3.5.106 E sì come ciascuno a noi venìa, 3.5.107 vedeasi l' ombra piena di letizia 3.5.108 nel folgór chiaro che di lei uscia. 3.5.109 Pensa, lettor, se quel che qui s' inizia 3.5.110 non procedesse, come tu avresti 3.5.111 di più savere angosciosa carizia; 3.5.112 e per te vederai come da questi 3.5.113 m' era in disio d' udir lor condizioni, 3.5.114 sì come a li occhi mi fur manifesti. 3.5.115 «O bene nato a cui veder li troni 3.5.116 del trïunfo etternal concede grazia 3.5.117 prima che la milizia s' abbandoni, 3.5.118 del lume che per tutto il ciel si spazia 3.5.119 noi semo accesi; e però, se disii 3.5.120 di noi chiarirti, a tuo piacer ti sazia». 3.5.121 Così da un di quelli spirti pii 3.5.122 detto mi fu; e da Beatrice: «Dì, dì 3.5.123 sicuramente, e credi come a dii». 3.5.124 «Io veggio ben sì come tu t' annidi 3.5.125 nel proprio lume, e che de li occhi il traggi, 3.5.126 perch' e' corusca sì come tu ridi; 3.5.127 ma non so chi tu se', né perché aggi, 3.5.128 anima degna, il grado de la spera 3.5.129 che si vela a' mortai con altrui raggi». 3.5.130 Questo diss' io diritto a la lumera 3.5.131 che pria m' avea parlato; ond' ella fessi 3.5.132 lucente più assai di quel ch' ell' era. 3.5.133 Sì come il sol che si cela elli stessi 3.5.134 per troppa luce, come 'l caldo ha róse 3.5.135 le temperanze d' i vapori spessi, 3.5.136 per più letizia sì mi si nascose 3.5.137 dentro al suo raggio la figura santa; 3.5.138 e così chiusa chiusa mi rispuose 3.5.139 nel modo che 'l seguente canto canta.
CANTO VI
3.6.1 «Poscia che Costantin l' aquila volse 3.6.2 contr' al corso del ciel, ch' ella seguio 3.6.3 dietro a l' antico che Lavina tolse, 3.6.4 cento e cent' anni e più l' uccel di Dio 3.6.5 ne lo stremo d' Europa si ritenne, 3.6.6 vicino a' monti de' quai prima uscìo; 3.6.7 e sotto l' ombra de le sacre penne 3.6.8 governò 'l mondo lì di mano in mano, 3.6.9 e, sì cangiando, in su la mia pervenne. 3.6.10 Cesare fui e son Iustinïano, 3.6.11 che, per voler del primo amor ch' i' sento, 3.6.12 d' entro le leggi trassi il troppo e 'l vano. 3.6.13 E prima ch' io a l' ovra fossi attento, 3.6.14 una natura in Cristo esser, non piùe, 3.6.15 credea, e di tal fede era contento; 3.6.16 ma 'l benedetto Agapito, che fue 3.6.17 sommo pastore, a la fede sincera 3.6.18 mi dirizzò con le parole sue. 3.6.19 Io li credetti; e ciò che 'n sua fede era, 3.6.20 vegg' io or chiaro sì, come tu vedi 3.6.21 ogne contradizione e falsa e vera. 3.6.22 Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, 3.6.23 a Dio per grazia piacque di spirarmi 3.6.24 l' alto lavoro, e tutto 'n lui mi diedi; 3.6.25 e al mio Belisar commendai l' armi, 3.6.26 cui la destra del ciel fu sì congiunta, 3.6.27 che segno fu ch' i' dovessi posarmi. 3.6.28 Or qui a la question prima s' appunta 3.6.29 la mia risposta; ma sua condizione 3.6.30 mi stringe a seguitare alcuna giunta, 3.6.31 perché tu veggi con quanta ragione 3.6.32 si move contr' al sacrosanto segno 3.6.33 e chi 'l s' appropria e chi a lui s' oppone. 3.6.34 Vedi quanta virtù l' ha fatto degno 3.6.35 di reverenza; e cominciò da l' ora 3.6.36 che Pallante morì per darli regno. 3.6.37 Tu sai ch' el fece in Alba sua dimora 3.6.38 per trecento anni e oltre, infino al fine 3.6.39 che i tre a' tre pugnar per lui ancora. 3.6.40 E sai ch' el fé dal mal de le Sabine 3.6.41 al dolor di Lucrezia in sette regi, 3.6.42 vincendo intorno le genti vicine. 3.6.43 Sai quel ch' el fé portato da li egregi 3.6.44 Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro, 3.6.45 incontro a li altri principi e collegi; 3.6.46 onde Torquato e Quinzio, che dal cirro 3.6.47 negletto fu nomato, i Deci e ' Fabi 3.6.48 ebber la fama che volontier mirro. 3.6.49 Esso atterrò l' orgoglio de li Aràbi 3.6.50 che di retro ad Anibale passaro 3.6.51 l' alpestre rocce, Po, di che tu labi. 3.6.52 Sott' esso giovanetti trïunfaro 3.6.53 Scipïone e Pompeo; e a quel colle 3.6.54 sotto 'l qual tu nascesti parve amaro. 3.6.55 Poi, presso al tempo che tutto 'l ciel volle 3.6.56 redur lo mondo a suo modo sereno, 3.6.57 Cesare per voler di Roma il tolle. 3.6.58 E quel che fé da Varo infino a Reno, 3.6.59 Isara vide ed Era e vide Senna 3.6.60 e ogne valle onde Rodano è pieno. 3.6.61 Quel che fé poi ch' elli uscì di Ravenna 3.6.62 e saltò Rubicon, fu di tal volo, 3.6.63 che nol seguiteria lingua né penna. 3.6.64 Inver' la Spagna rivolse lo stuolo, 3.6.65 poi ver' Durazzo, e Farsalia percosse 3.6.66 sì ch' al Nil caldo si sentì del duolo. 3.6.67 Antandro e Simeonta, onde si mosse, 3.6.68 rivide e là dov' Ettore si cuba; 3.6.69 e mal per Tolomeo poscia si scosse. 3.6.70 Da indi scese folgorando a Iuba; 3.6.71 onde si volse nel vostro occidente, 3.6.72 ove sentia la pompeana tuba. 3.6.73 Di quel che fé col baiulo seguente, 3.6.74 Bruto con Cassio ne l' inferno latra, 3.6.75 e Modena e Perugia fu dolente. 3.6.76 Piangene ancor la trista Cleopatra, 3.6.77 che, fuggendoli innanzi, dal colubro 3.6.78 la morte prese subitana e atra. 3.6.79 Con costui corse infino al lito rubro; 3.6.80 con costui puose il mondo in tanta pace, 3.6.81 che fu serrato a Giano il suo delubro. 3.6.82 Ma ciò che 'l segno che parlar mi face 3.6.83 fatto avea prima e poi era fatturo 3.6.84 per lo regno mortal ch' a lui soggiace, 3.6.85 diventa in apparenza poco e scuro, 3.6.86 se in mano al terzo Cesare si mira 3.6.87 con occhio chiaro e con affetto puro; 3.6.88 ché la viva giustizia che mi spira, 3.6.89 li concedette, in mano a quel ch' i' dico, 3.6.90 gloria di far vendetta a la sua ira. 3.6.91 Or qui t' ammira in ciò ch' io ti replìco: 3.6.92 poscia con Tito a far vendetta corse 3.6.93 de la vendetta del peccato antico. 3.6.94 E quando il dente longobardo morse 3.6.95 la Santa Chiesa, sotto le sue ali 3.6.96 Carlo Magno, vincendo, la soccorse. 3.6.97 Omai puoi giudicar di quei cotali 3.6.98 ch' io accusai di sopra e di lor falli, 3.6.99 che son cagion di tutti vostri mali. 3.6.100 L' uno al pubblico segno i gigli gialli 3.6.101 oppone, e l' altro appropria quello a parte, 3.6.102 sì ch' è forte a veder chi più si falli. 3.6.103 Faccian li Ghibellin, faccian lor arte 3.6.104 sott' altro segno, ché mal segue quello 3.6.105 sempre chi la giustizia e lui diparte; 3.6.106 e non l' abbatta esto Carlo novello 3.6.107 coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli 3.6.108 ch' a più alto leon trasser lo vello. 3.6.109 Molte fïate già pianser li figli 3.6.110 per la colpa del padre, e non si creda 3.6.111 che Dio trasmuti l' armi per suoi gigli! 3.6.112 Questa picciola stella si correda 3.6.113 d' i buoni spirti che son stati attivi 3.6.114 perché onore e fama li succeda: 3.6.115 e quando li disiri poggian quivi, 3.6.116 sì disvïando, pur convien che i raggi 3.6.117 del vero amore in sù poggin men vivi. 3.6.118 Ma nel commensurar d' i nostri gaggi 3.6.119 col merto è parte di nostra letizia, 3.6.120 perché non li vedem minor né maggi. 3.6.121 Quindi addolcisce la viva giustizia 3.6.122 in noi l' affetto sì, che non si puote 3.6.123 torcer già mai ad alcuna nequizia. 3.6.124 Diverse voci fanno dolci note; 3.6.125 così diversi scanni in nostra vita 3.6.126 rendon dolce armonia tra queste rote. 3.6.127 E dentro a la presente margarita 3.6.128 luce la luce di Romeo, di cui 3.6.129 fu l' ovra grande e bella mal gradita. 3.6.130 Ma i Provenzai che fecer contra lui 3.6.131 non hanno riso; e però mal cammina 3.6.132 qual si fa danno del ben fare altrui. 3.6.133 Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina, 3.6.134 Ramondo Beringhiere, e ciò li fece 3.6.135 Romeo, persona umìle e peregrina. 3.6.136 E poi il mosser le parole biece 3.6.137 a dimandar ragione a questo giusto, 3.6.138 che li assegnò sette e cinque per diece, 3.6.139 indi partissi povero e vetusto; 3.6.140 e se 'l mondo sapesse il cor ch' elli ebbe 3.6.141 mendicando sua vita a frusto a frusto, 3.6.142 assai lo loda, e più lo loderebbe».
CANTO VII
3.7.1 «Osanna, sanctus Deus sabaòth, 3.7.2 superillustrans claritate tua 3.7.3 felices ignes horum malacòth!». 3.7.4 Così, volgendosi a la nota sua, 3.7.5 fu viso a me cantare essa sustanza, 3.7.6 sopra la qual doppio lume s' addua; 3.7.7 ed essa e l' altre mossero a sua danza, 3.7.8 e quasi velocissime faville 3.7.9 mi si velar di sùbita distanza. 3.7.10 Io dubitava e dicea "Dille, dille!" 3.7.11 fra me, "dille"dicea, "a la mia donna 3.7.12 che mi diseta con le dolci stille". 3.7.13 Ma quella reverenza che s' indonna 3.7.14 di tutto me, pur per Be e per ice, 3.7.15 mi richinava come l' uom ch' assonna. 3.7.16 Poco sofferse me cotal Beatrice 3.7.17 e cominciò, raggiandomi d' un riso 3.7.18 tal, che nel foco faria l' uom felice: 3.7.19 «Secondo mio infallibile avviso, 3.7.20 come giusta vendetta giustamente 3.7.21 punita fosse, t' ha in pensier miso; 3.7.22 ma io ti solverò tosto la mente; 3.7.23 e tu ascolta, ché le mie parole 3.7.24 di gran sentenza ti faran presente. 3.7.25 Per non soffrire a la virtù che vole 3.7.26 freno a suo prode, quell' uom che non nacque, 3.7.27 dannando sé, dannò tutta sua prole; 3.7.28 onde l' umana specie inferma giacque 3.7.29 giù per secoli molti in grande errore, 3.7.30 fin ch' al Verbo di Dio discender piacque 3.7.31 u' la natura, che dal suo fattore 3.7.32 s' era allungata, unì a sé in persona 3.7.33 con l' atto sol del suo etterno amore. 3.7.34 Or drizza il viso a quel ch' or si ragiona: 3.7.35 questa natura al suo fattore unita, 3.7.36 qual fu creata, fu sincera e buona; 3.7.37 ma per sé stessa pur fu ella sbandita 3.7.38 di paradiso, però che si torse 3.7.39 da via di verità e da sua vita. 3.7.40 La pena dunque che la croce porse 3.7.41 s' a la natura assunta si misura, 3.7.42 nulla già mai sì giustamente morse; 3.7.43 e così nulla fu di tanta ingiura, 3.7.44 guardando a la persona che sofferse, 3.7.45 in che era contratta tal natura. 3.7.46 Però d' un atto uscir cose diverse: 3.7.47 ch' a Dio e a' Giudei piacque una morte; 3.7.48 per lei tremò la terra e 'l ciel s' aperse. 3.7.49 Non ti dee oramai parer più forte, 3.7.50 quando si dice che giusta vendetta 3.7.51 poscia vengiata fu da giusta corte. 3.7.52 Ma io veggi' or la tua mente ristretta 3.7.53 di pensiero in pensier dentro ad un nodo, 3.7.54 del qual con gran disio solver s' aspetta. 3.7.55 Tu dici: "Ben discerno ciò ch' i' odo; 3.7.56 ma perché Dio volesse, m' è occulto, 3.7.57 a nostra redenzion pur questo modo". 3.7.58 Questo decreto, frate, sta sepulto 3.7.59 a li occhi di ciascuno il cui ingegno 3.7.60 ne la fiamma d' amor non è adulto. 3.7.61 Veramente, però ch' a questo segno 3.7.62 molto si mira e poco si discerne, 3.7.63 dirò perché tal modo fu più degno. 3.7.64 La divina bontà, che da sé sperne 3.7.65 ogne livore, ardendo in sé, sfavilla 3.7.66 sì che dispiega le bellezze etterne. 3.7.67 Ciò che da lei sanza mezzo distilla 3.7.68 non ha poi fine, perché non si move 3.7.69 la sua imprenta quand' ella sigilla. 3.7.70 Ciò che da essa sanza mezzo piove 3.7.71 libero è tutto, perché non soggiace 3.7.72 a la virtute de le cose nove. 3.7.73 Più l' è conforme, e però più le piace; 3.7.74 ché l' ardor santo ch' ogne cosa raggia, 3.7.75 ne la più somigliante è più vivace. 3.7.76 Di tutte queste dote s' avvantaggia 3.7.77 l' umana creatura, e s' una manca, 3.7.78 di sua nobilità convien che caggia. 3.7.79 Solo il peccato è quel che la disfranca 3.7.80 e falla dissimìle al sommo bene, 3.7.81 per che del lume suo poco s' imbianca; 3.7.82 e in sua dignità mai non rivene, 3.7.83 se non rïempie, dove colpa vòta, 3.7.84 contra mal dilettar con giuste pene. 3.7.85 Vostra natura, quando peccò tota 3.7.86 nel seme suo, da queste dignitadi, 3.7.87 come di paradiso, fu remota; 3.7.88 né ricovrar potiensi, se tu badi 3.7.89 ben sottilmente, per alcuna via, 3.7.90 sanza passar per un di questi guadi: 3.7.91 o che Dio solo per sua cortesia 3.7.92 dimesso avesse, o che l' uom per sé isso 3.7.93 avesse sodisfatto a sua follia. 3.7.94 Ficca mo l' occhio per entro l' abisso 3.7.95 de l' etterno consiglio, quanto puoi 3.7.96 al mio parlar distrettamente fisso. 3.7.97 Non potea l' uomo ne' termini suoi 3.7.98 mai sodisfar, per non potere ir giuso 3.7.99 con umiltate obedïendo poi, 3.7.100 quanto disobediendo intese ir suso; 3.7.101 e questa è la cagion per che l' uom fue 3.7.102 da poter sodisfar per sé dischiuso. 3.7.103 Dunque a Dio convenia con le vie sue 3.7.104 riparar l' omo a sua intera vita, 3.7.105 dico con l' una, o ver con amendue. 3.7.106 Ma perché l' ovra tanto è più gradita 3.7.107 da l' operante, quanto più appresenta 3.7.108 de la bontà del core ond' ell' è uscita, 3.7.109 la divina bontà che 'l mondo imprenta, 3.7.110 di proceder per tutte le sue vie, 3.7.111 a rilevarvi suso, fu contenta. 3.7.112 Né tra l' ultima notte e 'l primo die 3.7.113 sì alto o sì magnifico processo, 3.7.114 o per l' una o per l' altra, fu o fie: 3.7.115 ché più largo fu Dio a dar sé stesso 3.7.116 per far l' uom sufficiente a rilevarsi, 3.7.117 che s' elli avesse sol da sé dimesso; 3.7.118 e tutti li altri modi erano scarsi 3.7.119 a la giustizia, se 'l Figliuol di Dio 3.7.120 non fosse umilïato ad incarnarsi. 3.7.121 Or per empierti bene ogne disio, 3.7.122 ritorno a dichiararti in alcun loco, 3.7.123 perché tu veggi lì così com' io. 3.7.124 Tu dici: "Io veggio l' acqua, io veggio il foco, 3.7.125 l' aere e la terra e tutte lor misture 3.7.126 venire a corruzione, e durar poco; 3.7.127 e queste cose pur furon creature; 3.7.128 per che, se ciò ch' è detto è stato vero, 3.7.129 esser dovrien da corruzion sicure". 3.7.130 Li angeli, frate, e 'l paese sincero 3.7.131 nel qual tu se', dir si posson creati, 3.7.132 sì come sono, in loro essere intero; 3.7.133 ma li alimenti che tu hai nomati 3.7.134 e quelle cose che di lor si fanno 3.7.135 da creata virtù sono informati. 3.7.136 Creata fu la materia ch' elli hanno; 3.7.137 creata fu la virtù informante 3.7.138 in queste stelle che 'ntorno a lor vanno. 3.7.139 L' anima d' ogne bruto e de le piante 3.7.140 di complession potenzïata tira 3.7.141 lo raggio e 'l moto de le luci sante; 3.7.142 ma vostra vita sanza mezzo spira 3.7.143 la somma beninanza, e la innamora 3.7.144 di sé sì che poi sempre la disira. 3.7.145 E quinci puoi argomentare ancora 3.7.146 vostra resurrezion, se tu ripensi 3.7.147 come l' umana carne fessi allora 3.7.148 che li primi parenti intrambo fensi».
CANTO VIII
3.8.1 Solea creder lo mondo in suo periclo 3.8.2 che la bella Ciprigna il folle amore 3.8.3 raggiasse, volta nel terzo epiciclo; 3.8.4 per che non pur a lei faceano onore 3.8.5 di sacrificio e di votivo grido 3.8.6 le genti antiche ne l' antico errore; 3.8.7 ma Dïone onoravano e Cupido, 3.8.8 quella per madre sua, questo per figlio, 3.8.9 e dicean ch' el sedette in grembo a Dido; 3.8.10 e da costei ond' io principio piglio 3.8.11 pigliavano il vocabol de la stella 3.8.12 che 'l sol vagheggia or da coppa or da ciglio. 3.8.13 Io non m' accorsi del salire in ella; 3.8.14 ma d' esservi entro mi fé assai fede 3.8.15 la donna mia ch' i' vidi far più bella. 3.8.16 E come in fiamma favilla si vede, 3.8.17 e come in voce voce si discerne, 3.8.18 quand' una è ferma e altra va e riede, 3.8.19 vid' io in essa luce altre lucerne 3.8.20 muoversi in giro più e men correnti, 3.8.21 al modo, credo, di lor viste interne. 3.8.22 Di fredda nube non disceser venti, 3.8.23 o visibili o no, tanto festini, 3.8.24 che non paressero impediti e lenti 3.8.25 a chi avesse quei lumi divini 3.8.26 veduti a noi venir, lasciando il giro 3.8.27 pria cominciato in li alti Serafini; 3.8.28 e dentro a quei che più innanzi appariro 3.8.29 sonava "Osanna"sì, che unque poi 3.8.30 di rïudir non fui sanza disiro. 3.8.31 Indi si fece l' un più presso a noi 3.8.32 e solo incominciò: «Tutti sem presti 3.8.33 al tuo piacer, perché di noi ti gioi. 3.8.34 Noi ci volgiam coi principi celesti 3.8.35 d' un giro e d' un girare e d' una sete, 3.8.36 ai quali tu del mondo già dicesti: 3.8.37 "Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete"; 3.8.38 e sem sì pien d' amor, che, per piacerti, 3.8.39 non fia men dolce un poco di quïete». 3.8.40 Poscia che li occhi miei si fuoro offerti 3.8.41 a la mia donna reverenti, ed essa 3.8.42 fatti li avea di sé contenti e certi, 3.8.43 rivolsersi a la luce che promessa 3.8.44 tanto s' avea, e «Deh, chi siete?»fue 3.8.45 la voce mia di grande affetto impressa. 3.8.46 E quanta e quale vid' io lei far piùe 3.8.47 per allegrezza nova che s' accrebbe, 3.8.48 quando parlai, a l' allegrezze sue! 3.8.49 Così fatta, mi disse: «Il mondo m' ebbe 3.8.50 giù poco tempo; e se più fosse stato, 3.8.51 molto sarà di mal, che non sarebbe. 3.8.52 La mia letizia mi ti tien celato 3.8.53 che mi raggia dintorno e mi nasconde 3.8.54 quasi animal di sua seta fasciato. 3.8.55 Assai m' amasti, e avesti ben onde; 3.8.56 che s' io fossi giù stato, io ti mostrava 3.8.57 di mio amor più oltre che le fronde. 3.8.58 Quella sinistra riva che si lava 3.8.59 di Rodano poi ch' è misto con Sorga, 3.8.60 per suo segnore a tempo m' aspettava, 3.8.61 e quel corno d' Ausonia che s' imborga 3.8.62 di Bari e di Gaeta e di Catona, 3.8.63 da ove Tronto e Verde in mare sgorga. 3.8.64 Fulgeami già in fronte la corona 3.8.65 di quella terra che 'l Danubio riga 3.8.66 poi che le ripe tedesche abbandona. 3.8.67 E la bella Trinacria, che caliga 3.8.68 tra Pachino e Peloro, sopra 'l golfo 3.8.69 che riceve da Euro maggior briga, 3.8.70 non per Tifeo ma per nascente solfo, 3.8.71 attesi avrebbe li suoi regi ancora, 3.8.72 nati per me di Carlo e di Ridolfo, 3.8.73 se mala segnoria, che sempre accora 3.8.74 li popoli suggetti, non avesse 3.8.75 mosso Palermo a gridar: "Mora, mora!". 3.8.76 E se mio frate questo antivedesse, 3.8.77 l' avara povertà di Catalogna 3.8.78 già fuggeria, perché non li offendesse; 3.8.79 ché veramente proveder bisogna 3.8.80 per lui, o per altrui, sì ch' a sua barca 3.8.81 carcata più d' incarco non si pogna. 3.8.82 La sua natura, che di larga parca 3.8.83 discese, avria mestier di tal milizia 3.8.84 che non curasse di mettere in arca». 3.8.85 «Però ch' i' credo che l' alta letizia 3.8.86 che 'l tuo parlar m' infonde, segnor mio, 3.8.87 là 've ogne ben si termina e s' inizia, 3.8.88 per te si veggia come la vegg' io, 3.8.89 grata m' è più; e anco quest' ho caro 3.8.90 perché 'l discerni rimirando in Dio. 3.8.91 Fatto m' hai lieto, e così mi fa chiaro, 3.8.92 poi che, parlando, a dubitar m' hai mosso 3.8.93 com' esser può, di dolce seme, amaro». 3.8.94 Questo io a lui; ed elli a me: «S' io posso 3.8.95 mostrarti un vero, a quel che tu dimandi 3.8.96 terrai lo viso come tien lo dosso. 3.8.97 Lo ben che tutto il regno che tu scandi 3.8.98 volge e contenta, fa esser virtute 3.8.99 sua provedenza in questi corpi grandi. 3.8.100 E non pur le nature provedute 3.8.101 sono in la mente ch' è da sé perfetta, 3.8.102 ma esse insieme con la lor salute: 3.8.103 per che quantunque quest' arco saetta 3.8.104 disposto cade a proveduto fine, 3.8.105 sì come cosa in suo segno diretta. 3.8.106 Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine 3.8.107 producerebbe sì li suoi effetti, 3.8.108 che non sarebbero arti, ma ruine; 3.8.109 e ciò esser non può, se li 'ntelletti 3.8.110 che muovon queste stelle non son manchi, 3.8.111 e manco il primo, che non li ha perfetti. 3.8.112 Vuo' tu che questo ver più ti s' imbianchi?». 3.8.113 E io: «Non già; ché impossibil veggio 3.8.114 che la natura, in quel ch' è uopo, stanchi». 3.8.115 Ond' elli ancora: «Or dì: sarebbe il peggio 3.8.116 per l' omo in terra, se non fosse cive?». 3.8.117 «Sì», rispuos' io; «e qui ragion non cheggio». 3.8.118 «E puot' elli esser, se giù non si vive 3.8.119 diversamente per diversi offici? 3.8.120 Non, se 'l maestro vostro ben vi scrive». 3.8.121 Sì venne deducendo infino a quici; 3.8.122 poscia conchiuse: «Dunque esser diverse 3.8.123 convien di vostri effetti le radici: 3.8.124 per ch' un nasce Solone e altro Serse, 3.8.125 altro Melchisedèch e altro quello 3.8.126 che, volando per l' aere, il figlio perse. 3.8.127 La circular natura, ch' è suggello 3.8.128 a la cera mortal, fa ben sua arte, 3.8.129 ma non distingue l' un da l' altro ostello. 3.8.130 Quinci addivien ch' Esaù si diparte 3.8.131 per seme da Iacòb; e vien Quirino 3.8.132 da sì vil padre, che si rende a Marte. 3.8.133 Natura generata il suo cammino 3.8.134 simil farebbe sempre a' generanti, 3.8.135 se non vincesse il proveder divino. 3.8.136 Or quel che t' era dietro t' è davanti: 3.8.137 ma perché sappi che di te mi giova, 3.8.138 un corollario voglio che t' ammanti. 3.8.139 Sempre natura, se fortuna trova 3.8.140 discorde a sé, com' ogne altra semente 3.8.141 fuor di sua regïon, fa mala prova. 3.8.142 E se 'l mondo là giù ponesse mente 3.8.143 al fondamento che natura pone, 3.8.144 seguendo lui, avria buona la gente. 3.8.145 Ma voi torcete a la religïone 3.8.146 tal che fia nato a cignersi la spada, 3.8.147 e fate re di tal ch' è da sermone; 3.8.148 onde la traccia vostra è fuor di strada».
CANTO IX
3.9.1 Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza, 3.9.2 m' ebbe chiarito, mi narrò li 'nganni 3.9.3 che ricever dovea la sua semenza; 3.9.4 ma disse: «Taci e lascia muover li anni»; 3.9.5 sì ch' io non posso dir se non che pianto 3.9.6 giusto verrà di retro ai vostri danni. 3.9.7 E già la vita di quel lume santo 3.9.8 rivolta s' era al Sol che la rïempie 3.9.9 come quel ben ch' a ogne cosa è tanto. 3.9.10 Ahi anime ingannate e fatture empie, 3.9.11 che da sì fatto ben torcete i cuori, 3.9.12 drizzando in vanità le vostre tempie! 3.9.13 Ed ecco un altro di quelli splendori 3.9.14 ver' me si fece, e 'l suo voler piacermi 3.9.15 significava nel chiarir di fori. 3.9.16 Li occhi di Bëatrice, ch' eran fermi 3.9.17 sovra me, come pria, di caro assenso 3.9.18 al mio disio certificato fermi. 3.9.19 «Deh, metti al mio voler tosto compenso, 3.9.20 beato spirto», dissi, «e fammi prova 3.9.21 ch' i' possa in te refletter quel ch' io penso!». 3.9.22 Onde la luce che m' era ancor nova, 3.9.23 del suo profondo, ond' ella pria cantava, 3.9.24 seguette come a cui di ben far giova: 3.9.25 «In quella parte de la terra prava 3.9.26 italica che siede tra Rïalto 3.9.27 e le fontane di Brenta e di Piava, 3.9.28 si leva un colle, e non surge molt' alto, 3.9.29 là onde scese già una facella 3.9.30 che fece a la contrada un grande assalto. 3.9.31 D' una radice nacqui e io ed ella: 3.9.32 Cunizza fui chiamata, e qui refulgo 3.9.33 perché mi vinse il lume d' esta stella; 3.9.34 ma lietamente a me medesma indulgo 3.9.35 la cagion di mia sorte, e non mi noia; 3.9.36 che parria forse forte al vostro vulgo. 3.9.37 Di questa luculenta e cara gioia 3.9.38 del nostro cielo che più m' è propinqua, 3.9.39 grande fama rimase; e pria che moia, 3.9.40 questo centesimo anno ancor s' incinqua: 3.9.41 vedi se far si dee l' omo eccellente, 3.9.42 sì ch' altra vita la prima relinqua. 3.9.43 E ciò non pensa la turba presente 3.9.44 che Tagliamento e Adice richiude, 3.9.45 né per esser battuta ancor si pente; 3.9.46 ma tosto fia che Padova al palude 3.9.47 cangerà l' acqua che Vincenza bagna, 3.9.48 per essere al dover le genti crude; 3.9.49 e dove Sile e Cagnan s' accompagna, 3.9.50 tal signoreggia e va con la testa alta, 3.9.51 che già per lui carpir si fa la ragna. 3.9.52 Piangerà Feltro ancora la difalta 3.9.53 de l' empio suo pastor, che sarà sconcia 3.9.54 sì, che per simil non s' entrò in malta. 3.9.55 Troppo sarebbe larga la bigoncia 3.9.56 che ricevesse il sangue ferrarese, 3.9.57 e stanco chi 'l pesasse a oncia a oncia, 3.9.58 che donerà questo prete cortese 3.9.59 per mostrarsi di parte; e cotai doni 3.9.60 conformi fieno al viver del paese. 3.9.61 Sù sono specchi, voi dicete Troni, 3.9.62 onde refulge a noi Dio giudicante; 3.9.63 sì che questi parlar ne paion buoni». 3.9.64 Qui si tacette; e fecemi sembiante 3.9.65 che fosse ad altro volta, per la rota 3.9.66 in che si mise com' era davante. 3.9.67 L' altra letizia, che m' era già nota 3.9.68 per cara cosa, mi si fece in vista 3.9.69 qual fin balasso in che lo sol percuota. 3.9.70 Per letiziar là sù fulgor s' acquista, 3.9.71 sì come riso qui; ma giù s' abbuia 3.9.72 l' ombra di fuor, come la mente è trista. 3.9.73 «Dio vede tutto, e tuo veder s' inluia», 3.9.74 diss' io, «beato spirto, sì che nulla 3.9.75 voglia di sé a te puot' esser fuia. 3.9.76 Dunque la voce tua, che 'l ciel trastulla 3.9.77 sempre col canto di quei fuochi pii 3.9.78 che di sei ali facen la coculla, 3.9.79 perché non satisface a' miei disii? 3.9.80 Già non attendere' io tua dimanda, 3.9.81 s' io m' intuassi, come tu t' inmii». 3.9.82 «La maggior valle in che l' acqua si spanda», 3.9.83 incominciaro allor le sue parole, 3.9.84 «fuor di quel mar che la terra inghirlanda, 3.9.85 tra ' discordanti liti contra 'l sole 3.9.86 tanto sen va, che fa meridïano 3.9.87 là dove l' orizzonte pria far suole. 3.9.88 Di quella valle fu' io litorano 3.9.89 tra Ebro e Macra, che per cammin corto 3.9.90 parte lo Genovese dal Toscano. 3.9.91 Ad un occaso quasi e ad un orto 3.9.92 Buggea siede e la terra ond' io fui, 3.9.93 che fé del sangue suo già caldo il porto. 3.9.94 Folco mi disse quella gente a cui 3.9.95 fu noto il nome mio; e questo cielo 3.9.96 di me s' imprenta, com' io fe' di lui; 3.9.97 ché più non arse la figlia di Belo, 3.9.98 noiando e a Sicheo e a Creusa, 3.9.99 di me, infin che si convenne al pelo; 3.9.100 né quella Rodopëa che delusa 3.9.101 fu da Demofoonte, né Alcide 3.9.102 quando Iole nel core ebbe rinchiusa. 3.9.103 Non però qui si pente, ma si ride, 3.9.104 non de la colpa, ch' a mente non torna, 3.9.105 ma del valor ch' ordinò e provide. 3.9.106 Qui si rimira ne l' arte ch' addorna 3.9.107 cotanto affetto, e discernesi 'l bene 3.9.108 per che 'l mondo di sù quel di giù torna. 3.9.109 Ma perché tutte le tue voglie piene 3.9.110 ten porti che son nate in questa spera, 3.9.111 procedere ancor oltre mi convene. 3.9.112 Tu vuo' saper chi è in questa lumera 3.9.113 che qui appresso me così scintilla 3.9.114 come raggio di sole in acqua mera. 3.9.115 Or sappi che là entro si tranquilla 3.9.116 Raab; e a nostr' ordine congiunta, 3.9.117 di lei nel sommo grado si sigilla. 3.9.118 Da questo cielo, in cui l' ombra s' appunta 3.9.119 che 'l vostro mondo face, pria ch' altr' alma 3.9.120 del trïunfo di Cristo fu assunta. 3.9.121 Ben si convenne lei lasciar per palma 3.9.122 in alcun cielo de l' alta vittoria 3.9.123 che s' acquistò con l' una e l' altra palma, 3.9.124 perch' ella favorò la prima gloria 3.9.125 di Iosüè in su la Terra Santa, 3.9.126 che poco tocca al papa la memoria. 3.9.127 La tua città, che di colui è pianta 3.9.128 che pria volse le spalle al suo fattore 3.9.129 e di cui è la 'nvidia tanto pianta, 3.9.130 produce e spande il maladetto fiore 3.9.131 c' ha disvïate le pecore e li agni, 3.9.132 però che fatto ha lupo del pastore. 3.9.133 Per questo l' Evangelio e i dottor magni 3.9.134 son derelitti, e solo ai Decretali 3.9.135 si studia, sì che pare a' lor vivagni. 3.9.136 A questo intende il papa e ' cardinali; 3.9.137 non vanno i lor pensieri a Nazarette, 3.9.138 là dove Gabrïello aperse l' ali. 3.9.139 Ma Vaticano e l' altre parti elette 3.9.140 di Roma che son state cimitero 3.9.141 a la milizia che Pietro seguette, 3.9.142 tosto libere fien de l' avoltero».
CANTO X
3.10.1 Guardando nel suo Figlio con l' Amore 3.10.2 che l' uno e l' altro etternalmente spira, 3.10.3 lo primo e ineffabile Valore 3.10.4 quanto per mente e per loco si gira 3.10.5 con tant' ordine fé, ch' esser non puote 3.10.6 sanza gustar di lui chi ciò rimira. 3.10.7 Leva dunque, lettore, a l' alte rote 3.10.8 meco la vista, dritto a quella parte 3.10.9 dove l' un moto e l' altro si percuote; 3.10.10 e lì comincia a vagheggiar ne l' arte 3.10.11 di quel maestro che dentro a sé l' ama, 3.10.12 tanto che mai da lei l' occhio non parte. 3.10.13 Vedi come da indi si dirama 3.10.14 l' oblico cerchio che i pianeti porta, 3.10.15 per sodisfare al mondo che li chiama. 3.10.16 Che se la strada lor non fosse torta, 3.10.17 molta virtù nel ciel sarebbe in vano, 3.10.18 e quasi ogne potenza qua giù morta; 3.10.19 e se dal dritto più o men lontano 3.10.20 fosse 'l partire, assai sarebbe manco 3.10.21 e giù e sù de l' ordine mondano. 3.10.22 Or ti riman, lettor, sovra 'l tuo banco, 3.10.23 dietro pensando a ciò che si preliba, 3.10.24 s' esser vuoi lieto assai prima che stanco. 3.10.25 Messo t' ho innanzi: omai per te ti ciba; 3.10.26 ché a sé torce tutta la mia cura 3.10.27 quella materia ond' io son fatto scriba. 3.10.28 Lo ministro maggior de la natura, 3.10.29 che del valor del ciel lo mondo imprenta 3.10.30 e col suo lume il tempo ne misura, 3.10.31 con quella parte che sù si rammenta 3.10.32 congiunto, si girava per le spire 3.10.33 in che più tosto ognora s' appresenta; 3.10.34 e io era con lui; ma del salire 3.10.35 non m' accors' io, se non com' uom s' accorge, 3.10.36 anzi 'l primo pensier, del suo venire. 3.10.37 È Bëatrice quella che sì scorge 3.10.38 di bene in meglio, sì subitamente 3.10.39 che l' atto suo per tempo non si sporge. 3.10.40 Quant' esser convenia da sé lucente 3.10.41 quel ch' era dentro al sol dov' io entra'mi, 3.10.42 non per color, ma per lume parvente! 3.10.43 Perch' io lo 'ngegno e l' arte e l' uso chiami, 3.10.44 sì nol direi che mai s' imaginasse; 3.10.45 ma creder puossi e di veder si brami. 3.10.46 E se le fantasie nostre son basse 3.10.47 a tanta altezza, non è maraviglia; 3.10.48 ché sopra 'l sol non fu occhio ch' andasse. 3.10.49 Tal era quivi la quarta famiglia 3.10.50 de l' alto Padre, che sempre la sazia, 3.10.51 mostrando come spira e come figlia. 3.10.52 E Bëatrice cominciò: «Ringrazia, 3.10.53 ringrazia il Sol de li angeli, ch' a questo 3.10.54 sensibil t' ha levato per sua grazia». 3.10.55 Cor di mortal non fu mai sì digesto 3.10.56 a divozione e a rendersi a Dio 3.10.57 con tutto 'l suo gradir cotanto presto, 3.10.58 come a quelle parole mi fec' io; 3.10.59 e sì tutto 'l mio amore in lui si mise, 3.10.60 che Bëatrice eclissò ne l' oblio. 3.10.61 Non le dispiacque, ma sì se ne rise, 3.10.62 che lo splendor de li occhi suoi ridenti 3.10.63 mia mente unita in più cose divise. 3.10.64 Io vidi più folgór vivi e vincenti 3.10.65 far di noi centro e di sé far corona, 3.10.66 più dolci in voce che in vista lucenti: 3.10.67 così cinger la figlia di Latona 3.10.68 vedem talvolta, quando l' aere è pregno, 3.10.69 sì che ritenga il fil che fa la zona. 3.10.70 Ne la corte del cielo, ond' io rivegno, 3.10.71 si trovan molte gioie care e belle 3.10.72 tanto che non si posson trar del regno; 3.10.73 e 'l canto di quei lumi era di quelle; 3.10.74 chi non s' impenna sì che là sù voli, 3.10.75 dal muto aspetti quindi le novelle. 3.10.76 Poi, sì cantando, quelli ardenti soli 3.10.77 si fuor girati intorno a noi tre volte, 3.10.78 come stelle vicine a' fermi poli, 3.10.79 donne mi parver, non da ballo sciolte, 3.10.80 ma che s' arrestin tacite, ascoltando 3.10.81 fin che le nove note hanno ricolte. 3.10.82 E dentro a l' un senti' cominciar: «Quando 3.10.83 lo raggio de la grazia, onde s' accende 3.10.84 verace amore e che poi cresce amando, 3.10.85 multiplicato in te tanto resplende, 3.10.86 che ti conduce su per quella scala 3.10.87 u' sanza risalir nessun discende; 3.10.88 qual ti negasse il vin de la sua fiala 3.10.89 per la tua sete, in libertà non fora 3.10.90 se non com' acqua ch' al mar non si cala. 3.10.91 Tu vuo' saper di quai piante s' infiora 3.10.92 questa ghirlanda che 'ntorno vagheggia 3.10.93 la bella donna ch' al ciel t' avvalora. 3.10.94 Io fui de li agni de la santa greggia 3.10.95 che Domenico mena per cammino 3.10.96 u' ben s' impingua se non si vaneggia. 3.10.97 Questi che m' è a destra più vicino, 3.10.98 frate e maestro fummi, ed esso Alberto 3.10.99 è di Cologna, e io Thomas d' Aquino. 3.10.100 Se sì di tutti li altri esser vuo' certo, 3.10.101 di retro al mio parlar ten vien col viso 3.10.102 girando su per lo beato serto. 3.10.103 Quell' altro fiammeggiare esce del riso 3.10.104 di Grazïan, che l' uno e l' altro foro 3.10.105 aiutò sì che piace in paradiso. 3.10.106 L' altro ch' appresso addorna il nostro coro, 3.10.107 quel Pietro fu che con la poverella 3.10.108 offerse a Santa Chiesa suo tesoro. 3.10.109 La quinta luce, ch' è tra noi più bella, 3.10.110 spira di tale amor, che tutto 'l mondo 3.10.111 là giù ne gola di saper novella: 3.10.112 entro v' è l' alta mente u' sì profondo 3.10.113 saver fu messo, che, se 'l vero è vero, 3.10.114 a veder tanto non surse il secondo. 3.10.115 Appresso vedi il lume di quel cero 3.10.116 che giù in carne più a dentro vide 3.10.117 l' angelica natura e 'l ministero. 3.10.118 Ne l' altra piccioletta luce ride 3.10.119 quello avvocato de' tempi cristiani 3.10.120 del cui latino Augustin si provide. 3.10.121 Or se tu l' occhio de la mente trani 3.10.122 di luce in luce dietro a le mie lode, 3.10.123 già de l' ottava con sete rimani. 3.10.124 Per vedere ogne ben dentro vi gode 3.10.125 l' anima santa che 'l mondo fallace 3.10.126 fa manifesto a chi di lei ben ode. 3.10.127 Lo corpo ond' ella fu cacciata giace 3.10.128 giuso in Cieldauro; ed essa da martiro 3.10.129 e da essilio venne a questa pace. 3.10.130 Vedi oltre fiammeggiar l' ardente spiro 3.10.131 d' Isidoro, di Beda e di Riccardo, 3.10.132 che a considerar fu più che viro. 3.10.133 Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, 3.10.134 è 'l lume d' uno spirto che 'n pensieri 3.10.135 gravi a morir li parve venir tardo: 3.10.136 essa è la luce etterna di Sigieri, 3.10.137 che, leggendo nel Vico de li Strami, 3.10.138 silogizzò invidïosi veri». 3.10.139 Indi, come orologio che ne chiami 3.10.140 ne l' ora che la sposa di Dio surge 3.10.141 a mattinar lo sposo perché l' ami, 3.10.142 che l' una parte e l' altra tira e urge, 3.10.143 tin tin sonando con sì dolce nota, 3.10.144 che 'l ben disposto spirto d' amor turge; 3.10.145 così vid' ïo la gloriosa rota 3.10.146 muoversi e render voce a voce in tempra 3.10.147 e in dolcezza ch' esser non pò nota 3.10.148 se non colà dove gioir s' insempra.
CANTO XI
3.11.1 O insensata cura de' mortali, 3.11.2 quanto son difettivi silogismi 3.11.3 quei che ti fanno in basso batter l' ali! 3.11.4 Chi dietro a iura e chi ad amforismi 3.11.5 sen giva, e chi seguendo sacerdozio, 3.11.6 e chi regnar per forza o per sofismi, 3.11.7 e chi rubare e chi civil negozio, 3.11.8 chi nel diletto de la carne involto 3.11.9 s' affaticava e chi si dava a l' ozio, 3.11.10 quando, da tutte queste cose sciolto, 3.11.11 con Bëatrice m' era suso in cielo 3.11.12 cotanto glorïosamente accolto. 3.11.13 Poi che ciascuno fu tornato ne lo 3.11.14 punto del cerchio in che avanti s' era, 3.11.15 fermossi, come a candellier candelo. 3.11.16 E io senti' dentro a quella lumera 3.11.17 che pria m' avea parlato, sorridendo 3.11.18 incominciar, faccendosi più mera: 3.11.19 «Così com' io del suo raggio resplendo, 3.11.20 sì, riguardando ne la luce etterna, 3.11.21 li tuoi pensieri onde cagioni apprendo. 3.11.22 Tu dubbi, e hai voler che si ricerna 3.11.23 in sì aperta e 'n sì distesa lingua 3.11.24 lo dicer mio, ch' al tuo sentir si sterna, 3.11.25 ove dinanzi dissi: "U' ben s' impingua", 3.11.26 e là u' dissi: "Non nacque il secondo"; 3.11.27 e qui è uopo che ben si distingua. 3.11.28 La provedenza, che governa il mondo 3.11.29 con quel consiglio nel quale ogne aspetto 3.11.30 creato è vinto pria che vada al fondo, 3.11.31 però che andasse ver' lo suo diletto 3.11.32 la sposa di colui ch' ad alte grida 3.11.33 disposò lei col sangue benedetto, 3.11.34 in sé sicura e anche a lui più fida, 3.11.35 due principi ordinò in suo favore, 3.11.36 che quinci e quindi le fosser per guida. 3.11.37 L' un fu tutto serafico in ardore; 3.11.38 l' altro per sapïenza in terra fue 3.11.39 di cherubica luce uno splendore. 3.11.40 De l' un dirò, però che d' amendue 3.11.41 si dice l' un pregiando, qual ch' om prende, 3.11.42 perch' ad un fine fur l' opere sue. 3.11.43 Intra Tupino e l' acqua che discende 3.11.44 del colle eletto dal beato Ubaldo, 3.11.45 fertile costa d' alto monte pende, 3.11.46 onde Perugia sente freddo e caldo 3.11.47 da Porta Sole; e di rietro le piange 3.11.48 per grave giogo Nocera con Gualdo. 3.11.49 Di questa costa, là dov' ella frange 3.11.50 più sua rattezza, nacque al mondo un sole, 3.11.51 come fa questo talvolta di Gange. 3.11.52 Però chi d' esso loco fa parole, 3.11.53 non dica Ascesi, ché direbbe corto, 3.11.54 ma Orïente, se proprio dir vuole. 3.11.55 Non era ancor molto lontan da l' orto, 3.11.56 ch' el cominciò a far sentir la terra 3.11.57 de la sua gran virtute alcun conforto; 3.11.58 ché per tal donna, giovinetto, in guerra 3.11.59 del padre corse, a cui, come a la morte, 3.11.60 la porta del piacer nessun diserra; 3.11.61 e dinanzi a la sua spirital corte 3.11.62 et coram patre le si fece unito; 3.11.63 poscia di dì in dì l' amò più forte. 3.11.64 Questa, privata del primo marito, 3.11.65 millecent' anni e più dispetta e scura 3.11.66 fino a costui si stette sanza invito; 3.11.67 né valse udir che la trovò sicura 3.11.68 con Amiclate, al suon de la sua voce, 3.11.69 colui ch' a tutto 'l mondo fé paura; 3.11.70 né valse esser costante né feroce, 3.11.71 sì che, dove Maria rimase giuso, 3.11.72 ella con Cristo pianse in su la croce. 3.11.73 Ma perch' io non proceda troppo chiuso, 3.11.74 Francesco e Povertà per questi amanti 3.11.75 prendi oramai nel mio parlar diffuso. 3.11.76 La lor concordia e i lor lieti sembianti, 3.11.77 amore e maraviglia e dolce sguardo 3.11.78 facieno esser cagion di pensier santi; 3.11.79 tanto che 'l venerabile Bernardo 3.11.80 si scalzò prima, e dietro a tanta pace 3.11.81 corse e, correndo, li parve esser tardo. 3.11.82 Oh ignota ricchezza! oh ben ferace! 3.11.83 Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro 3.11.84 dietro a lo sposo, sì la sposa piace. 3.11.85 Indi sen va quel padre e quel maestro 3.11.86 con la sua donna e con quella famiglia 3.11.87 che già legava l' umile capestro. 3.11.88 Né li gravò viltà di cuor le ciglia 3.11.89 per esser fi' di Pietro Bernardone, 3.11.90 né per parer dispetto a maraviglia; 3.11.91 ma regalmente sua dura intenzione 3.11.92 ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe 3.11.93 primo sigillo a sua religïone. 3.11.94 Poi che la gente poverella crebbe 3.11.95 dietro a costui, la cui mirabil vita 3.11.96 meglio in gloria del ciel si canterebbe, 3.11.97 di seconda corona redimita 3.11.98 fu per Onorio da l' Etterno Spiro 3.11.99 la santa voglia d' esto archimandrita. 3.11.100 E poi che, per la sete del martiro, 3.11.101 ne la presenza del Soldan superba 3.11.102 predicò Cristo e li altri che 'l seguiro, 3.11.103 e per trovare a conversione acerba 3.11.104 troppo la gente e per non stare indarno, 3.11.105 redissi al frutto de l' italica erba, 3.11.106 nel crudo sasso intra Tevero e Arno 3.11.107 da Cristo prese l' ultimo sigillo, 3.11.108 che le sue membra due anni portarno. 3.11.109 Quando a colui ch' a tanto ben sortillo 3.11.110 piacque di trarlo suso a la mercede 3.11.111 ch' el meritò nel suo farsi pusillo, 3.11.112 a' frati suoi, sì com' a giuste rede, 3.11.113 raccomandò la donna sua più cara, 3.11.114 e comandò che l' amassero a fede; 3.11.115 e del suo grembo l' anima preclara 3.11.116 mover si volle, tornando al suo regno, 3.11.117 e al suo corpo non volle altra bara. 3.11.118 Pensa oramai qual fu colui che degno 3.11.119 collega fu a mantener la barca 3.11.120 di Pietro in alto mar per dritto segno; 3.11.121 e questo fu il nostro patrïarca; 3.11.122 per che qual segue lui, com' el comanda, 3.11.123 discerner puoi che buone merce carca. 3.11.124 Ma 'l suo pecuglio di nova vivanda 3.11.125 è fatto ghiotto, sì ch' esser non puote 3.11.126 che per diversi salti non si spanda; 3.11.127 e quanto le sue pecore remote 3.11.128 e vagabunde più da esso vanno, 3.11.129 più tornano a l' ovil di latte vòte. 3.11.130 Ben son di quelle che temono 'l danno 3.11.131 e stringonsi al pastor; ma son sì poche, 3.11.132 che le cappe fornisce poco panno. 3.11.133 Or, se le mie parole non son fioche, 3.11.134 se la tua audïenza è stata attenta, 3.11.135 se ciò ch' è detto a la mente revoche, 3.11.136 in parte fia la tua voglia contenta, 3.11.137 perché vedrai la pianta onde si scheggia, 3.11.138 e vedra' il corrègger che argomenta 3.11.139 "U' ben s' impingua, se non si vaneggia"».
CANTO XII
3.12.1 Sì tosto come l' ultima parola 3.12.2 la benedetta fiamma per dir tolse, 3.12.3 a rotar cominciò la santa mola; 3.12.4 e nel suo giro tutta non si volse 3.12.5 prima ch' un' altra di cerchio la chiuse, 3.12.6 e moto a moto e canto a canto colse; 3.12.7 canto che tanto vince nostre muse, 3.12.8 nostre serene in quelle dolci tube, 3.12.9 quanto primo splendor quel ch' e' refuse. 3.12.10 Come si volgon per tenera nube 3.12.11 due archi paralelli e concolori, 3.12.12 quando Iunone a sua ancella iube, 3.12.13 nascendo di quel d' entro quel di fori, 3.12.14 a guisa del parlar di quella vaga 3.12.15 ch' amor consunse come sol vapori, 3.12.16 e fanno qui la gente esser presaga, 3.12.17 per lo patto che Dio con Noè puose, 3.12.18 del mondo che già mai più non s' allaga: 3.12.19 così di quelle sempiterne rose 3.12.20 volgiensi circa noi le due ghirlande, 3.12.21 e sì l' estrema a l' intima rispuose. 3.12.22 Poi che 'l tripudio e l' altra festa grande, 3.12.23 sì del cantare e sì del fiammeggiarsi 3.12.24 luce con luce gaudïose e blande, 3.12.25 insieme a punto e a voler quetarsi, 3.12.26 pur come li occhi ch' al piacer che i move 3.12.27 conviene insieme chiudere e levarsi; 3.12.28 del cor de l' una de le luci nove 3.12.29 si mosse voce, che l' ago a la stella 3.12.30 parer mi fece in volgermi al suo dove; 3.12.31 e cominciò: «L' amor che mi fa bella 3.12.32 mi tragge a ragionar de l' altro duca 3.12.33 per cui del mio sì ben ci si favella. 3.12.34 Degno è che, dov' è l' un, l' altro s' induca: 3.12.35 sì che, com' elli ad una militaro, 3.12.36 così la gloria loro insieme luca. 3.12.37 L' essercito di Cristo, che sì caro 3.12.38 costò a rïarmar, dietro a la 'nsegna 3.12.39 si movea tardo, sospeccioso e raro, 3.12.40 quando lo 'mperador che sempre regna 3.12.41 provide a la milizia, ch' era in forse, 3.12.42 per sola grazia, non per esser degna; 3.12.43 e, come è detto, a sua sposa soccorse 3.12.44 con due campioni, al cui fare, al cui dire 3.12.45 lo popol disvïato si raccorse. 3.12.46 In quella parte ove surge ad aprire 3.12.47 Zefiro dolce le novelle fronde 3.12.48 di che si vede Europa rivestire, 3.12.49 non molto lungi al percuoter de l' onde 3.12.50 dietro a le quali, per la lunga foga, 3.12.51 lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde, 3.12.52 siede la fortunata Calaroga 3.12.53 sotto la protezion del grande scudo 3.12.54 in che soggiace il leone e soggioga: 3.12.55 dentro vi nacque l' amoroso drudo 3.12.56 de la fede cristiana, il santo atleta 3.12.57 benigno a' suoi e a' nemici crudo; 3.12.58 e come fu creata, fu repleta 3.12.59 sì la sua mente di viva vertute, 3.12.60 che, ne la madre, lei fece profeta. 3.12.61 Poi che le sponsalizie fuor compiute 3.12.62 al sacro fonte intra lui e la Fede, 3.12.63 u' si dotar di mutüa salute, 3.12.64 la donna che per lui l' assenso diede, 3.12.65 vide nel sonno il mirabile frutto 3.12.66 ch' uscir dovea di lui e de le rede; 3.12.67 e perché fosse qual era in costrutto, 3.12.68 quinci si mosse spirito a nomarlo 3.12.69 del possessivo di cui era tutto. 3.12.70 Domenico fu detto; e io ne parlo 3.12.71 sì come de l' agricola che Cristo 3.12.72 elesse a l' orto suo per aiutarlo. 3.12.73 Ben parve messo e famigliar di Cristo: 3.12.74 ché 'l primo amor che 'n lui fu manifesto, 3.12.75 fu al primo consiglio che diè Cristo. 3.12.76 Spesse fïate fu tacito e desto 3.12.77 trovato in terra da la sua nutrice, 3.12.78 come dicesse: "Io son venuto a questo". 3.12.79 Oh padre suo veramente Felice! 3.12.80 oh madre sua veramente Giovanna, 3.12.81 se, interpretata, val come si dice! 3.12.82 Non per lo mondo, per cui mo s' affanna 3.12.83 di retro ad Ostïense e a Taddeo, 3.12.84 ma per amor de la verace manna 3.12.85 in picciol tempo gran dottor si feo; 3.12.86 tal che si mise a circüir la vigna 3.12.87 che tosto imbianca, se 'l vignaio è reo. 3.12.88 E a la sedia che fu già benigna 3.12.89 più a' poveri giusti, non per lei, 3.12.90 ma per colui che siede, che traligna, 3.12.91 non dispensare o due o tre per sei, 3.12.92 non la fortuna di prima vacante, 3.12.93 non decimas, quae sunt pauperum Dei, 3.12.94 addimandò, ma contro al mondo errante 3.12.95 licenza di combatter per lo seme 3.12.96 del qual ti fascian ventiquattro piante. 3.12.97 Poi, con dottrina e con volere insieme, 3.12.98 con l' officio appostolico si mosse 3.12.99 quasi torrente ch' alta vena preme; 3.12.100 e ne li sterpi eretici percosse 3.12.101 l' impeto suo, più vivamente quivi 3.12.102 dove le resistenze eran più grosse. 3.12.103 Di lui si fecer poi diversi rivi 3.12.104 onde l' orto catolico si riga, 3.12.105 sì che i suoi arbuscelli stan più vivi. 3.12.106 Se tal fu l' una rota de la biga 3.12.107 in che la Santa Chiesa si difese 3.12.108 e vinse in campo la sua civil briga, 3.12.109 ben ti dovrebbe assai esser palese 3.12.110 l' eccellenza de l' altra, di cui Tomma 3.12.111 dinanzi al mio venir fu sì cortese. 3.12.112 Ma l' orbita che fé la parte somma 3.12.113 di sua circunferenza, è derelitta, 3.12.114 sì ch' è la muffa dov' era la gromma. 3.12.115 La sua famiglia, che si mosse dritta 3.12.116 coi piedi a le sue orme, è tanto volta, 3.12.117 che quel dinanzi a quel di retro gitta; 3.12.118 e tosto si vedrà de la ricolta 3.12.119 de la mala coltura, quando il loglio 3.12.120 si lagnerà che l' arca li sia tolta. 3.12.121 Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio 3.12.122 nostro volume, ancor troveria carta 3.12.123 u' leggerebbe "I' mi son quel ch' i' soglio"; 3.12.124 ma non fia da Casal né d' Acquasparta, 3.12.125 là onde vegnon tali a la scrittura, 3.12.126 ch' uno la fugge e altro la coarta. 3.12.127 Io son la vita di Bonaventura 3.12.128 da Bagnoregio, che ne' grandi offici 3.12.129 sempre pospuosi la sinistra cura. 3.12.130 Illuminato e Augustin son quici, 3.12.131 che fuor de' primi scalzi poverelli 3.12.132 che nel capestro a Dio si fero amici. 3.12.133 Ugo da San Vittore è qui con elli, 3.12.134 e Pietro Mangiadore e Pietro Spano, 3.12.135 lo qual giù luce in dodici libelli; 3.12.136 Natàn profeta e 'l metropolitano 3.12.137 Crisostomo e Anselmo e quel Donato 3.12.138 ch' a la prim' arte degnò porre mano. 3.12.139 Rabano è qui, e lucemi dallato 3.12.140 il calavrese abate Giovacchino 3.12.141 di spirito profetico dotato. 3.12.142 Ad inveggiar cotanto paladino 3.12.143 mi mosse l' infiammata cortesia 3.12.144 di fra Tommaso e 'l discreto latino; 3.12.145 e mosse meco questa compagnia».
CANTO XIII
3.13.1 Imagini, chi bene intender cupe 3.13.2 quel ch' i' or vidi --e ritegna l' image, 3.13.3 mentre ch' io dico, come ferma rupe --, 3.13.4 quindici stelle che 'n diverse plage 3.13.5 lo cielo avvivan di tanto sereno 3.13.6 che soperchia de l' aere ogne compage; 3.13.7 imagini quel carro a cu' il seno 3.13.8 basta del nostro cielo e notte e giorno, 3.13.9 sì ch' al volger del temo non vien meno; 3.13.10 imagini la bocca di quel corno 3.13.11 che si comincia in punta de lo stelo 3.13.12 a cui la prima rota va dintorno, 3.13.13 aver fatto di sé due segni in cielo, 3.13.14 qual fece la figliuola di Minoi 3.13.15 allora che sentì di morte il gelo; 3.13.16 e l' un ne l' altro aver li raggi suoi, 3.13.17 e amendue girarsi per maniera 3.13.18 che l' uno andasse al primo e l' altro al poi; 3.13.19 e avrà quasi l' ombra de la vera 3.13.20 costellazione e de la doppia danza 3.13.21 che circulava il punto dov' io era: 3.13.22 poi ch' è tanto di là da nostra usanza, 3.13.23 quanto di là dal mover de la Chiana 3.13.24 si move il ciel che tutti li altri avanza. 3.13.25 Lì si cantò non Bacco, non Peana, 3.13.26 ma tre persone in divina natura, 3.13.27 e in una persona essa e l' umana. 3.13.28 Compié 'l cantare e 'l volger sua misura; 3.13.29 e attesersi a noi quei santi lumi, 3.13.30 felicitando sé di cura in cura. 3.13.31 Ruppe il silenzio ne' concordi numi 3.13.32 poscia la luce in che mirabil vita 3.13.33 del poverel di Dio narrata fumi, 3.13.34 e disse: «Quando l' una paglia è trita, 3.13.35 quando la sua semenza è già riposta, 3.13.36 a batter l' altra dolce amor m' invita. 3.13.37 Tu credi che nel petto onde la costa 3.13.38 si trasse per formar la bella guancia 3.13.39 il cui palato a tutto 'l mondo costa, 3.13.40 e in quel che, forato da la lancia, 3.13.41 e prima e poscia tanto sodisfece, 3.13.42 che d' ogne colpa vince la bilancia, 3.13.43 quantunque a la natura umana lece 3.13.44 aver di lume, tutto fosse infuso 3.13.45 da quel valor che l' uno e l' altro fece; 3.13.46 e però miri a ciò ch' io dissi suso, 3.13.47 quando narrai che non ebbe 'l secondo 3.13.48 lo ben che ne la quinta luce è chiuso. 3.13.49 Or apri li occhi a quel ch' io ti rispondo, 3.13.50 e vedräi il tuo credere e 'l mio dire 3.13.51 nel vero farsi come centro in tondo. 3.13.52 Ciò che non more e ciò che può morire 3.13.53 non è se non splendor di quella idea 3.13.54 che partorisce, amando, il nostro Sire; 3.13.55 ché quella viva luce che sì mea 3.13.56 dal suo lucente, che non si disuna 3.13.57 da lui né da l' amor ch' a lor s' intrea, 3.13.58 per sua bontate il suo raggiare aduna, 3.13.59 quasi specchiato, in nove sussistenze, 3.13.60 etternalmente rimanendosi una. 3.13.61 Quindi discende a l' ultime potenze 3.13.62 giù d' atto in atto, tanto divenendo, 3.13.63 che più non fa che brevi contingenze; 3.13.64 e queste contingenze essere intendo 3.13.65 le cose generate, che produce 3.13.66 con seme e sanza seme il ciel movendo. 3.13.67 La cera di costoro e chi la duce 3.13.68 non sta d' un modo; e però sotto 'l segno 3.13.69 idëale poi più e men traluce. 3.13.70 Ond' elli avvien ch' un medesimo legno, 3.13.71 secondo specie, meglio e peggio frutta; 3.13.72 e voi nascete con diverso ingegno. 3.13.73 Se fosse a punto la cera dedutta 3.13.74 e fosse il cielo in sua virtù supprema, 3.13.75 la luce del suggel parrebbe tutta; 3.13.76 ma la natura la dà sempre scema, 3.13.77 similemente operando a l' artista 3.13.78 ch' a l' abito de l' arte ha man che trema. 3.13.79 Però se 'l caldo amor la chiara vista 3.13.80 de la prima virtù dispone e segna, 3.13.81 tutta la perfezion quivi s' acquista. 3.13.82 Così fu fatta già la terra degna 3.13.83 di tutta l' animal perfezïone; 3.13.84 così fu fatta la Vergine pregna; 3.13.85 sì ch' io commendo tua oppinïone, 3.13.86 che l' umana natura mai non fue 3.13.87 né fia qual fu in quelle due persone. 3.13.88 Or s' i' non procedesse avanti piùe, 3.13.89 "Dunque, come costui fu sanza pare?" 3.13.90 comincerebber le parole tue. 3.13.91 Ma perché paia ben ciò che non pare, 3.13.92 pensa chi era, e la cagion che 'l mosse, 3.13.93 quando fu detto "Chiedi", a dimandare. 3.13.94 Non ho parlato sì, che tu non posse 3.13.95 ben veder ch' el fu re, che chiese senno 3.13.96 acciò che re sufficïente fosse; 3.13.97 non per sapere il numero in che enno 3.13.98 li motor di qua sù, o se necesse 3.13.99 con contingente mai necesse fenno; 3.13.100 non si est dare primum motum esse, 3.13.101 o se del mezzo cerchio far si puote 3.13.102 trïangol sì ch' un retto non avesse. 3.13.103 Onde, se ciò ch' io dissi e questo note, 3.13.104 regal prudenza è quel vedere impari 3.13.105 in che lo stral di mia intenzion percuote; 3.13.106 e se al "surse"drizzi li occhi chiari, 3.13.107 vedrai aver solamente respetto 3.13.108 ai regi, che son molti, e ' buon son rari. 3.13.109 Con questa distinzion prendi 'l mio detto; 3.13.110 e così puote star con quel che credi 3.13.111 del primo padre e del nostro Diletto. 3.13.112 E questo ti sia sempre piombo a' piedi, 3.13.113 per farti mover lento com' uom lasso 3.13.114 e al sì e al no che tu non vedi: 3.13.115 ché quelli è tra li stolti bene a basso, 3.13.116 che sanza distinzione afferma e nega 3.13.117 ne l' un così come ne l' altro passo; 3.13.118 perch' elli 'ncontra che più volte piega 3.13.119 l' oppinïon corrente in falsa parte, 3.13.120 e poi l' affetto l' intelletto lega. 3.13.121 Vie più che 'ndarno da riva si parte, 3.13.122 perché non torna tal qual e' si move, 3.13.123 chi pesca per lo vero e non ha l' arte. 3.13.124 E di ciò sono al mondo aperte prove 3.13.125 Parmenide, Melisso e Brisso e molti, 3.13.126 li quali andaro e non sapëan dove; 3.13.127 sì fé Sabellio e Arrio e quelli stolti 3.13.128 che furon come spade a le Scritture 3.13.129 in render torti li diritti volti. 3.13.130 Non sien le genti, ancor, troppo sicure 3.13.131 a giudicar, sì come quei che stima 3.13.132 le biade in campo pria che sien mature; 3.13.133 ch' i' ho veduto tutto 'l verno prima 3.13.134 lo prun mostrarsi rigido e feroce, 3.13.135 poscia portar la rosa in su la cima; 3.13.136 e legno vidi già dritto e veloce 3.13.137 correr lo mar per tutto suo cammino, 3.13.138 perire al fine a l' intrar de la foce. 3.13.139 Non creda donna Berta e ser Martino, 3.13.140 per vedere un furare, altro offerere, 3.13.141 vederli dentro al consiglio divino; 3.13.142 ché quel può surgere, e quel può cadere».
CANTO XIV
3.14.1 Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro 3.14.2 movesi l' acqua in un ritondo vaso, 3.14.3 secondo ch' è percosso fuori o dentro: 3.14.4 ne la mia mente fé sùbito caso 3.14.5 questo ch' io dico, sì come si tacque 3.14.6 la glorïosa vita di Tommaso, 3.14.7 per la similitudine che nacque 3.14.8 del suo parlare e di quel di Beatrice, 3.14.9 a cui sì cominciar, dopo lui, piacque: 3.14.10 «A costui fa mestieri, e nol vi dice 3.14.11 né con la voce né pensando ancora, 3.14.12 d' un altro vero andare a la radice. 3.14.13 Diteli se la luce onde s' infiora 3.14.14 vostra sustanza, rimarrà con voi 3.14.15 etternalmente sì com' ell' è ora; 3.14.16 e se rimane, dite come, poi 3.14.17 che sarete visibili rifatti, 3.14.18 esser porà ch' al veder non vi nòi». 3.14.19 Come, da più letizia pinti e tratti, 3.14.20 a la fïata quei che vanno a rota 3.14.21 levan la voce e rallegrano li atti, 3.14.22 così, a l' orazion pronta e divota, 3.14.23 li santi cerchi mostrar nova gioia 3.14.24 nel torneare e ne la mira nota. 3.14.25 Qual si lamenta perché qui si moia 3.14.26 per viver colà sù, non vide quive 3.14.27 lo refrigerio de l' etterna ploia. 3.14.28 Quell' uno e due e tre che sempre vive 3.14.29 e regna sempre in tre e 'n due e 'n uno, 3.14.30 non circunscritto, e tutto circunscrive, 3.14.31 tre volte era cantato da ciascuno 3.14.32 di quelli spirti con tal melodia, 3.14.33 ch' ad ogne merto saria giusto muno. 3.14.34 E io udi' ne la luce più dia 3.14.35 del minor cerchio una voce modesta, 3.14.36 forse qual fu da l' angelo a Maria, 3.14.37 risponder: «Quanto fia lunga la festa 3.14.38 di paradiso, tanto il nostro amore 3.14.39 si raggerà dintorno cotal vesta. 3.14.40 La sua chiarezza séguita l' ardore; 3.14.41 l' ardor la visïone, e quella è tanta, 3.14.42 quant' ha di grazia sovra suo valore. 3.14.43 Come la carne glorïosa e santa 3.14.44 fia rivestita, la nostra persona 3.14.45 più grata fia per esser tutta quanta; 3.14.46 per che s' accrescerà ciò che ne dona 3.14.47 di gratüito lume il sommo bene, 3.14.48 lume ch' a lui veder ne condiziona; 3.14.49 onde la visïon crescer convene, 3.14.50 crescer l' ardor che di quella s' accende, 3.14.51 crescer lo raggio che da esso vene. 3.14.52 Ma sì come carbon che fiamma rende, 3.14.53 e per vivo candor quella soverchia, 3.14.54 sì che la sua parvenza si difende; 3.14.55 così questo folgór che già ne cerchia 3.14.56 fia vinto in apparenza da la carne 3.14.57 che tutto dì la terra ricoperchia; 3.14.58 né potrà tanta luce affaticarne: 3.14.59 ché li organi del corpo saran forti 3.14.60 a tutto ciò che potrà dilettarne». 3.14.61 Tanto mi parver sùbiti e accorti 3.14.62 e l' uno e l' altro coro a dicer «Amme!», 3.14.63 che ben mostrar disio d' i corpi morti: 3.14.64 forse non pur per lor, ma per le mamme, 3.14.65 per li padri e per li altri che fuor cari 3.14.66 anzi che fosser sempiterne fiamme. 3.14.67 Ed ecco intorno, di chiarezza pari, 3.14.68 nascere un lustro sopra quel che v' era, 3.14.69 per guisa d' orizzonte che rischiari. 3.14.70 E sì come al salir di prima sera 3.14.71 comincian per lo ciel nove parvenze, 3.14.72 sì che la vista pare e non par vera, 3.14.73 parvemi lì novelle sussistenze 3.14.74 cominciare a vedere, e fare un giro 3.14.75 di fuor da l' altre due circunferenze. 3.14.76 Oh vero sfavillar del Santo Spiro! 3.14.77 come si fece sùbito e candente 3.14.78 a li occhi miei che, vinti, nol soffriro! 3.14.79 Ma Bëatrice sì bella e ridente 3.14.80 mi si mostrò, che tra quelle vedute 3.14.81 si vuol lasciar che non seguir la mente. 3.14.82 Quindi ripreser li occhi miei virtute 3.14.83 a rilevarsi; e vidimi translato 3.14.84 sol con mia donna in più alta salute. 3.14.85 Ben m' accors' io ch' io era più levato, 3.14.86 per l' affocato riso de la stella, 3.14.87 che mi parea più roggio che l' usato. 3.14.88 Con tutto 'l core e con quella favella 3.14.89 ch' è una in tutti, a Dio feci olocausto, 3.14.90 qual conveniesi a la grazia novella. 3.14.91 E non er' anco del mio petto essausto 3.14.92 l' ardor del sacrificio, ch' io conobbi 3.14.93 esso litare stato accetto e fausto; 3.14.94 ché con tanto lucore e tanto robbi 3.14.95 m' apparvero splendor dentro a due raggi, 3.14.96 ch' io dissi: «O Elïòs che sì li addobbi!». 3.14.97 Come distinta da minori e maggi 3.14.98 lumi biancheggia tra ' poli del mondo 3.14.99 Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi; 3.14.100 sì costellati facean nel profondo 3.14.101 Marte quei raggi il venerabil segno 3.14.102 che fan giunture di quadranti in tondo. 3.14.103 Qui vince la memoria mia lo 'ngegno; 3.14.104 ché quella croce lampeggiava Cristo, 3.14.105 sì ch' io non so trovare essempro degno; 3.14.106 ma chi prende sua croce e segue Cristo, 3.14.107 ancor mi scuserà di quel ch' io lasso, 3.14.108 vedendo in quell' albor balenar Cristo. 3.14.109 Di corno in corno e tra la cima e 'l basso 3.14.110 si movien lumi, scintillando forte 3.14.111 nel congiugnersi insieme e nel trapasso: 3.14.112 così si veggion qui diritte e torte, 3.14.113 veloci e tarde, rinovando vista, 3.14.114 le minuzie d' i corpi, lunghe e corte, 3.14.115 moversi per lo raggio onde si lista 3.14.116 talvolta l' ombra che, per sua difesa, 3.14.117 la gente con ingegno e arte acquista. 3.14.118 E come giga e arpa, in tempra tesa 3.14.119 di molte corde, fa dolce tintinno 3.14.120 a tal da cui la nota non è intesa, 3.14.121 così da' lumi che lì m' apparinno 3.14.122 s' accogliea per la croce una melode 3.14.123 che mi rapiva, sanza intender l' inno. 3.14.124 Ben m' accors' io ch' elli era d' alte lode, 3.14.125 però ch' a me venìa «Resurgi»e «Vinci» 3.14.126 come a colui che non intende e ode. 3.14.127 Ïo m' innamorava tanto quinci, 3.14.128 che 'nfino a lì non fu alcuna cosa 3.14.129 che mi legasse con sì dolci vinci. 3.14.130 Forse la mia parola par troppo osa, 3.14.131 posponendo il piacer de li occhi belli, 3.14.132 ne' quai mirando mio disio ha posa; 3.14.133 ma chi s' avvede che i vivi suggelli 3.14.134 d' ogne bellezza più fanno più suso, 3.14.135 e ch' io non m' era lì rivolto a quelli, 3.14.136 escusar puommi di quel ch' io m' accuso 3.14.137 per escusarmi, e vedermi dir vero: 3.14.138 ché 'l piacer santo non è qui dischiuso, 3.14.139 perché si fa, montando, più sincero.
CANTO XV
3.15.1 Benigna volontade in che si liqua 3.15.2 sempre l' amor che drittamente spira, 3.15.3 come cupidità fa ne la iniqua, 3.15.4 silenzio puose a quella dolce lira, 3.15.5 e fece quïetar le sante corde 3.15.6 che la destra del cielo allenta e tira. 3.15.7 Come saranno a' giusti preghi sorde 3.15.8 quelle sustanze che, per darmi voglia 3.15.9 ch' io le pregassi, a tacer fur concorde? 3.15.10 Bene è che sanza termine si doglia 3.15.11 chi, per amor di cosa che non duri 3.15.12 etternalmente, quello amor si spoglia. 3.15.13 Quale per li seren tranquilli e puri 3.15.14 discorre ad ora ad or sùbito foco, 3.15.15 movendo li occhi che stavan sicuri, 3.15.16 e pare stella che tramuti loco, 3.15.17 se non che da la parte ond' e' s' accende 3.15.18 nulla sen perde, ed esso dura poco: 3.15.19 tale dal corno che 'n destro si stende 3.15.20 a piè di quella croce corse un astro 3.15.21 de la costellazion che lì resplende; 3.15.22 né si partì la gemma dal suo nastro, 3.15.23 ma per la lista radïal trascorse, 3.15.24 che parve foco dietro ad alabastro. 3.15.25 Sì pïa l' ombra d' Anchise si porse, 3.15.26 se fede merta nostra maggior musa, 3.15.27 quando in Eliso del figlio s' accorse. 3.15.28 «O sanguis meus, o superinfusa 3.15.29 gratïa Dëi, sicut tibi cui 3.15.30 bis unquam celi ianüa reclusa?». 3.15.31 Così quel lume: ond' io m' attesi a lui; 3.15.32 poscia rivolsi a la mia donna il viso, 3.15.33 e quinci e quindi stupefatto fui; 3.15.34 ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso 3.15.35 tal, ch' io pensai co' miei toccar lo fondo 3.15.36 de la mia gloria e del mio paradiso. 3.15.37 Indi, a udire e a veder giocondo, 3.15.38 giunse lo spirto al suo principio cose, 3.15.39 ch' io non lo 'ntesi, sì parlò profondo; 3.15.40 né per elezïon mi si nascose, 3.15.41 ma per necessità, ché 'l suo concetto 3.15.42 al segno d' i mortal si soprapuose. 3.15.43 E quando l' arco de l' ardente affetto 3.15.44 fu sì sfogato, che 'l parlar discese 3.15.45 inver' lo segno del nostro intelletto, 3.15.46 la prima cosa che per me s' intese, 3.15.47 «Benedetto sia tu», fu, «trino e uno, 3.15.48 che nel mio seme se' tanto cortese!». 3.15.49 E seguì: «Grato e lontano digiuno, 3.15.50 tratto leggendo del magno volume 3.15.51 du' non si muta mai bianco né bruno, 3.15.52 solvuto hai, figlio, dentro a questo lume 3.15.53 in ch' io ti parlo, mercé di colei 3.15.54 ch' a l' alto volo ti vestì le piume. 3.15.55 Tu credi che a me tuo pensier mei 3.15.56 da quel ch' è primo, così come raia 3.15.57 da l' un, se si conosce, il cinque e 'l sei; 3.15.58 e però ch' io mi sia e perch' io paia 3.15.59 più gaudïoso a te, non mi domandi, 3.15.60 che alcun altro in questa turba gaia. 3.15.61 Tu credi 'l vero; ché i minori e ' grandi 3.15.62 di questa vita miran ne lo speglio 3.15.63 in che, prima che pensi, il pensier pandi; 3.15.64 ma perché 'l sacro amore in che io veglio 3.15.65 con perpetüa vista e che m' asseta 3.15.66 di dolce disïar, s' adempia meglio, 3.15.67 la voce tua sicura, balda e lieta 3.15.68 suoni la volontà, suoni 'l disio, 3.15.69 a che la mia risposta è già decreta!». 3.15.70 Io mi volsi a Beatrice, e quella udio 3.15.71 pria ch' io parlassi, e arrisemi un cenno 3.15.72 che fece crescer l' ali al voler mio. 3.15.73 Poi cominciai così: «L' affetto e 'l senno, 3.15.74 come la prima equalità v' apparse, 3.15.75 d' un peso per ciascun di voi si fenno, 3.15.76 però che 'l sol che v' allumò e arse, 3.15.77 col caldo e con la luce è sì iguali, 3.15.78 che tutte simiglianze sono scarse. 3.15.79 Ma voglia e argomento ne' mortali, 3.15.80 per la cagion ch' a voi è manifesta, 3.15.81 diversamente son pennuti in ali; 3.15.82 ond' io, che son mortal, mi sento in questa 3.15.83 disagguaglianza, e però non ringrazio 3.15.84 se non col core a la paterna festa. 3.15.85 Ben supplico io a te, vivo topazio 3.15.86 che questa gioia prezïosa ingemmi, 3.15.87 perché mi facci del tuo nome sazio». 3.15.88 «O fronda mia in che io compiacemmi 3.15.89 pur aspettando, io fui la tua radice»: 3.15.90 cotal principio, rispondendo, femmi. 3.15.91 Poscia mi disse: «Quel da cui si dice 3.15.92 tua cognazione e che cent' anni e piùe 3.15.93 girato ha 'l monte in la prima cornice, 3.15.94 mio figlio fu e tuo bisavol fue: 3.15.95 ben si convien che la lunga fatica 3.15.96 tu li raccorci con l' opere tue. 3.15.97 Fiorenza dentro da la cerchia antica, 3.15.98 ond' ella toglie ancora e terza e nona, 3.15.99 si stava in pace, sobria e pudica. 3.15.100 Non avea catenella, non corona, 3.15.101 non gonne contigiate, non cintura 3.15.102 che fosse a veder più che la persona. 3.15.103 Non faceva, nascendo, ancor paura 3.15.104 la figlia al padre, ché 'l tempo e la dote 3.15.105 non fuggien quinci e quindi la misura. 3.15.106 Non avea case di famiglia vòte; 3.15.107 non v' era giunto ancor Sardanapalo 3.15.108 a mostrar ciò che 'n camera si puote. 3.15.109 Non era vinto ancora Montemalo 3.15.110 dal vostro Uccellatoio, che, com' è vinto 3.15.111 nel montar sù, così sarà nel calo. 3.15.112 Bellincion Berti vid' io andar cinto 3.15.113 di cuoio e d' osso, e venir da lo specchio 3.15.114 la donna sua sanza 'l viso dipinto; 3.15.115 e vidi quel d' i Nerli e quel del Vecchio 3.15.116 esser contenti a la pelle scoperta, 3.15.117 e le sue donne al fuso e al pennecchio. 3.15.118 Oh fortunate! ciascuna era certa 3.15.119 de la sua sepultura, e ancor nulla 3.15.120 era per Francia nel letto diserta. 3.15.121 L' una vegghiava a studio de la culla, 3.15.122 e, consolando, usava l' idïoma 3.15.123 che prima i padri e le madri trastulla; 3.15.124 l' altra, traendo a la rocca la chioma, 3.15.125 favoleggiava con la sua famiglia 3.15.126 d' i Troiani, di Fiesole e di Roma. 3.15.127 Saria tenuta allor tal maraviglia 3.15.128 una Cianghella, un Lapo Salterello, 3.15.129 qual or saria Cincinnato e Corniglia. 3.15.130 A così riposato, a così bello 3.15.131 viver di cittadini, a così fida 3.15.132 cittadinanza, a così dolce ostello, 3.15.133 Maria mi diè, chiamata in alte grida; 3.15.134 e ne l' antico vostro Batisteo 3.15.135 insieme fui cristiano e Cacciaguida. 3.15.136 Moronto fu mio frate ed Eliseo; 3.15.137 mia donna venne a me di val di Pado, 3.15.138 e quindi il sopranome tuo si feo. 3.15.139 Poi seguitai lo 'mperador Currado; 3.15.140 ed el mi cinse de la sua milizia, 3.15.141 tanto per bene ovrar li venni in grado. 3.15.142 Dietro li andai incontro a la nequizia 3.15.143 di quella legge il cui popolo usurpa, 3.15.144 per colpa d' i pastor, vostra giustizia. 3.15.145 Quivi fu' io da quella gente turpa 3.15.146 disviluppato dal mondo fallace, 3.15.147 lo cui amor molt' anime deturpa; 3.15.148 e venni dal martiro a questa pace».
CANTO XVI
3.16.1 O poca nostra nobiltà di sangue, 3.16.2 se glorïar di te la gente fai 3.16.3 qua giù dove l' affetto nostro langue, 3.16.4 mirabil cosa non mi sarà mai: 3.16.5 ché là dove appetito non si torce, 3.16.6 dico nel cielo, io me ne gloriai. 3.16.7 Ben se' tu manto che tosto raccorce: 3.16.8 sì che, se non s' appon di dì in die, 3.16.9 lo tempo va dintorno con le force. 3.16.10 Dal "voi"che prima a Roma s' offerie, 3.16.11 in che la sua famiglia men persevra, 3.16.12 ricominciaron le parole mie; 3.16.13 onde Beatrice, ch' era un poco scevra, 3.16.14 ridendo, parve quella che tossio 3.16.15 al primo fallo scritto di Ginevra. 3.16.16 Io cominciai: «Voi siete il padre mio; 3.16.17 voi mi date a parlar tutta baldezza; 3.16.18 voi mi levate sì, ch' i' son più ch' io. 3.16.19 Per tanti rivi s' empie d' allegrezza 3.16.20 la mente mia, che di sé fa letizia 3.16.21 perché può sostener che non si spezza. 3.16.22 Ditemi dunque, cara mia primizia, 3.16.23 quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni 3.16.24 che si segnaro in vostra püerizia; 3.16.25 ditemi de l' ovil di San Giovanni 3.16.26 quanto era allora, e chi eran le genti 3.16.27 tra esso degne di più alti scanni». 3.16.28 Come s' avviva a lo spirar d' i venti 3.16.29 carbone in fiamma, così vid' io quella 3.16.30 luce risplendere a' miei blandimenti; 3.16.31 e come a li occhi miei si fé più bella, 3.16.32 così con voce più dolce e soave, 3.16.33 ma non con questa moderna favella, 3.16.34 dissemi: «Da quel dì che fu detto "Ave" 3.16.35 al parto in che mia madre, ch' è or santa, 3.16.36 s' allevïò di me ond' era grave, 3.16.37 al suo Leon cinquecento cinquanta 3.16.38 e trenta fiate venne questo foco 3.16.39 a rinfiammarsi sotto la sua pianta. 3.16.40 Li antichi miei e io nacqui nel loco 3.16.41 dove si truova pria l' ultimo sesto 3.16.42 da quei che corre il vostro annüal gioco. 3.16.43 Basti d' i miei maggiori udirne questo: 3.16.44 chi ei si fosser e onde venner quivi, 3.16.45 più è tacer che ragionare onesto. 3.16.46 Tutti color ch' a quel tempo eran ivi 3.16.47 da poter arme tra Marte e 'l Batista, 3.16.48 erano il quinto di quei ch' or son vivi. 3.16.49 Ma la cittadinanza, ch' è or mista 3.16.50 di Campi, di Certaldo e di Fegghine, 3.16.51 pura vediesi ne l' ultimo artista. 3.16.52 Oh quanto fora meglio esser vicine 3.16.53 quelle genti ch' io dico, e al Galluzzo 3.16.54 e a Trespiano aver vostro confine, 3.16.55 che averle dentro e sostener lo puzzo 3.16.56 del villan d' Aguglion, di quel da Signa, 3.16.57 che già per barattare ha l' occhio aguzzo! 3.16.58 Se la gente ch' al mondo più traligna 3.16.59 non fosse stata a Cesare noverca, 3.16.60 ma come madre a suo figlio benigna, 3.16.61 tal fatto è fiorentino e cambia e merca, 3.16.62 che si sarebbe vòlto a Simifonti, 3.16.63 là dove andava l' avolo a la cerca; 3.16.64 sariesi Montemurlo ancor de' Conti; 3.16.65 sarieno i Cerchi nel piovier d' Acone, 3.16.66 e forse in Valdigrieve i Buondelmonti. 3.16.67 Sempre la confusion de le persone 3.16.68 principio fu del mal de la cittade, 3.16.69 come del vostro il cibo che s' appone; 3.16.70 e cieco toro più avaccio cade 3.16.71 che cieco agnello; e molte volte taglia 3.16.72 più e meglio una che le cinque spade. 3.16.73 Se tu riguardi Luni e Orbisaglia 3.16.74 come sono ite, e come se ne vanno 3.16.75 di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia, 3.16.76 udir come le schiatte si disfanno 3.16.77 non ti parrà nova cosa né forte, 3.16.78 poscia che le cittadi termine hanno. 3.16.79 Le vostre cose tutte hanno lor morte, 3.16.80 sì come voi; ma celasi in alcuna 3.16.81 che dura molto, e le vite son corte. 3.16.82 E come 'l volger del ciel de la luna 3.16.83 cuopre e discuopre i liti sanza posa, 3.16.84 così fa di Fiorenza la Fortuna: 3.16.85 per che non dee parer mirabil cosa 3.16.86 ciò ch' io dirò de li alti Fiorentini 3.16.87 onde è la fama nel tempo nascosa. 3.16.88 Io vidi li Ughi e vidi i Catellini, 3.16.89 Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi, 3.16.90 già nel calare, illustri cittadini; 3.16.91 e vidi così grandi come antichi, 3.16.92 con quel de la Sannella, quel de l' Arca, 3.16.93 e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi. 3.16.94 Sovra la porta ch' al presente è carca 3.16.95 di nova fellonia di tanto peso 3.16.96 che tosto fia iattura de la barca, 3.16.97 erano i Ravignani, ond' è disceso 3.16.98 il conte Guido e qualunque del nome 3.16.99 de l' alto Bellincione ha poscia preso. 3.16.100 Quel de la Pressa sapeva già come 3.16.101 regger si vuole, e avea Galigaio 3.16.102 dorata in casa sua già l' elsa e 'l pome. 3.16.103 Grand' era già la colonna del Vaio, 3.16.104 Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci 3.16.105 e Galli e quei ch' arrossan per lo staio. 3.16.106 Lo ceppo di che nacquero i Calfucci 3.16.107 era già grande, e già eran tratti 3.16.108 a le curule Sizii e Arrigucci. 3.16.109 Oh quali io vidi quei che son disfatti 3.16.110 per lor superbia! e le palle de l' oro 3.16.111 fiorian Fiorenza in tutt' i suoi gran fatti. 3.16.112 Così facieno i padri di coloro 3.16.113 che, sempre che la vostra chiesa vaca, 3.16.114 si fanno grassi stando a consistoro. 3.16.115 L' oltracotata schiatta che s' indraca 3.16.116 dietro a chi fugge, e a chi mostra 'l dente 3.16.117 o ver la borsa, com' agnel si placa, 3.16.118 già venìa sù, ma di picciola gente; 3.16.119 sì che non piacque ad Ubertin Donato 3.16.120 che pöi il suocero il fé lor parente. 3.16.121 Già era 'l Caponsacco nel mercato 3.16.122 disceso giù da Fiesole, e già era 3.16.123 buon cittadino Giuda e Infangato. 3.16.124 Io dirò cosa incredibile e vera: 3.16.125 nel picciol cerchio s' entrava per porta 3.16.126 che si nomava da quei de la Pera. 3.16.127 Ciascun che de la bella insegna porta 3.16.128 del gran barone il cui nome e 'l cui pregio 3.16.129 la festa di Tommaso riconforta, 3.16.130 da esso ebbe milizia e privilegio; 3.16.131 avvegna che con popol si rauni 3.16.132 oggi colui che la fascia col fregio. 3.16.133 Già eran Gualterotti e Importuni; 3.16.134 e ancor saria Borgo più quïeto, 3.16.135 se di novi vicin fosser digiuni. 3.16.136 La casa di che nacque il vostro fleto, 3.16.137 per lo giusto disdegno che v' ha morti 3.16.138 e puose fine al vostro viver lieto, 3.16.139 era onorata, essa e suoi consorti: 3.16.140 o Buondelmonte, quanto mal fuggisti 3.16.141 le nozze süe per li altrui conforti! 3.16.142 Molti sarebber lieti, che son tristi, 3.16.143 se Dio t' avesse conceduto ad Ema 3.16.144 la prima volta ch' a città venisti. 3.16.145 Ma conveniesi, a quella pietra scema 3.16.146 che guarda 'l ponte, che Fiorenza fesse 3.16.147 vittima ne la sua pace postrema. 3.16.148 Con queste genti, e con altre con esse, 3.16.149 vid' io Fiorenza in sì fatto riposo, 3.16.150 che non avea cagione onde piangesse. 3.16.151 Con queste genti vid' io glorïoso 3.16.152 e giusto il popol suo, tanto che 'l giglio 3.16.153 non era ad asta mai posto a ritroso, 3.16.154 né per divisïon fatto vermiglio».
CANTO XVII
3.17.1 Qual venne a Climenè, per accertarsi 3.17.2 di ciò ch' avëa incontro a sé udito, 3.17.3 quei ch' ancor fa li padri ai figli scarsi; 3.17.4 tal era io, e tal era sentito 3.17.5 e da Beatrice e da la santa lampa 3.17.6 che pria per me avea mutato sito. 3.17.7 Per che mia donna «Manda fuor la vampa 3.17.8 del tuo disio», mi disse, «sì ch' ella esca 3.17.9 segnata bene de la interna stampa: 3.17.10 non perché nostra conoscenza cresca 3.17.11 per tuo parlare, ma perché t' ausi 3.17.12 a dir la sete, sì che l' uom ti mesca». 3.17.13 «O cara piota mia che sì t' insusi, 3.17.14 che, come veggion le terrene menti 3.17.15 non capere in trïangol due ottusi, 3.17.16 così vedi le cose contingenti 3.17.17 anzi che sieno in sé, mirando il punto 3.17.18 a cui tutti li tempi son presenti; 3.17.19 mentre ch' io era a Virgilio congiunto 3.17.20 su per lo monte che l' anime cura 3.17.21 e discendendo nel mondo defunto, 3.17.22 dette mi fuor di mia vita futura 3.17.23 parole gravi, avvegna ch' io mi senta 3.17.24 ben tetragono ai colpi di ventura; 3.17.25 per che la voglia mia saria contenta 3.17.26 d' intender qual fortuna mi s' appressa: 3.17.27 ché saetta previsa vien più lenta». 3.17.28 Così diss' io a quella luce stessa 3.17.29 che pria m' avea parlato; e come volle 3.17.30 Beatrice, fu la mia voglia confessa. 3.17.31 Né per ambage, in che la gente folle 3.17.32 già s' inviscava pria che fosse anciso 3.17.33 l' Agnel di Dio che le peccata tolle, 3.17.34 ma per chiare parole e con preciso 3.17.35 latin rispuose quello amor paterno, 3.17.36 chiuso e parvente del suo proprio riso: 3.17.37 «La contingenza, che fuor del quaderno 3.17.38 de la vostra matera non si stende, 3.17.39 tutta è dipinta nel cospetto etterno; 3.17.40 necessità però quindi non prende 3.17.41 se non come dal viso in che si specchia 3.17.42 nave che per torrente giù discende. 3.17.43 Da indi, sì come viene ad orecchia 3.17.44 dolce armonia da organo, mi viene 3.17.45 a vista il tempo che ti s' apparecchia. 3.17.46 Qual si partio Ipolito d' Atene 3.17.47 per la spietata e perfida noverca, 3.17.48 tal di Fiorenza partir ti convene. 3.17.49 Questo si vuole e questo già si cerca, 3.17.50 e tosto verrà fatto a chi ciò pensa 3.17.51 là dove Cristo tutto dì si merca. 3.17.52 La colpa seguirà la parte offensa 3.17.53 in grido, come suol; ma la vendetta 3.17.54 fia testimonio al ver che la dispensa. 3.17.55 Tu lascerai ogne cosa diletta 3.17.56 più caramente; e questo è quello strale 3.17.57 che l' arco de lo essilio pria saetta. 3.17.58 Tu proverai sì come sa di sale 3.17.59 lo pane altrui, e come è duro calle 3.17.60 lo scendere e 'l salir per l' altrui scale. 3.17.61 E quel che più ti graverà le spalle, 3.17.62 sarà la compagnia malvagia e scempia 3.17.63 con la qual tu cadrai in questa valle; 3.17.64 che tutta ingrata, tutta matta ed empia 3.17.65 si farà contr' a te; ma, poco appresso, 3.17.66 ella, non tu, n' avrà rossa la tempia. 3.17.67 Di sua bestialitate il suo processo 3.17.68 farà la prova; sì ch' a te fia bello 3.17.69 averti fatta parte per te stesso. 3.17.70 Lo primo tuo refugio e 'l primo ostello 3.17.71 sarà la cortesia del gran Lombardo 3.17.72 che 'n su la scala porta il santo uccello; 3.17.73 ch' in te avrà sì benigno riguardo, 3.17.74 che del fare e del chieder, tra voi due, 3.17.75 fia primo quel che tra li altri è più tardo. 3.17.76 Con lui vedrai colui che 'mpresso fue, 3.17.77 nascendo, sì da questa stella forte, 3.17.78 che notabili fier l' opere sue. 3.17.79 Non se ne son le genti ancora accorte 3.17.80 per la novella età, ché pur nove anni 3.17.81 son queste rote intorno di lui torte; 3.17.82 ma pria che 'l Guasco l' alto Arrigo inganni, 3.17.83 parran faville de la sua virtute 3.17.84 in non curar d' argento né d' affanni. 3.17.85 Le sue magnificenze conosciute 3.17.86 saranno ancora, sì che ' suoi nemici 3.17.87 non ne potran tener le lingue mute. 3.17.88 A lui t' aspetta e a' suoi benefici; 3.17.89 per lui fia trasmutata molta gente, 3.17.90 cambiando condizion ricchi e mendici; 3.17.91 e portera'ne scritto ne la mente 3.17.92 di lui, e nol dirai»; e disse cose 3.17.93 incredibili a quei che fier presente. 3.17.94 Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose 3.17.95 di quel che ti fu detto; ecco le 'nsidie 3.17.96 che dietro a pochi giri son nascose. 3.17.97 Non vo' però ch' a' tuoi vicini invidie, 3.17.98 poscia che s' infutura la tua vita 3.17.99 via più là che 'l punir di lor perfidie». 3.17.100 Poi che, tacendo, si mostrò spedita 3.17.101 l' anima santa di metter la trama 3.17.102 in quella tela ch' io le porsi ordita, 3.17.103 io cominciai, come colui che brama, 3.17.104 dubitando, consiglio da persona 3.17.105 che vede e vuol dirittamente e ama: 3.17.106 «Ben veggio, padre mio, sì come sprona 3.17.107 lo tempo verso me, per colpo darmi 3.17.108 tal, ch' è più grave a chi più s' abbandona; 3.17.109 per che di provedenza è buon ch' io m' armi, 3.17.110 sì che, se loco m' è tolto più caro, 3.17.111 io non perdessi li altri per miei carmi. 3.17.112 Giù per lo mondo sanza fine amaro, 3.17.113 e per lo monte del cui bel cacume 3.17.114 li occhi de la mia donna mi levaro, 3.17.115 e poscia per lo ciel, di lume in lume, 3.17.116 ho io appreso quel che s' io ridico, 3.17.117 a molti fia sapor di forte agrume; 3.17.118 e s' io al vero son timido amico, 3.17.119 temo di perder viver tra coloro 3.17.120 che questo tempo chiameranno antico». 3.17.121 La luce in che rideva il mio tesoro 3.17.122 ch' io trovai lì, si fé prima corusca, 3.17.123 quale a raggio di sole specchio d' oro; 3.17.124 indi rispuose: «Coscïenza fusca 3.17.125 o de la propria o de l' altrui vergogna 3.17.126 pur sentirà la tua parola brusca. 3.17.127 Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, 3.17.128 tutta tua visïon fa manifesta; 3.17.129 e lascia pur grattar dov' è la rogna. 3.17.130 Ché se la voce tua sarà molesta 3.17.131 nel primo gusto, vital nodrimento 3.17.132 lascerà poi, quando sarà digesta. 3.17.133 Questo tuo grido farà come vento, 3.17.134 che le più alte cime più percuote; 3.17.135 e ciò non fa d' onor poco argomento. 3.17.136 Però ti son mostrate in queste rote, 3.17.137 nel monte e ne la valle dolorosa 3.17.138 pur l' anime che son di fama note, 3.17.139 che l' animo di quel ch' ode, non posa 3.17.140 né ferma fede per essempro ch' aia 3.17.141 la sua radice incognita e ascosa, 3.17.142 né per altro argomento che non paia».
CANTO XVIII
3.18.1 Già si godeva solo del suo verbo 3.18.2 quello specchio beato, e io gustava 3.18.3 lo mio, temprando col dolce l' acerbo; 3.18.4 e quella donna ch' a Dio mi menava 3.18.5 disse: «Muta pensier; pensa ch' i' sono 3.18.6 presso a colui ch' ogne torto disgrava». 3.18.7 Io mi rivolsi a l' amoroso suono 3.18.8 del mio conforto; e qual io allor vidi 3.18.9 ne li occhi santi amor, qui l' abbandono: 3.18.10 non perch' io pur del mio parlar diffidi, 3.18.11 ma per la mente che non può redire 3.18.12 sovra sé tanto, s' altri non la guidi. 3.18.13 Tanto poss' io di quel punto ridire, 3.18.14 che, rimirando lei, lo mio affetto 3.18.15 libero fu da ogne altro disire, 3.18.16 fin che 'l piacere etterno, che diretto 3.18.17 raggiava in Bëatrice, dal bel viso 3.18.18 mi contentava col secondo aspetto. 3.18.19 Vincendo me col lume d' un sorriso, 3.18.20 ella mi disse: «Volgiti e ascolta; 3.18.21 ché non pur ne' miei occhi è paradiso». 3.18.22 Come si vede qui alcuna volta 3.18.23 l' affetto ne la vista, s' elli è tanto, 3.18.24 che da lui sia tutta l' anima tolta, 3.18.25 così nel fiammeggiar del folgór santo, 3.18.26 a ch' io mi volsi, conobbi la voglia 3.18.27 in lui di ragionarmi ancora alquanto. 3.18.28 El cominciò: «In questa quinta soglia 3.18.29 de l' albero che vive de la cima 3.18.30 e frutta sempre e mai non perde foglia, 3.18.31 spiriti son beati, che giù, prima 3.18.32 che venissero al ciel, fuor di gran voce, 3.18.33 sì ch' ogne musa ne sarebbe opima. 3.18.34 Però mira ne' corni de la croce: 3.18.35 quello ch' io nomerò, lì farà l' atto 3.18.36 che fa in nube il suo foco veloce». 3.18.37 Io vidi per la croce un lume tratto 3.18.38 dal nomar Iosuè, com' el si feo; 3.18.39 né mi fu noto il dir prima che 'l fatto. 3.18.40 E al nome de l' alto Macabeo 3.18.41 vidi moversi un altro roteando, 3.18.42 e letizia era ferza del paleo. 3.18.43 Così per Carlo Magno e per Orlando 3.18.44 due ne seguì lo mio attento sguardo, 3.18.45 com' occhio segue suo falcon volando. 3.18.46 Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo 3.18.47 e 'l duca Gottifredi la mia vista 3.18.48 per quella croce, e Ruberto Guiscardo. 3.18.49 Indi, tra l' altre luci mota e mista, 3.18.50 mostrommi l' alma che m' avea parlato 3.18.51 qual era tra i cantor del cielo artista. 3.18.52 Io mi rivolsi dal mio destro lato 3.18.53 per vedere in Beatrice il mio dovere, 3.18.54 o per parlare o per atto, segnato; 3.18.55 e vidi le sue luci tanto mere, 3.18.56 tanto gioconde, che la sua sembianza 3.18.57 vinceva li altri e l' ultimo solere. 3.18.58 E come, per sentir più dilettanza 3.18.59 bene operando, l' uom di giorno in giorno 3.18.60 s' accorge che la sua virtute avanza, 3.18.61 sì m' accors' io che 'l mio girare intorno 3.18.62 col cielo insieme avea cresciuto l' arco, 3.18.63 veggendo quel miracol più addorno. 3.18.64 E qual è 'l trasmutare in picciol varco 3.18.65 di tempo in bianca donna, quando 'l volto 3.18.66 suo si discarchi di vergogna il carco, 3.18.67 tal fu ne li occhi miei, quando fui vòlto, 3.18.68 per lo candor de la temprata stella 3.18.69 sesta, che dentro a sé m' avea ricolto. 3.18.70 Io vidi in quella giovïal facella 3.18.71 lo sfavillar de l' amor che lì era 3.18.72 segnare a li occhi miei nostra favella. 3.18.73 E come augelli surti di rivera, 3.18.74 quasi congratulando a lor pasture, 3.18.75 fanno di sé or tonda or altra schiera, 3.18.76 sì dentro ai lumi sante creature 3.18.77 volitando cantavano, e faciensi 3.18.78 or D, or I, or L in sue figure. 3.18.79 Prima, cantando, a sua nota moviensi; 3.18.80 poi, diventando l' un di questi segni, 3.18.81 un poco s' arrestavano e taciensi. 3.18.82 O diva Pegasëa che li 'ngegni 3.18.83 fai glorïosi e rendili longevi, 3.18.84 ed essi teco le cittadi e ' regni, 3.18.85 illustrami di te, sì ch' io rilevi 3.18.86 le lor figure com' io l' ho concette: 3.18.87 paia tua possa in questi versi brevi! 3.18.88 Mostrarsi dunque in cinque volte sette 3.18.89 vocali e consonanti; e io notai 3.18.90 le parti sì, come mi parver dette. 3.18.91 "DILIGITE IUSTITIAM", primai 3.18.92 fur verbo e nome di tutto 'l dipinto; 3.18.93 "QUI IUDICATIS TERRAM", fur sezzai. 3.18.94 Poscia ne l' emme del vocabol quinto 3.18.95 rimasero ordinate; sì che Giove 3.18.96 pareva argento lì d' oro distinto. 3.18.97 E vidi scendere altre luci dove 3.18.98 era il colmo de l' emme, e lì quetarsi 3.18.99 cantando, credo, il ben ch' a sé le move. 3.18.100 Poi, come nel percuoter d' i ciocchi arsi 3.18.101 surgono innumerabili faville, 3.18.102 onde li stolti sogliono agurarsi, 3.18.103 resurger parver quindi più di mille 3.18.104 luci e salir, qual assai e qual poco, 3.18.105 sì come 'l sol che l' accende sortille; 3.18.106 e quïetata ciascuna in suo loco, 3.18.107 la testa e 'l collo d' un' aguglia vidi 3.18.108 rappresentare a quel distinto foco. 3.18.109 Quei che dipinge lì, non ha chi 'l guidi; 3.18.110 ma esso guida, e da lui si rammenta 3.18.111 quella virtù ch' è forma per li nidi. 3.18.112 L' altra bëatitudo, che contenta 3.18.113 pareva prima d' ingigliarsi a l' emme, 3.18.114 con poco moto seguitò la 'mprenta. 3.18.115 O dolce stella, quali e quante gemme 3.18.116 mi dimostraro che nostra giustizia 3.18.117 effetto sia del ciel che tu ingemme! 3.18.118 Per ch' io prego la mente in che s' inizia 3.18.119 tuo moto e tua virtute, che rimiri 3.18.120 ond' esce il fummo che 'l tuo raggio vizia; 3.18.121 sì ch' un' altra fïata omai s' adiri 3.18.122 del comperare e vender dentro al templo 3.18.123 che si murò di segni e di martìri. 3.18.124 O milizia del ciel cu' io contemplo, 3.18.125 adora per color che sono in terra 3.18.126 tutti svïati dietro al malo essemplo! 3.18.127 Già si solea con le spade far guerra; 3.18.128 ma or si fa togliendo or qui or quivi 3.18.129 lo pan che 'l pïo Padre a nessun serra. 3.18.130 Ma tu che sol per cancellare scrivi, 3.18.131 pensa che Pietro e Paulo, che moriro 3.18.132 per la vigna che guasti, ancor son vivi. 3.18.133 Ben puoi tu dire: «I' ho fermo 'l disiro 3.18.134 sì a colui che volle viver solo 3.18.135 e che per salti fu tratto al martiro, 3.18.136 ch' io non conosco il pescator né Polo».
CANTO XIX
3.19.1 Parea dinanzi a me con l' ali aperte 3.19.2 la bella image che nel dolce frui 3.19.3 liete facevan l' anime conserte; 3.19.4 parea ciascuna rubinetto in cui 3.19.5 raggio di sole ardesse sì acceso, 3.19.6 che ne' miei occhi rifrangesse lui. 3.19.7 E quel che mi convien ritrar testeso, 3.19.8 non portò voce mai, né scrisse incostro, 3.19.9 né fu per fantasia già mai compreso; 3.19.10 ch' io vidi e anche udi' parlar lo rostro, 3.19.11 e sonar ne la voce e «io»e «mio», 3.19.12 quand' era nel concetto e "noi"e "nostro". 3.19.13 E cominciò: «Per esser giusto e pio 3.19.14 son io qui essaltato a quella gloria 3.19.15 che non si lascia vincere a disio; 3.19.16 e in terra lasciai la mia memoria 3.19.17 sì fatta, che le genti lì malvage 3.19.18 commendan lei, ma non seguon la storia». 3.19.19 Così un sol calor di molte brage 3.19.20 si fa sentir, come di molti amori 3.19.21 usciva solo un suon di quella image. 3.19.22 Ond' io appresso: «O perpetüi fiori 3.19.23 de l' etterna letizia, che pur uno 3.19.24 parer mi fate tutti vostri odori, 3.19.25 solvetemi, spirando, il gran digiuno 3.19.26 che lungamente m' ha tenuto in fame, 3.19.27 non trovandoli in terra cibo alcuno. 3.19.28 Ben so io che, se 'n cielo altro reame 3.19.29 la divina giustizia fa suo specchio, 3.19.30 che 'l vostro non l' apprende con velame. 3.19.31 Sapete come attento io m' apparecchio 3.19.32 ad ascoltar; sapete qual è quello 3.19.33 dubbio che m' è digiun cotanto vecchio». 3.19.34 Quasi falcone ch' esce del cappello, 3.19.35 move la testa e con l' ali si plaude, 3.19.36 voglia mostrando e faccendosi bello, 3.19.37 vid' io farsi quel segno, che di laude 3.19.38 de la divina grazia era contesto, 3.19.39 con canti quai si sa chi là sù gaude. 3.19.40 Poi cominciò: «Colui che volse il sesto 3.19.41 a lo stremo del mondo, e dentro ad esso 3.19.42 distinse tanto occulto e manifesto, 3.19.43 non potè suo valor sì fare impresso 3.19.44 in tutto l' universo, che 'l suo verbo 3.19.45 non rimanesse in infinito eccesso. 3.19.46 E ciò fa certo che 'l primo superbo, 3.19.47 che fu la somma d' ogne creatura, 3.19.48 per non aspettar lume, cadde acerbo; 3.19.49 e quinci appar ch' ogne minor natura 3.19.50 è corto recettacolo a quel bene 3.19.51 che non ha fine e sé con sé misura. 3.19.52 Dunque vostra veduta, che convene 3.19.53 essere alcun de' raggi de la mente 3.19.54 di che tutte le cose son ripiene, 3.19.55 non pò da sua natura esser possente 3.19.56 tanto, che suo principio non discerna 3.19.57 molto di là da quel che l' è parvente. 3.19.58 Però ne la giustizia sempiterna 3.19.59 la vista che riceve il vostro mondo, 3.19.60 com' occhio per lo mare, entro s' interna; 3.19.61 che, ben che da la proda veggia il fondo, 3.19.62 in pelago nol vede; e nondimeno 3.19.63 èli, ma cela lui l' esser profondo. 3.19.64 Lume non è, se non vien dal sereno 3.19.65 che non si turba mai; anzi è tenèbra 3.19.66 od ombra de la carne o suo veleno. 3.19.67 Assai t' è mo aperta la latebra 3.19.68 che t' ascondeva la giustizia viva, 3.19.69 di che facei question cotanto crebra; 3.19.70 ché tu dicevi: "Un uom nasce a la riva 3.19.71 de l' Indo, e quivi non è chi ragioni 3.19.72 di Cristo né chi legga né chi scriva; 3.19.73 e tutti suoi voleri e atti buoni 3.19.74 sono, quanto ragione umana vede, 3.19.75 sanza peccato in vita o in sermoni. 3.19.76 Muore non battezzato e sanza fede: 3.19.77 ov' è questa giustizia che 'l condanna? 3.19.78 ov' è la colpa sua, se ei non crede?". 3.19.79 Or tu chi se', che vuo' sedere a scranna, 3.19.80 per giudicar di lungi mille miglia 3.19.81 con la veduta corta d' una spanna? 3.19.82 Certo a colui che meco s' assottiglia, 3.19.83 se la Scrittura sovra voi non fosse, 3.19.84 da dubitar sarebbe a maraviglia. 3.19.85 Oh terreni animali! oh menti grosse! 3.19.86 La prima volontà, ch' è da sé buona, 3.19.87 da sé, ch' è sommo ben, mai non si mosse. 3.19.88 Cotanto è giusto quanto a lei consuona: 3.19.89 nullo creato bene a sé la tira, 3.19.90 ma essa, radïando, lui cagiona». 3.19.91 Quale sovresso il nido si rigira 3.19.92 poi c' ha pasciuti la cicogna i figli, 3.19.93 e come quel ch' è pasto la rimira; 3.19.94 cotal si fece, e sì leväi i cigli, 3.19.95 la benedetta imagine, che l' ali 3.19.96 movea sospinte da tanti consigli. 3.19.97 Roteando cantava, e dicea: «Quali 3.19.98 son le mie note a te, che non le 'ntendi, 3.19.99 tal è il giudicio etterno a voi mortali». 3.19.100 Poi si quetaro quei lucenti incendi 3.19.101 de lo Spirito Santo ancor nel segno 3.19.102 che fé i Romani al mondo reverendi, 3.19.103 esso ricominciò: «A questo regno 3.19.104 non salì mai chi non credette 'n Cristo, 3.19.105 né pria né poi ch' el si chiavasse al legno. 3.19.106 Ma vedi: molti gridan "Cristo, Cristo!", 3.19.107 che saranno in giudicio assai men prope 3.19.108 a lui, che tal che non conosce Cristo; 3.19.109 e tai Cristian dannerà l' Etïòpe, 3.19.110 quando si partiranno i due collegi, 3.19.111 l' uno in etterno ricco e l' altro inòpe. 3.19.112 Che poran dir li Perse a' vostri regi, 3.19.113 come vedranno quel volume aperto 3.19.114 nel qual si scrivon tutti suoi dispregi? 3.19.115 Lì si vedrà, tra l' opere d' Alberto, 3.19.116 quella che tosto moverà la penna, 3.19.117 per che 'l regno di Praga fia diserto. 3.19.118 Lì si vedrà il duol che sovra Senna 3.19.119 induce, falseggiando la moneta, 3.19.120 quel che morrà di colpo di cotenna. 3.19.121 Lì si vedrà la superbia ch' asseta, 3.19.122 che fa lo Scotto e l' Inghilese folle, 3.19.123 sì che non può soffrir dentro a sua meta. 3.19.124 Vedrassi la lussuria e 'l viver molle 3.19.125 di quel di Spagna e di quel di Boemme, 3.19.126 che mai valor non conobbe né volle. 3.19.127 Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme 3.19.128 segnata con un i la sua bontate, 3.19.129 quando 'l contrario segnerà un emme. 3.19.130 Vedrassi l' avarizia e la viltate 3.19.131 di quei che guarda l' isola del foco, 3.19.132 ove Anchise finì la lunga etate; 3.19.133 e a dare ad intender quanto è poco, 3.19.134 la sua scrittura fian lettere mozze, 3.19.135 che noteranno molto in parvo loco. 3.19.136 E parranno a ciascun l' opere sozze 3.19.137 del barba e del fratel, che tanto egregia 3.19.138 nazione e due corone han fatte bozze. 3.19.139 E quel di Portogallo e di Norvegia 3.19.140 lì si conosceranno, e quel di Rascia 3.19.141 che male ha visto il conio di Vinegia. 3.19.142 O beata Ungheria, se non si lascia 3.19.143 più malmenare! e beata Navarra, 3.19.144 se s' armasse del monte che la fascia! 3.19.145 E creder de' ciascun che già, per arra 3.19.146 di questo, Niccosïa e Famagosta 3.19.147 per la lor bestia si lamenti e garra, 3.19.148 che dal fianco de l' altre non si scosta».
CANTO XX
3.20.1 Quando colui che tutto 'l mondo alluma 3.20.2 de l' emisperio nostro sì discende, 3.20.3 che 'l giorno d' ogne parte si consuma, 3.20.4 lo ciel, che sol di lui prima s' accende, 3.20.5 subitamente si rifà parvente 3.20.6 per molte luci, in che una risplende; 3.20.7 e questo atto del ciel mi venne a mente, 3.20.8 come 'l segno del mondo e de' suoi duci 3.20.9 nel benedetto rostro fu tacente; 3.20.10 però che tutte quelle vive luci, 3.20.11 vie più lucendo, cominciaron canti 3.20.12 da mia memoria labili e caduci. 3.20.13 O dolce amor che di riso t' ammanti, 3.20.14 quanto parevi ardente in que' flailli, 3.20.15 ch' avieno spirto sol di pensier santi! 3.20.16 Poscia che i cari e lucidi lapilli 3.20.17 ond' io vidi ingemmato il sesto lume 3.20.18 puoser silenzio a li angelici squilli, 3.20.19 udir mi parve un mormorar di fiume 3.20.20 che scende chiaro giù di pietra in pietra, 3.20.21 mostrando l' ubertà del suo cacume. 3.20.22 E come suono al collo de la cetra 3.20.23 prende sua forma, e sì com' al pertugio 3.20.24 de la sampogna vento che penètra, 3.20.25 così, rimosso d' aspettare indugio, 3.20.26 quel mormorar de l' aguglia salissi 3.20.27 su per lo collo, come fosse bugio. 3.20.28 Fecesi voce quivi, e quindi uscissi 3.20.29 per lo suo becco in forma di parole, 3.20.30 quali aspettava il core ov' io le scrissi. 3.20.31 «La parte in me che vede e pate il sole 3.20.32 ne l' aguglie mortali», incominciommi, 3.20.33 «or fisamente riguardar si vole, 3.20.34 perché d' i fuochi ond' io figura fommi, 3.20.35 quelli onde l' occhio in testa mi scintilla, 3.20.36 e' di tutti lor gradi son li sommi. 3.20.37 Colui che luce in mezzo per pupilla, 3.20.38 fu il cantor de lo Spirito Santo, 3.20.39 che l' arca traslatò di villa in villa: 3.20.40 ora conosce il merto del suo canto, 3.20.41 in quanto effetto fu del suo consiglio, 3.20.42 per lo remunerar ch' è altrettanto. 3.20.43 Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio, 3.20.44 colui che più al becco mi s' accosta, 3.20.45 la vedovella consolò del figlio: 3.20.46 ora conosce quanto caro costa 3.20.47 non seguir Cristo, per l' esperïenza 3.20.48 di questa dolce vita e de l' opposta. 3.20.49 E quel che segue in la circunferenza 3.20.50 di che ragiono, per l' arco superno, 3.20.51 morte indugiò per vera penitenza: 3.20.52 ora conosce che 'l giudicio etterno 3.20.53 non si trasmuta, quando degno preco 3.20.54 fa crastino là giù de l' odïerno. 3.20.55 L' altro che segue, con le leggi e meco, 3.20.56 sotto buona intenzion che fé mal frutto, 3.20.57 per cedere al pastor si fece greco: 3.20.58 ora conosce come il mal dedutto 3.20.59 dal suo bene operar non li è nocivo, 3.20.60 avvegna che sia 'l mondo indi distrutto. 3.20.61 E quel che vedi ne l' arco declivo, 3.20.62 Guiglielmo fu, cui quella terra plora 3.20.63 che piagne Carlo e Federigo vivo: 3.20.64 ora conosce come s' innamora 3.20.65 lo ciel del giusto rege, e al sembiante 3.20.66 del suo fulgore il fa vedere ancora. 3.20.67 Chi crederebbe giù nel mondo errante 3.20.68 che Rifëo Troiano in questo tondo 3.20.69 fosse la quinta de le luci sante? 3.20.70 Ora conosce assai di quel che 'l mondo 3.20.71 veder non può de la divina grazia, 3.20.72 ben che sua vista non discerna il fondo». 3.20.73 Quale allodetta che 'n aere si spazia 3.20.74 prima cantando, e poi tace contenta 3.20.75 de l' ultima dolcezza che la sazia, 3.20.76 tal mi sembiò l' imago de la 'mprenta 3.20.77 de l' etterno piacere, al cui disio 3.20.78 ciascuna cosa qual ell' è diventa. 3.20.79 E avvegna ch' io fossi al dubbiar mio 3.20.80 lì quasi vetro a lo color ch' el veste, 3.20.81 tempo aspettar tacendo non patio, 3.20.82 ma de la bocca, «Che cose son queste?», 3.20.83 mi pinse con la forza del suo peso: 3.20.84 per ch' io di coruscar vidi gran feste. 3.20.85 Poi appresso, con l' occhio più acceso, 3.20.86 lo benedetto segno mi rispuose 3.20.87 per non tenermi in ammirar sospeso: 3.20.88 «Io veggio che tu credi queste cose 3.20.89 perch' io le dico, ma non vedi come; 3.20.90 sì che, se son credute, sono ascose. 3.20.91 Fai come quei che la cosa per nome 3.20.92 apprende ben, ma la sua quiditate 3.20.93 veder non può se altri non la prome. 3.20.94 Regnum celorum vïolenza pate 3.20.95 da caldo amore e da viva speranza, 3.20.96 che vince la divina volontate: 3.20.97 non a guisa che l' omo a l' om sobranza, 3.20.98 ma vince lei perché vuole esser vinta, 3.20.99 e, vinta, vince con sua beninanza. 3.20.100 La prima vita del ciglio e la quinta 3.20.101 ti fa maravigliar, perché ne vedi 3.20.102 la regïon de li angeli dipinta. 3.20.103 D' i corpi suoi non uscir, come credi, 3.20.104 Gentili, ma Cristiani, in ferma fede 3.20.105 quel d' i passuri e quel d' i passi piedi. 3.20.106 Ché l' una de lo 'nferno, u' non si riede 3.20.107 già mai a buon voler, tornò a l' ossa; 3.20.108 e ciò di viva spene fu mercede: 3.20.109 di viva spene, che mise la possa 3.20.110 ne' prieghi fatti a Dio per suscitarla, 3.20.111 sì che potesse sua voglia esser mossa. 3.20.112 L' anima glorïosa onde si parla, 3.20.113 tornata ne la carne, in che fu poco, 3.20.114 credette in lui che potëa aiutarla; 3.20.115 e credendo s' accese in tanto foco 3.20.116 di vero amor, ch' a la morte seconda 3.20.117 fu degna di venire a questo gioco. 3.20.118 L' altra, per grazia che da sì profonda 3.20.119 fontana stilla, che mai creatura 3.20.120 non pinse l' occhio infino a la prima onda, 3.20.121 tutto suo amor là giù pose a drittura: 3.20.122 per che, di grazia in grazia, Dio li aperse 3.20.123 l' occhio a la nostra redenzion futura; 3.20.124 ond' ei credette in quella, e non sofferse 3.20.125 da indi il puzzo più del paganesmo; 3.20.126 e riprendiene le genti perverse. 3.20.127 Quelle tre donne li fur per battesmo 3.20.128 che tu vedesti da la destra rota, 3.20.129 dinanzi al battezzar più d' un millesmo. 3.20.130 O predestinazion, quanto remota 3.20.131 è la radice tua da quelli aspetti 3.20.132 che la prima cagion non veggion tota! 3.20.133 E voi, mortali, tenetevi stretti 3.20.134 a giudicar: ché noi, che Dio vedemo, 3.20.135 non conosciamo ancor tutti li eletti; 3.20.136 ed ènne dolce così fatto scemo, 3.20.137 perché il ben nostro in questo ben s' affina, 3.20.138 che quel che vole Iddio, e noi volemo». 3.20.139 Così da quella imagine divina, 3.20.140 per farmi chiara la mia corta vista, 3.20.141 data mi fu soave medicina. 3.20.142 E come a buon cantor buon citarista 3.20.143 fa seguitar lo guizzo de la corda, 3.20.144 in che più di piacer lo canto acquista, 3.20.145 sì, mentre ch' e' parlò, sì mi ricorda 3.20.146 ch' io vidi le due luci benedette, 3.20.147 pur come batter d' occhi si concorda, 3.20.148 con le parole mover le fiammette.
CANTO XXI
3.21.1 Già eran li occhi miei rifissi al volto 3.21.2 de la mia donna, e l' animo con essi, 3.21.3 e da ogne altro intento s' era tolto. 3.21.4 E quella non ridea; ma «S' io ridessi», 3.21.5 mi cominciò, «tu ti faresti quale 3.21.6 fu Semelè quando di cener fessi: 3.21.7 ché la bellezza mia, che per le scale 3.21.8 de l' etterno palazzo più s' accende, 3.21.9 com' hai veduto, quanto più si sale, 3.21.10 se non si temperasse, tanto splende, 3.21.11 che 'l tuo mortal podere, al suo fulgore, 3.21.12 sarebbe fronda che trono scoscende. 3.21.13 Noi sem levati al settimo splendore, 3.21.14 che sotto 'l petto del Leone ardente 3.21.15 raggia mo misto giù del suo valore. 3.21.16 Ficca di retro a li occhi tuoi la mente, 3.21.17 e fa di quelli specchi a la figura 3.21.18 che 'n questo specchio ti sarà parvente». 3.21.19 Qual savesse qual era la pastura 3.21.20 del viso mio ne l' aspetto beato 3.21.21 quand' io mi trasmutai ad altra cura, 3.21.22 conoscerebbe quanto m' era a grato 3.21.23 ubidire a la mia celeste scorta, 3.21.24 contrapesando l' un con l' altro lato. 3.21.25 Dentro al cristallo che 'l vocabol porta, 3.21.26 cerchiando il mondo, del suo caro duce 3.21.27 sotto cui giacque ogne malizia morta, 3.21.28 di color d' oro in che raggio traluce 3.21.29 vid' io uno scaleo eretto in suso 3.21.30 tanto, che nol seguiva la mia luce. 3.21.31 Vidi anche per li gradi scender giuso 3.21.32 tanti splendor, ch' io pensai ch' ogne lume 3.21.33 che par nel ciel, quindi fosse diffuso. 3.21.34 E come, per lo natural costume, 3.21.35 le pole insieme, al cominciar del giorno, 3.21.36 si movono a scaldar le fredde piume; 3.21.37 poi altre vanno via sanza ritorno, 3.21.38 altre rivolgon sé onde son mosse, 3.21.39 e altre roteando fan soggiorno; 3.21.40 tal modo parve me che quivi fosse 3.21.41 in quello sfavillar che 'nsieme venne, 3.21.42 sì come in certo grado si percosse. 3.21.43 E quel che presso più ci si ritenne, 3.21.44 si fé sì chiaro, ch' io dicea pensando: 3.21.45 "Io veggio ben l' amor che tu m' accenne. 3.21.46 Ma quella ond' io aspetto il come e 'l quando 3.21.47 del dire e del tacer, si sta; ond' io, 3.21.48 contra 'l disio, fo ben ch' io non dimando". 3.21.49 Per ch' ella, che vedëa il tacer mio 3.21.50 nel veder di colui che tutto vede, 3.21.51 mi disse: «Solvi il tuo caldo disio». 3.21.52 E io incominciai: «La mia mercede 3.21.53 non mi fa degno de la tua risposta; 3.21.54 ma per colei che 'l chieder mi concede, 3.21.55 vita beata che ti stai nascosta 3.21.56 dentro a la tua letizia, fammi nota 3.21.57 la cagion che sì presso mi t' ha posta; 3.21.58 e dì perché si tace in questa rota 3.21.59 la dolce sinfonia di paradiso, 3.21.60 che giù per l' altre suona sì divota». 3.21.61 «Tu hai l' udir mortal sì come il viso», 3.21.62 rispuose a me; «onde qui non si canta 3.21.63 per quel che Bëatrice non ha riso. 3.21.64 Giù per li gradi de la scala santa 3.21.65 discesi tanto sol per farti festa 3.21.66 col dire e con la luce che mi ammanta; 3.21.67 né più amor mi fece esser più presta, 3.21.68 ché più e tanto amor quinci sù ferve, 3.21.69 sì come il fiammeggiar ti manifesta. 3.21.70 Ma l' alta carità, che ci fa serve 3.21.71 pronte al consiglio che 'l mondo governa, 3.21.72 sorteggia qui sì come tu osserve». 3.21.73 «Io veggio ben», diss' io, «sacra lucerna, 3.21.74 come libero amore in questa corte 3.21.75 basta a seguir la provedenza etterna; 3.21.76 ma questo è quel ch' a cerner mi par forte, 3.21.77 perché predestinata fosti sola 3.21.78 a questo officio tra le tue consorte». 3.21.79 Né venni prima a l' ultima parola, 3.21.80 che del suo mezzo fece il lume centro, 3.21.81 girando sé come veloce mola; 3.21.82 poi rispuose l' amor che v' era dentro: 3.21.83 «Luce divina sopra me s' appunta, 3.21.84 penetrando per questa in ch' io m' inventro, 3.21.85 la cui virtù, col mio veder congiunta, 3.21.86 mi leva sopra me tanto, ch' i' veggio 3.21.87 la somma essenza de la quale è munta. 3.21.88 Quinci vien l' allegrezza ond' io fiammeggio; 3.21.89 per ch' a la vista mia, quant' ella è chiara, 3.21.90 la chiarità de la fiamma pareggio. 3.21.91 Ma quell' alma nel ciel che più si schiara, 3.21.92 quel serafin che 'n Dio più l' occhio ha fisso, 3.21.93 a la dimanda tua non satisfara, 3.21.94 però che sì s' innoltra ne lo abisso 3.21.95 de l' etterno statuto quel che chiedi, 3.21.96 che da ogne creata vista è scisso. 3.21.97 E al mondo mortal, quando tu riedi, 3.21.98 questo rapporta, sì che non presumma 3.21.99 a tanto segno più mover li piedi. 3.21.100 La mente, che qui luce, in terra fumma; 3.21.101 onde riguarda come può là giùe 3.21.102 quel che non pote perché 'l ciel l' assumma». 3.21.103 Sì mi prescrisser le parole sue, 3.21.104 ch' io lasciai la quistione e mi ritrassi 3.21.105 a dimandarla umilmente chi fue. 3.21.106 «Tra ' due liti d' Italia surgon sassi, 3.21.107 e non molto distanti a la tua patria, 3.21.108 tanto che ' troni assai suonan più bassi, 3.21.109 e fanno un gibbo che si chiama Catria, 3.21.110 di sotto al quale è consecrato un ermo, 3.21.111 che suole esser disposto a sola latria». 3.21.112 Così ricominciommi il terzo sermo; 3.21.113 e poi, continüando, disse: «Quivi 3.21.114 al servigio di Dio mi fe' sì fermo, 3.21.115 che pur con cibi di liquor d' ulivi 3.21.116 lievemente passava caldi e geli, 3.21.117 contento ne' pensier contemplativi. 3.21.118 Render solea quel chiostro a questi cieli 3.21.119 fertilemente; e ora è fatto vano, 3.21.120 sì che tosto convien che si riveli. 3.21.121 In quel loco fu' io Pietro Damiano, 3.21.122 e Pietro Peccator fu' ne la casa 3.21.123 di Nostra Donna in sul lito adriano. 3.21.124 Poca vita mortal m' era rimasa, 3.21.125 quando fui chiesto e tratto a quel cappello, 3.21.126 che pur di male in peggio si travasa. 3.21.127 Venne Cefàs e venne il gran vasello 3.21.128 de lo Spirito Santo, magri e scalzi, 3.21.129 prendendo il cibo da qualunque ostello. 3.21.130 Or voglion quinci e quindi chi rincalzi 3.21.131 li moderni pastori e chi li meni, 3.21.132 tanto son gravi, e chi di rietro li alzi. 3.21.133 Cuopron d' i manti loro i palafreni, 3.21.134 sì che due bestie van sott' una pelle: 3.21.135 oh pazïenza che tanto sostieni!». 3.21.136 A questa voce vid' io più fiammelle 3.21.137 di grado in grado scendere e girarsi, 3.21.138 e ogne giro le facea più belle. 3.21.139 Dintorno a questa vennero e fermarsi, 3.21.140 e fero un grido di sì alto suono, 3.21.141 che non potrebbe qui assomigliarsi; 3.21.142 né io lo 'ntesi, sì mi vinse il tuono.
CANTO XXII
3.22.1 Oppresso di stupore, a la mia guida 3.22.2 mi volsi, come parvol che ricorre 3.22.3 sempre colà dove più si confida; 3.22.4 e quella, come madre che soccorre 3.22.5 sùbito al figlio palido e anelo 3.22.6 con la sua voce, che 'l suol ben disporre, 3.22.7 mi disse: «Non sai tu che tu se' in cielo? 3.22.8 e non sai tu che 'l cielo è tutto santo, 3.22.9 e ciò che ci si fa vien da buon zelo? 3.22.10 Come t' avrebbe trasmutato il canto, 3.22.11 e io ridendo, mo pensar lo puoi, 3.22.12 poscia che 'l grido t' ha mosso cotanto; 3.22.13 nel qual, se 'nteso avessi i prieghi suoi, 3.22.14 già ti sarebbe nota la vendetta 3.22.15 che tu vedrai innanzi che tu muoi. 3.22.16 La spada di qua sù non taglia in fretta 3.22.17 né tardo, ma' ch' al parer di colui 3.22.18 che disïando o temendo l' aspetta. 3.22.19 Ma rivolgiti omai inverso altrui; 3.22.20 ch' assai illustri spiriti vedrai, 3.22.21 se com' io dico l' aspetto redui». 3.22.22 Come a lei piacque, li occhi ritornai, 3.22.23 e vidi cento sperule che 'nsieme 3.22.24 più s' abbellivan con mutüi rai. 3.22.25 Io stava come quei che 'n sé repreme 3.22.26 la punta del disio, e non s' attenta 3.22.27 di domandar, sì del troppo si teme; 3.22.28 e la maggiore e la più luculenta 3.22.29 di quelle margherite innanzi fessi, 3.22.30 per far di sé la mia voglia contenta. 3.22.31 Poi dentro a lei udi': «Se tu vedessi 3.22.32 com' io la carità che tra noi arde, 3.22.33 li tuoi concetti sarebbero espressi. 3.22.34 Ma perché tu, aspettando, non tarde 3.22.35 a l' alto fine, io ti farò risposta 3.22.36 pur al pensier, da che sì ti riguarde. 3.22.37 Quel monte a cui Cassino è ne la costa 3.22.38 fu frequentato già in su la cima 3.22.39 da la gente ingannata e mal disposta; 3.22.40 e quel son io che sù vi portai prima 3.22.41 lo nome di colui che 'n terra addusse 3.22.42 la verità che tanto ci soblima; 3.22.43 e tanta grazia sopra me relusse, 3.22.44 ch' io ritrassi le ville circunstanti 3.22.45 da l' empio cólto che 'l mondo sedusse. 3.22.46 Questi altri fuochi tutti contemplanti 3.22.47 uomini fuoro, accesi di quel caldo 3.22.48 che fa nascere i fiori e ' frutti santi. 3.22.49 Qui è Maccario, qui è Romoaldo, 3.22.50 qui son li frati miei che dentro ai chiostri 3.22.51 fermar li piedi e tennero il cor saldo». 3.22.52 E io a lui: «L' affetto che dimostri 3.22.53 meco parlando, e la buona sembianza 3.22.54 ch' io veggio e noto in tutti li ardor vostri, 3.22.55 così m' ha dilatata mia fidanza, 3.22.56 come 'l sol fa la rosa quando aperta 3.22.57 tanto divien quant' ell' ha di possanza. 3.22.58 Però ti priego, e tu, padre, m' accerta 3.22.59 s' io posso prender tanta grazia, ch' io 3.22.60 ti veggia con imagine scoverta». 3.22.61 Ond' elli: «Frate, il tuo alto disio 3.22.62 s' adempierà in su l' ultima spera, 3.22.63 ove s' adempion tutti li altri e 'l mio. 3.22.64 Ivi è perfetta, matura e intera 3.22.65 ciascuna disïanza; in quella sola 3.22.66 è ogne parte là ove sempr' era, 3.22.67 perché non è in loco e non s' impola; 3.22.68 e nostra scala infino ad essa varca, 3.22.69 onde così dal viso ti s' invola. 3.22.70 Infin là sù la vide il patriarca 3.22.71 Iacobbe porger la superna parte, 3.22.72 quando li apparve d' angeli sì carca. 3.22.73 Ma, per salirla, mo nessun diparte 3.22.74 da terra i piedi, e la regola mia 3.22.75 rimasa è per danno de le carte. 3.22.76 Le mura che solieno esser badia 3.22.77 fatte sono spelonche, e le cocolle 3.22.78 sacca son piene di farina ria. 3.22.79 Ma grave usura tanto non si tolle 3.22.80 contra 'l piacer di Dio, quanto quel frutto 3.22.81 che fa il cor de' monaci sì folle; 3.22.82 ché quantunque la Chiesa guarda, tutto 3.22.83 è de la gente che per Dio dimanda; 3.22.84 non di parenti né d' altro più brutto. 3.22.85 La carne d' i mortali è tanto blanda, 3.22.86 che giù non basta buon cominciamento 3.22.87 dal nascer de la quercia al far la ghianda. 3.22.88 Pier cominciò sanz' oro e sanz' argento, 3.22.89 e io con orazione e con digiuno, 3.22.90 e Francesco umilmente il suo convento; 3.22.91 e se guardi 'l principio di ciascuno, 3.22.92 poscia riguardi là dov' è trascorso, 3.22.93 tu vederai del bianco fatto bruno. 3.22.94 Veramente Iordan vòlto retrorso 3.22.95 più fu, e 'l mar fuggir, quando Dio volse, 3.22.96 mirabile a veder che qui 'l soccorso». 3.22.97 Così mi disse, e indi si raccolse 3.22.98 al suo collegio, e 'l collegio si strinse; 3.22.99 poi, come turbo, in sù tutto s' avvolse. 3.22.100 La dolce donna dietro a lor mi pinse 3.22.101 con un sol cenno su per quella scala, 3.22.102 sì sua virtù la mia natura vinse; 3.22.103 né mai qua giù dove si monta e cala 3.22.104 naturalmente, fu sì ratto moto 3.22.105 ch' agguagliar si potesse a la mia ala. 3.22.106 S' io torni mai, lettore, a quel divoto 3.22.107 trïunfo per lo quale io piango spesso 3.22.108 le mie peccata e 'l petto mi percuoto, 3.22.109 tu non avresti in tanto tratto e messo 3.22.110 nel foco il dito, in quant' io vidi 'l segno 3.22.111 che segue il Tauro e fui dentro da esso. 3.22.112 O glorïose stelle, o lume pregno 3.22.113 di gran virtù, dal quale io riconosco 3.22.114 tutto, qual che si sia, il mio ingegno, 3.22.115 con voi nasceva e s' ascondeva vosco 3.22.116 quelli ch' è padre d' ogne mortal vita, 3.22.117 quand' io senti' di prima l' aere tosco; 3.22.118 e poi, quando mi fu grazia largita 3.22.119 d' entrar ne l' alta rota che vi gira, 3.22.120 la vostra regïon mi fu sortita. 3.22.121 A voi divotamente ora sospira 3.22.122 l' anima mia, per acquistar virtute 3.22.123 al passo forte che a sé la tira. 3.22.124 «Tu se' sì presso a l' ultima salute», 3.22.125 cominciò Bëatrice, «che tu dei 3.22.126 aver le luci tue chiare e acute; 3.22.127 e però, prima che tu più t' inlei, 3.22.128 rimira in giù, e vedi quanto mondo 3.22.129 sotto li piedi già esser ti fei; 3.22.130 sì che 'l tuo cor, quantunque può, giocondo 3.22.131 s' appresenti a la turba trïunfante 3.22.132 che lieta vien per questo etera tondo». 3.22.133 Col viso ritornai per tutte quante 3.22.134 le sette spere, e vidi questo globo 3.22.135 tal, ch' io sorrisi del suo vil sembiante; 3.22.136 e quel consiglio per migliore approbo 3.22.137 che l' ha per meno; e chi ad altro pensa 3.22.138 chiamar si puote veramente probo. 3.22.139 Vidi la figlia di Latona incensa 3.22.140 sanza quell' ombra che mi fu cagione 3.22.141 per che già la credetti rara e densa. 3.22.142 L' aspetto del tuo nato, Iperïone, 3.22.143 quivi sostenni, e vidi com' si move 3.22.144 circa e vicino a lui Maia e Dïone. 3.22.145 Quindi m' apparve il temperar di Giove 3.22.146 tra 'l padre e 'l figlio; e quindi mi fu chiaro 3.22.147 il varïar che fanno di lor dove; 3.22.148 e tutti e sette mi si dimostraro 3.22.149 quanto son grandi e quanto son veloci 3.22.150 e come sono in distante riparo. 3.22.151 L' aiuola che ci fa tanto feroci, 3.22.152 volgendom' io con li etterni Gemelli, 3.22.153 tutta m' apparve da' colli a le foci; 3.22.154 poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.
CANTO XXIII
3.23.1 Come l' augello, intra l' amate fronde, 3.23.2 posato al nido de' suoi dolci nati 3.23.3 la notte che le cose ci nasconde, 3.23.4 che, per veder li aspetti disïati 3.23.5 e per trovar lo cibo onde li pasca, 3.23.6 in che gravi labor li sono aggrati, 3.23.7 previene il tempo in su aperta frasca, 3.23.8 e con ardente affetto il sole aspetta, 3.23.9 fiso guardando pur che l' alba nasca; 3.23.10 così la donna mïa stava eretta 3.23.11 e attenta, rivolta inver' la plaga 3.23.12 sotto la quale il sol mostra men fretta: 3.23.13 sì che, veggendola io sospesa e vaga, 3.23.14 fecimi qual è quei che disïando 3.23.15 altro vorria, e sperando s' appaga. 3.23.16 Ma poco fu tra uno e altro quando, 3.23.17 del mio attender, dico, e del vedere 3.23.18 lo ciel venir più e più rischiarando; 3.23.19 e Bëatrice disse: «Ecco le schiere 3.23.20 del trïunfo di Cristo e tutto 'l frutto 3.23.21 ricolto del girar di queste spere!». 3.23.22 Pariemi che 'l suo viso ardesse tutto, 3.23.23 e li occhi avea di letizia sì pieni, 3.23.24 che passarmen convien sanza costrutto. 3.23.25 Quale ne' plenilunïi sereni 3.23.26 Trivïa ride tra le ninfe etterne 3.23.27 che dipingon lo ciel per tutti i seni, 3.23.28 vid' i' sopra migliaia di lucerne 3.23.29 un sol che tutte quante l' accendea, 3.23.30 come fa 'l nostro le viste superne; 3.23.31 e per la viva luce trasparea 3.23.32 la lucente sustanza tanto chiara 3.23.33 nel viso mio, che non la sostenea. 3.23.34 Oh Bëatrice, dolce guida e cara! 3.23.35 Ella mi disse: «Quel che ti sobranza 3.23.36 è virtù da cui nulla si ripara. 3.23.37 Quivi è la sapïenza e la possanza 3.23.38 ch' aprì le strade tra 'l cielo e la terra, 3.23.39 onde fu già sì lunga disïanza». 3.23.40 Come foco di nube si diserra 3.23.41 per dilatarsi sì che non vi cape, 3.23.42 e fuor di sua natura in giù s' atterra, 3.23.43 la mente mia così, tra quelle dape 3.23.44 fatta più grande, di sé stessa uscìo, 3.23.45 e che si fesse rimembrar non sape. 3.23.46 «Apri li occhi e riguarda qual son io; 3.23.47 tu hai vedute cose, che possente 3.23.48 se' fatto a sostener lo riso mio». 3.23.49 Io era come quei che si risente 3.23.50 di visïone oblita e che s' ingegna 3.23.51 indarno di ridurlasi a la mente, 3.23.52 quand' io udi' questa proferta, degna 3.23.53 di tanto grato, che mai non si stingue 3.23.54 del libro che 'l preterito rassegna. 3.23.55 Se mo sonasser tutte quelle lingue 3.23.56 che Polimnïa con le suore fero 3.23.57 del latte lor dolcissimo più pingue, 3.23.58 per aiutarmi, al millesmo del vero 3.23.59 non si verria, cantando il santo riso 3.23.60 e quanto il santo aspetto facea mero; 3.23.61 e così, figurando il paradiso, 3.23.62 convien saltar lo sacrato poema, 3.23.63 come chi trova suo cammin riciso. 3.23.64 Ma chi pensasse il ponderoso tema 3.23.65 e l' omero mortal che se ne carca, 3.23.66 nol biasmerebbe se sott' esso trema: 3.23.67 non è pareggio da picciola barca 3.23.68 quel che fendendo va l' ardita prora, 3.23.69 né da nocchier ch' a sé medesmo parca. 3.23.70 «Perché la faccia mia sì t' innamora, 3.23.71 che tu non ti rivolgi al bel giardino 3.23.72 che sotto i raggi di Cristo s' infiora? 3.23.73 Quivi è la rosa in che 'l verbo divino 3.23.74 carne si fece; quivi son li gigli 3.23.75 al cui odor si prese il buon cammino». 3.23.76 Così Beatrice; e io, che a' suoi consigli 3.23.77 tutto era pronto, ancora mi rendei 3.23.78 a la battaglia de' debili cigli. 3.23.79 Come a raggio di sol, che puro mei 3.23.80 per fratta nube, già prato di fiori 3.23.81 vider, coverti d' ombra, li occhi miei; 3.23.82 vid' io così più turbe di splendori, 3.23.83 folgorate di sù da raggi ardenti, 3.23.84 sanza veder principio di folgóri. 3.23.85 O benigna vertù che sì li 'mprenti, 3.23.86 sù t' essaltasti per largirmi loco 3.23.87 a li occhi lì che non t' eran possenti. 3.23.88 Il nome del bel fior ch' io sempre invoco 3.23.89 e mane e sera, tutto mi ristrinse 3.23.90 l' animo ad avvisar lo maggior foco; 3.23.91 e come ambo le luci mi dipinse 3.23.92 il quale e il quanto de la viva stella 3.23.93 che là sù vince come qua giù vinse, 3.23.94 per entro il cielo scese una facella, 3.23.95 formata in cerchio a guisa di corona, 3.23.96 e cinsela e girossi intorno ad ella. 3.23.97 Qualunque melodia più dolce suona 3.23.98 qua giù e più a sé l' anima tira, 3.23.99 parrebbe nube che squarciata tona, 3.23.100 comparata al sonar di quella lira 3.23.101 onde si coronava il bel zaffiro 3.23.102 del quale il ciel più chiaro s' inzaffira. 3.23.103 «Io sono amore angelico, che giro 3.23.104 l' alta letizia che spira del ventre 3.23.105 che fu albergo del nostro disiro; 3.23.106 e girerommi, donna del ciel, mentre 3.23.107 che seguirai tuo figlio, e farai dia 3.23.108 più la spera supprema perché lì entre». 3.23.109 Così la circulata melodia 3.23.110 si sigillava, e tutti li altri lumi 3.23.111 facean sonare il nome di Maria. 3.23.112 Lo real manto di tutti i volumi 3.23.113 del mondo, che più ferve e più s' avviva 3.23.114 ne l' alito di Dio e nei costumi, 3.23.115 avea sopra di noi l' interna riva 3.23.116 tanto distante, che la sua parvenza, 3.23.117 là dov' io era, ancor non appariva: 3.23.118 però non ebber li occhi miei potenza 3.23.119 di seguitar la coronata fiamma 3.23.120 che si levò appresso sua semenza. 3.23.121 E come fantolin che 'nver' la mamma 3.23.122 tende le braccia, poi che 'l latte prese, 3.23.123 per l' animo che 'nfin di fuor s' infiamma; 3.23.124 ciascun di quei candori in sù si stese 3.23.125 con la sua cima, sì che l' alto affetto 3.23.126 ch' elli avieno a Maria mi fu palese. 3.23.127 Indi rimaser lì nel mio cospetto, 3.23.128 "Regina celi"cantando sì dolce, 3.23.129 che mai da me non si partì 'l diletto. 3.23.130 Oh quanta è l' ubertà che si soffolce 3.23.131 in quelle arche ricchissime che fuoro 3.23.132 a seminar qua giù buone bobolce! 3.23.133 Quivi si vive e gode del tesoro 3.23.134 che s' acquistò piangendo ne lo essilio 3.23.135 di Babillòn, ove si lasciò l' oro. 3.23.136 Quivi trïunfa, sotto l' alto Filio 3.23.137 di Dio e di Maria, di sua vittoria, 3.23.138 e con l' antico e col novo concilio, 3.23.139 colui che tien le chiavi di tal gloria.
CANTO XXIV
3.24.1 «O sodalizio eletto a la gran cena 3.24.2 del benedetto Agnello, il qual vi ciba 3.24.3 sì, che la vostra voglia è sempre piena, 3.24.4 se per grazia di Dio questi preliba 3.24.5 di quel che cade de la vostra mensa, 3.24.6 prima che morte tempo li prescriba, 3.24.7 ponete mente a l' affezione immensa 3.24.8 e roratelo alquanto: voi bevete 3.24.9 sempre del fonte onde vien quel ch' ei pensa». 3.24.10 Così Beatrice; e quelle anime liete 3.24.11 si fero spere sopra fissi poli, 3.24.12 fiammando, volte, a guisa di comete. 3.24.13 E come cerchi in tempra d' orïuoli 3.24.14 si giran sì, che 'l primo a chi pon mente 3.24.15 quïeto pare, e l' ultimo che voli; 3.24.16 così quelle carole, differente- 3.24.17 mente danzando, de la sua ricchezza 3.24.18 mi facieno stimar, veloci e lente. 3.24.19 Di quella ch' io notai di più carezza 3.24.20 vid' ïo uscire un foco sì felice, 3.24.21 che nullo vi lasciò di più chiarezza; 3.24.22 e tre fïate intorno di Beatrice 3.24.23 si volse con un canto tanto divo, 3.24.24 che la mia fantasia nol mi ridice. 3.24.25 Però salta la penna e non lo scrivo: 3.24.26 ché l' imagine nostra a cotai pieghe, 3.24.27 non che 'l parlare, è troppo color vivo. 3.24.28 «O santa suora mia che sì ne prieghe 3.24.29 divota, per lo tuo ardente affetto 3.24.30 da quella bella spera mi disleghe». 3.24.31 Poscia fermato, il foco benedetto 3.24.32 a la mia donna dirizzò lo spiro, 3.24.33 che favellò così com' i' ho detto. 3.24.34 Ed ella: «O luce etterna del gran viro 3.24.35 a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi, 3.24.36 ch' ei portò giù, di questo gaudio miro, 3.24.37 tenta costui di punti lievi e gravi, 3.24.38 come ti piace, intorno de la fede, 3.24.39 per la qual tu su per lo mare andavi. 3.24.40 S' elli ama bene e bene spera e crede, 3.24.41 non t' è occulto, perché 'l viso hai quivi 3.24.42 dov' ogne cosa dipinta si vede; 3.24.43 ma perché questo regno ha fatto civi 3.24.44 per la verace fede, a glorïarla, 3.24.45 di lei parlare è ben ch' a lui arrivi». 3.24.46 Sì come il baccialier s' arma e non parla 3.24.47 fin che 'l maestro la question propone, 3.24.48 per approvarla, non per terminarla, 3.24.49 così m' armava io d' ogne ragione 3.24.50 mentre ch' ella dicea, per esser presto 3.24.51 a tal querente e a tal professione. 3.24.52 «Dì, buon Cristiano, fatti manifesto: 3.24.53 fede che è?». Ond' io levai la fronte 3.24.54 in quella luce onde spirava questo; 3.24.55 poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte 3.24.56 sembianze femmi perch' ïo spandessi 3.24.57 l' acqua di fuor del mio interno fonte. 3.24.58 «La Grazia che mi dà ch' io mi confessi», 3.24.59 comincia' io, «da l' alto primipilo, 3.24.60 faccia li miei concetti bene espressi». 3.24.61 E seguitai: «Come 'l verace stilo 3.24.62 ne scrisse, padre, del tuo caro frate 3.24.63 che mise teco Roma nel buon filo, 3.24.64 fede è sustanza di cose sperate 3.24.65 e argomento de le non parventi; 3.24.66 e questa pare a me sua quiditate». 3.24.67 Allora udi': «Dirittamente senti, 3.24.68 se bene intendi perché la ripuose 3.24.69 tra le sustanze, e poi tra li argomenti». 3.24.70 E io appresso: «Le profonde cose 3.24.71 che mi largiscon qui la lor parvenza, 3.24.72 a li occhi di là giù son sì ascose, 3.24.73 che l' esser loro v' è in sola credenza, 3.24.74 sopra la qual si fonda l' alta spene; 3.24.75 e però di sustanza prende intenza. 3.24.76 E da questa credenza ci convene 3.24.77 silogizzar, sanz' avere altra vista: 3.24.78 però intenza d' argomento tene». 3.24.79 Allora udi': «Se quantunque s' acquista 3.24.80 giù per dottrina, fosse così 'nteso, 3.24.81 non lì avria loco ingegno di sofista». 3.24.82 Così spirò di quello amore acceso; 3.24.83 indi soggiunse: «Assai bene è trascorsa 3.24.84 d' esta moneta già la lega e 'l peso; 3.24.85 ma dimmi se tu l' hai ne la tua borsa». 3.24.86 Ond' io: «Sì ho, sì lucida e sì tonda, 3.24.87 che nel suo conio nulla mi s' inforsa». 3.24.88 Appresso uscì de la luce profonda 3.24.89 che lì splendeva: «Questa cara gioia 3.24.90 sopra la quale ogne virtù si fonda, 3.24.91 onde ti venne?». E io: «La larga ploia 3.24.92 de lo Spirito Santo, ch' è diffusa 3.24.93 in su le vecchie e 'n su le nuove cuoia, 3.24.94 è silogismo che la m' ha conchiusa 3.24.95 acutamente sì, che 'nverso d' ella 3.24.96 ogne dimostrazion mi pare ottusa». 3.24.97 Io udi' poi: «L' antica e la novella 3.24.98 proposizion che così ti conchiude, 3.24.99 perché l' hai tu per divina favella?». 3.24.100 E io: «La prova che 'l ver mi dischiude, 3.24.101 son l' opere seguite, a che natura 3.24.102 non scalda ferro mai né batte incude». 3.24.103 Risposto fummi: «Dì, chi t' assicura 3.24.104 che quell' opere fosser? Quel medesmo 3.24.105 che vuol provarsi, non altri, il ti giura». 3.24.106 «Se 'l mondo si rivolse al cristianesmo», 3.24.107 diss' io, «sanza miracoli, quest' uno 3.24.108 è tal, che li altri non sono il centesmo: 3.24.109 ché tu intrasti povero e digiuno 3.24.110 in campo, a seminar la buona pianta 3.24.111 che fu già vite e ora è fatta pruno». 3.24.112 Finito questo, l' alta corte santa 3.24.113 risonò per le spere un "Dio laudamo" 3.24.114 ne la melode che là sù si canta. 3.24.115 E quel baron che sì di ramo in ramo, 3.24.116 essaminando, già tratto m' avea, 3.24.117 che a l' ultime fronde appressavamo, 3.24.118 ricominciò: «La Grazia, che donnea 3.24.119 con la tua mente, la bocca t' aperse 3.24.120 infino a qui come aprir si dovea, 3.24.121 sì ch' io approvo ciò che fuori emerse; 3.24.122 ma or convien espremer quel che credi, 3.24.123 e onde a la credenza tua s' offerse». 3.24.124 «O santo padre, e spirito che vedi 3.24.125 ciò che credesti sì, che tu vincesti 3.24.126 ver' lo sepulcro più giovani piedi», 3.24.127 comincia' io, «tu vuo' ch' io manifesti 3.24.128 la forma qui del pronto creder mio, 3.24.129 e anche la cagion di lui chiedesti. 3.24.130 E io rispondo: Io credo in uno Dio 3.24.131 solo ed etterno, che tutto 'l ciel move, 3.24.132 non moto, con amore e con disio; 3.24.133 e a tal creder non ho io pur prove 3.24.134 fisice e metafisice, ma dalmi 3.24.135 anche la verità che quinci piove 3.24.136 per Möisè, per profeti e per salmi, 3.24.137 per l' Evangelio e per voi che scriveste 3.24.138 poi che l' ardente Spirto vi fé almi; 3.24.139 e credo in tre persone etterne, e queste 3.24.140 credo una essenza sì una e sì trina, 3.24.141 che soffera congiunto "sono"ed "este". 3.24.142 De la profonda condizion divina 3.24.143 ch' io tocco mo, la mente mi sigilla 3.24.144 più volte l' evangelica dottrina. 3.24.145 Quest' è 'l principio, quest' è la favilla 3.24.146 che si dilata in fiamma poi vivace, 3.24.147 e come stella in cielo in me scintilla». 3.24.148 Come 'l segnor ch' ascolta quel che i piace, 3.24.149 da indi abbraccia il servo, gratulando 3.24.150 per la novella, tosto ch' el si tace; 3.24.151 così, benedicendomi cantando, 3.24.152 tre volte cinse me, sì com' io tacqui, 3.24.153 l' appostolico lume al cui comando 3.24.154 io avea detto: sì nel dir li piacqui!
CANTO XXV
3.25.1 Se mai continga che 'l poema sacro 3.25.2 al quale ha posto mano e cielo e terra, 3.25.3 sì che m' ha fatto per molti anni macro, 3.25.4 vinca la crudeltà che fuor mi serra 3.25.5 del bello ovile ov' io dormi' agnello, 3.25.6 nimico ai lupi che li danno guerra; 3.25.7 con altra voce omai, con altro vello 3.25.8 ritornerò poeta, e in sul fonte 3.25.9 del mio battesmo prenderò 'l cappello; 3.25.10 però che ne la fede, che fa conte 3.25.11 l' anime a Dio, quivi intra' io, e poi 3.25.12 Pietro per lei sì mi girò la fronte. 3.25.13 Indi si mosse un lume verso noi 3.25.14 di quella spera ond' uscì la primizia 3.25.15 che lasciò Cristo d' i vicari suoi; 3.25.16 e la mia donna, piena di letizia, 3.25.17 mi disse: «Mira, mira: ecco il barone 3.25.18 per cui là giù si vicita Galizia». 3.25.19 Sì come quando il colombo si pone 3.25.20 presso al compagno, l' uno a l' altro pande, 3.25.21 girando e mormorando, l' affezione; 3.25.22 così vid' ïo l' un da l' altro grande 3.25.23 principe glorïoso essere accolto, 3.25.24 laudando il cibo che là sù li prande. 3.25.25 Ma poi che 'l gratular si fu assolto, 3.25.26 tacito coram me ciascun s' affisse, 3.25.27 ignito sì che vincëa 'l mio volto. 3.25.28 Ridendo allora Bëatrice disse: 3.25.29 «Inclita vita per cui la larghezza 3.25.30 de la nostra basilica si scrisse, 3.25.31 fa risonar la spene in questa altezza: 3.25.32 tu sai, che tante fiate la figuri, 3.25.33 quante Iesù ai tre fé più carezza». 3.25.34 «Leva la testa e fa che t' assicuri: 3.25.35 ché ciò che vien qua sù del mortal mondo, 3.25.36 convien ch' ai nostri raggi si maturi». 3.25.37 Questo conforto del foco secondo 3.25.38 mi venne; ond' io leväi li occhi a' monti 3.25.39 che li 'ncurvaron pria col troppo pondo. 3.25.40 «Poi che per grazia vuol che tu t' affronti 3.25.41 lo nostro Imperadore, anzi la morte, 3.25.42 ne l' aula più secreta co' suoi conti, 3.25.43 sì che, veduto il ver di questa corte, 3.25.44 la spene, che là giù bene innamora, 3.25.45 in te e in altrui di ciò conforte, 3.25.46 dì quel ch' ell' è, dì come se ne 'nfiora 3.25.47 la mente tua, e dì onde a te venne». 3.25.48 Così seguì 'l secondo lume ancora. 3.25.49 E quella pïa che guidò le penne 3.25.50 de le mie ali a così alto volo, 3.25.51 a la risposta così mi prevenne: 3.25.52 «La Chiesa militante alcun figliuolo 3.25.53 non ha con più speranza, com' è scritto 3.25.54 nel Sol che raggia tutto nostro stuolo: 3.25.55 però li è conceduto che d' Egitto 3.25.56 vegna in Ierusalemme per vedere, 3.25.57 anzi che 'l militar li sia prescritto. 3.25.58 Li altri due punti, che non per sapere 3.25.59 son dimandati, ma perch' ei rapporti 3.25.60 quanto questa virtù t' è in piacere, 3.25.61 a lui lasc' io, ché non li saran forti 3.25.62 né di iattanza; ed elli a ciò risponda, 3.25.63 e la grazia di Dio ciò li comporti». 3.25.64 Come discente ch' a dottor seconda 3.25.65 pronto e libente in quel ch' elli è esperto, 3.25.66 perché la sua bontà si disasconda, 3.25.67 «Spene», diss' io, «è uno attender certo 3.25.68 de la gloria futura, il qual produce 3.25.69 grazia divina e precedente merto. 3.25.70 Da molte stelle mi vien questa luce; 3.25.71 ma quei la distillò nel mio cor pria 3.25.72 che fu sommo cantor del sommo duce. 3.25.73 "Sperino in te", ne la sua tëodia 3.25.74 dice, "color che sanno il nome tuo": 3.25.75 e chi nol sa, s' elli ha la fede mia? 3.25.76 Tu mi stillasti, con lo stillar suo, 3.25.77 ne la pistola poi; sì ch' io son pieno, 3.25.78 e in altrui vostra pioggia repluo». 3.25.79 Mentr' io diceva, dentro al vivo seno 3.25.80 di quello incendio tremolava un lampo 3.25.81 sùbito e spesso a guisa di baleno. 3.25.82 Indi spirò: «L' amore ond' ïo avvampo 3.25.83 ancor ver' la virtù che mi seguette 3.25.84 infin la palma e a l' uscir del campo, 3.25.85 vuol ch' io respiri a te che ti dilette 3.25.86 di lei; ed emmi a grato che tu diche 3.25.87 quello che la speranza ti 'mpromette». 3.25.88 E io: «Le nove e le scritture antiche 3.25.89 pongon lo segno, ed esso lo mi addita, 3.25.90 de l' anime che Dio s' ha fatte amiche. 3.25.91 Dice Isaia che ciascuna vestita 3.25.92 ne la sua terra fia di doppia vesta: 3.25.93 e la sua terra è questa dolce vita; 3.25.94 e 'l tuo fratello assai vie più digesta, 3.25.95 là dove tratta de le bianche stole, 3.25.96 questa revelazion ci manifesta». 3.25.97 E prima, appresso al fin d' este parole, 3.25.98 "Sperent in te"di sopr' a noi s' udì; 3.25.99 a che rispuoser tutte le carole. 3.25.100 Poscia tra esse un lume si schiarì 3.25.101 sì che, se 'l Cancro avesse un tal cristallo, 3.25.102 l' inverno avrebbe un mese d' un sol dì. 3.25.103 E come surge e va ed entra in ballo 3.25.104 vergine lieta, sol per fare onore 3.25.105 a la novizia, non per alcun fallo, 3.25.106 così vid' io lo schiarato splendore 3.25.107 venire a' due che si volgieno a nota 3.25.108 qual conveniesi al loro ardente amore. 3.25.109 Misesi lì nel canto e ne la rota; 3.25.110 e la mia donna in lor tenea l' aspetto, 3.25.111 pur come sposa tacita e immota. 3.25.112 «Questi è colui che giacque sopra 'l petto 3.25.113 del nostro pellicano, e questi fue 3.25.114 di su la croce al grande officio eletto». 3.25.115 La donna mia così; né però piùe 3.25.116 mosser la vista sua di stare attenta 3.25.117 poscia che prima le parole sue. 3.25.118 Qual è colui ch' adocchia e s' argomenta 3.25.119 di vedere eclissar lo sole un poco, 3.25.120 che, per veder, non vedente diventa; 3.25.121 tal mi fec' ïo a quell' ultimo foco 3.25.122 mentre che detto fu: «Perché t' abbagli 3.25.123 per veder cosa che qui non ha loco? 3.25.124 In terra è terra il mio corpo, e saragli 3.25.125 tanto con li altri, che 'l numero nostro 3.25.126 con l' etterno proposito s' agguagli. 3.25.127 Con le due stole nel beato chiostro 3.25.128 son le due luci sole che saliro; 3.25.129 e questo apporterai nel mondo vostro». 3.25.130 A questa voce l' infiammato giro 3.25.131 si quïetò con esso il dolce mischio 3.25.132 che si facea nel suon del trino spiro, 3.25.133 sì come, per cessar fatica o rischio, 3.25.134 li remi, pria ne l' acqua ripercossi, 3.25.135 tutti si posano al sonar d' un fischio. 3.25.136 Ahi quanto ne la mente mi commossi, 3.25.137 quando mi volsi per veder Beatrice, 3.25.138 per non poter veder, benché io fossi 3.25.139 presso di lei, e nel mondo felice!
CANTO XXVI
3.26.1 Mentr' io dubbiava per lo viso spento, 3.26.2 de la fulgida fiamma che lo spense 3.26.3 uscì un spiro che mi fece attento, 3.26.4 dicendo: «Intanto che tu ti risense 3.26.5 de la vista che häi in me consunta, 3.26.6 ben è che ragionando la compense. 3.26.7 Comincia dunque; e dì ove s' appunta 3.26.8 l' anima tua, e fa ragion che sia 3.26.9 la vista in te smarrita e non defunta: 3.26.10 perché la donna che per questa dia 3.26.11 regïon ti conduce, ha ne lo sguardo 3.26.12 la virtù ch' ebbe la man d' Anania». 3.26.13 Io dissi: «Al suo piacere e tosto e tardo 3.26.14 vegna remedio a li occhi, che fuor porte 3.26.15 quand' ella entrò col foco ond' io sempr' ardo. 3.26.16 Lo ben che fa contenta questa corte, 3.26.17 Alfa e O è di quanta scrittura 3.26.18 mi legge Amore o lievemente o forte». 3.26.19 Quella medesma voce che paura 3.26.20 tolta m' avea del sùbito abbarbaglio, 3.26.21 di ragionare ancor mi mise in cura; 3.26.22 e disse: «Certo a più angusto vaglio 3.26.23 ti conviene schiarar: dicer convienti 3.26.24 chi drizzò l' arco tuo a tal berzaglio». 3.26.25 E io: «Per filosofici argomenti 3.26.26 e per autorità che quinci scende 3.26.27 cotale amor convien che in me si 'mprenti: 3.26.28 ché 'l bene, in quanto ben, come s' intende, 3.26.29 così accende amore, e tanto maggio 3.26.30 quanto più di bontate in sé comprende. 3.26.31 Dunque a l' essenza ov' è tanto avvantaggio, 3.26.32 che ciascun ben che fuor di lei si trova 3.26.33 altro non è ch' un lume di suo raggio, 3.26.34 più che in altra convien che si mova 3.26.35 la mente, amando, di ciascun che cerne 3.26.36 il vero in che si fonda questa prova. 3.26.37 Tal vero a l' intelletto mïo sterne 3.26.38 colui che mi dimostra il primo amore 3.26.39 di tutte le sustanze sempiterne. 3.26.40 Sternel la voce del verace autore, 3.26.41 che dice a Möisè, di sé parlando: 3.26.42 "Io ti farò vedere ogne valore". 3.26.43 Sternilmi tu ancora, incominciando 3.26.44 l' alto preconio che grida l' arcano 3.26.45 di qui là giù sovra ogne altro bando». 3.26.46 E io udi': «Per intelletto umano 3.26.47 e per autoritadi a lui concorde 3.26.48 d' i tuoi amori a Dio guarda il sovrano. 3.26.49 Ma dì ancor se tu senti altre corde 3.26.50 tirarti verso lui, sì che tu suone 3.26.51 con quanti denti questo amor ti morde». 3.26.52 Non fu latente la santa intenzione 3.26.53 de l' aguglia di Cristo, anzi m' accorsi 3.26.54 dove volea menar mia professione. 3.26.55 Però ricominciai: «Tutti quei morsi 3.26.56 che posson far lo cor volgere a Dio, 3.26.57 a la mia caritate son concorsi: 3.26.58 ché l' essere del mondo e l' esser mio, 3.26.59 la morte ch' el sostenne perch' io viva, 3.26.60 e quel che spera ogne fedel com' io, 3.26.61 con la predetta conoscenza viva, 3.26.62 tratto m' hanno del mar de l' amor torto, 3.26.63 e del diritto m' han posto a la riva. 3.26.64 Le fronde onde s' infronda tutto l' orto 3.26.65 de l' ortolano etterno, am' io cotanto 3.26.66 quanto da lui a lor di bene è porto». 3.26.67 Sì com' io tacqui, un dolcissimo canto 3.26.68 risonò per lo cielo, e la mia donna 3.26.69 dicea con li altri: «Santo, santo, santo!». 3.26.70 E come a lume acuto si disonna 3.26.71 per lo spirto visivo che ricorre 3.26.72 a lo splendor che va di gonna in gonna, 3.26.73 e lo svegliato ciò che vede aborre, 3.26.74 sì nescïa è la sùbita vigilia 3.26.75 fin che la stimativa non soccorre; 3.26.76 così de li occhi miei ogne quisquilia 3.26.77 fugò Beatrice col raggio d' i suoi, 3.26.78 che rifulgea da più di mille milia: 3.26.79 onde mei che dinanzi vidi poi; 3.26.80 e quasi stupefatto domandai 3.26.81 d' un quarto lume ch' io vidi tra noi. 3.26.82 E la mia donna: «Dentro da quei rai 3.26.83 vagheggia il suo fattor l' anima prima 3.26.84 che la prima virtù creasse mai». 3.26.85 Come la fronda che flette la cima 3.26.86 nel transito del vento, e poi si leva 3.26.87 per la propria virtù che la soblima, 3.26.88 fec' io in tanto in quant' ella diceva, 3.26.89 stupendo, e poi mi rifece sicuro 3.26.90 un disio di parlare ond' ïo ardeva. 3.26.91 E cominciai: «O pomo che maturo 3.26.92 solo prodotto fosti, o padre antico 3.26.93 a cui ciascuna sposa è figlia e nuro, 3.26.94 divoto quanto posso a te supplìco 3.26.95 perché mi parli: tu vedi mia voglia, 3.26.96 e per udirti tosto non la dico». 3.26.97 Talvolta un animal coverto broglia, 3.26.98 sì che l' affetto convien che si paia 3.26.99 per lo seguir che face a lui la 'nvoglia; 3.26.100 e similmente l' anima primaia 3.26.101 mi facea trasparer per la coverta 3.26.102 quant' ella a compiacermi venìa gaia. 3.26.103 Indi spirò: «Sanz' essermi proferta 3.26.104 da te, la voglia tua discerno meglio 3.26.105 che tu qualunque cosa t' è più certa; 3.26.106 perch' io la veggio nel verace speglio 3.26.107 che fa di sé pareglio a l' altre cose, 3.26.108 e nulla face lui di sé pareglio. 3.26.109 Tu vuogli udir quant' è che Dio mi puose 3.26.110 ne l' eccelso giardino, ove costei 3.26.111 a così lunga scala ti dispuose, 3.26.112 e quanto fu diletto a li occhi miei, 3.26.113 e la propria cagion del gran disdegno, 3.26.114 e l' idïoma ch' usai e che fei. 3.26.115 Or, figliuol mio, non il gustar del legno 3.26.116 fu per sé la cagion di tanto essilio, 3.26.117 ma solamente il trapassar del segno. 3.26.118 Quindi onde mosse tua donna Virgilio, 3.26.119 quattromilia trecento e due volumi 3.26.120 di sol desiderai questo concilio; 3.26.121 e vidi lui tornare a tutt' i lumi 3.26.122 de la sua strada novecento trenta 3.26.123 fïate, mentre ch' ïo in terra fu'mi. 3.26.124 La lingua ch' io parlai fu tutta spenta 3.26.125 innanzi che a l' ovra inconsummabile 3.26.126 fosse la gente di Nembròt attenta: 3.26.127 ché nullo effetto mai razïonabile, 3.26.128 per lo piacere uman che rinovella 3.26.129 seguendo il cielo, sempre fu durabile. 3.26.130 Opera naturale è ch' uom favella; 3.26.131 ma così o così, natura lascia 3.26.132 poi fare a voi secondo che v' abbella. 3.26.133 Pria ch' i' scendessi a l' infernale ambascia, 3.26.134 I s' appellava in terra il sommo bene 3.26.135 onde vien la letizia che mi fascia; 3.26.136 e El si chiamò poi: e ciò convene, 3.26.137 ché l' uso d' i mortali è come fronda 3.26.138 in ramo, che sen va e altra vene. 3.26.139 Nel monte che si leva più da l' onda, 3.26.140 fu' io, con vita pura e disonesta, 3.26.141 da la prim' ora a quella che seconda, 3.26.142 come 'l sol muta quadra, l' ora sesta».
CANTO XXVII
3.27.1 "Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo", 3.27.2 cominciò, "gloria!", tutto 'l paradiso, 3.27.3 sì che m' inebrïava il dolce canto. 3.27.4 Ciò ch' io vedeva mi sembiava un riso 3.27.5 de l' universo; per che mia ebbrezza 3.27.6 intrava per l' udire e per lo viso. 3.27.7 Oh gioia! oh ineffabile allegrezza! 3.27.8 oh vita intègra d' amore e di pace! 3.27.9 oh sanza brama sicura ricchezza! 3.27.10 Dinanzi a li occhi miei le quattro face 3.27.11 stavano accese, e quella che pria venne 3.27.12 incominciò a farsi più vivace, 3.27.13 e tal ne la sembianza sua divenne, 3.27.14 qual diverrebbe Iove, s' elli e Marte 3.27.15 fossero augelli e cambiassersi penne. 3.27.16 La provedenza, che quivi comparte 3.27.17 vice e officio, nel beato coro 3.27.18 silenzio posto avea da ogne parte, 3.27.19 quand' ïo udi': «Se io mi trascoloro, 3.27.20 non ti maravigliar, ché, dicend' io, 3.27.21 vedrai trascolorar tutti costoro. 3.27.22 Quelli ch' usurpa in terra il luogo mio, 3.27.23 il luogo mio, il luogo mio che vaca 3.27.24 ne la presenza del Figliuol di Dio, 3.27.25 fatt' ha del cimitero mio cloaca 3.27.26 del sangue e de la puzza; onde 'l perverso 3.27.27 che cadde di qua sù, là giù si placa». 3.27.28 Di quel color che per lo sole avverso 3.27.29 nube dipigne da sera e da mane, 3.27.30 vid' ïo allora tutto 'l ciel cosperso. 3.27.31 E come donna onesta che permane 3.27.32 di sé sicura, e per l' altrui fallanza, 3.27.33 pur ascoltando, timida si fane, 3.27.34 così Beatrice trasmutò sembianza; 3.27.35 e tale eclissi credo che 'n ciel fue 3.27.36 quando patì la supprema possanza. 3.27.37 Poi procedetter le parole sue 3.27.38 con voce tanto da sé trasmutata, 3.27.39 che la sembianza non si mutò piùe: 3.27.40 «Non fu la sposa di Cristo allevata 3.27.41 del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto, 3.27.42 per essere ad acquisto d' oro usata; 3.27.43 ma per acquisto d' esto viver lieto 3.27.44 e Sisto e Pïo e Calisto e Urbano 3.27.45 sparser lo sangue dopo molto fleto. 3.27.46 Non fu nostra intenzion ch' a destra mano 3.27.47 d' i nostri successor parte sedesse, 3.27.48 parte da l' altra del popol cristiano; 3.27.49 né che le chiavi che mi fuor concesse, 3.27.50 divenisser signaculo in vessillo 3.27.51 che contra battezzati combattesse; 3.27.52 né ch' io fossi figura di sigillo 3.27.53 a privilegi venduti e mendaci, 3.27.54 ond' io sovente arrosso e disfavillo. 3.27.55 In vesta di pastor lupi rapaci 3.27.56 si veggion di qua sù per tutti i paschi: 3.27.57 o difesa di Dio, perché pur giaci? 3.27.58 Del sangue nostro Caorsini e Guaschi 3.27.59 s' apparecchian di bere: o buon principio, 3.27.60 a che vil fine convien che tu caschi! 3.27.61 Ma l' alta provedenza, che con Scipio 3.27.62 difese a Roma la gloria del mondo, 3.27.63 soccorrà tosto, sì com' io concipio; 3.27.64 e tu, figliuol, che per lo mortal pondo 3.27.65 ancor giù tornerai, apri la bocca, 3.27.66 e non asconder quel ch' io non ascondo». 3.27.67 Sì come di vapor gelati fiocca 3.27.68 in giuso l' aere nostro, quando 'l corno 3.27.69 de la capra del ciel col sol si tocca, 3.27.70 in sù vid' io così l' etera addorno 3.27.71 farsi e fioccar di vapor trïunfanti 3.27.72 che fatto avien con noi quivi soggiorno. 3.27.73 Lo viso mio seguiva i suoi sembianti, 3.27.74 e seguì fin che 'l mezzo, per lo molto, 3.27.75 li tolse il trapassar del più avanti. 3.27.76 Onde la donna, che mi vide assolto 3.27.77 de l' attendere in sù, mi disse: «Adima 3.27.78 il viso e guarda come tu se' vòlto». 3.27.79 Da l' ora ch' ïo avea guardato prima 3.27.80 i' vidi mosso me per tutto l' arco 3.27.81 che fa dal mezzo al fine il primo clima; 3.27.82 sì ch' io vedea di là da Gade il varco 3.27.83 folle d' Ulisse, e di qua presso il lito 3.27.84 nel qual si fece Europa dolce carco. 3.27.85 E più mi fora discoverto il sito 3.27.86 di questa aiuola; ma 'l sol procedea 3.27.87 sotto i mie' piedi un segno e più partito. 3.27.88 La mente innamorata, che donnea 3.27.89 con la mia donna sempre, di ridure 3.27.90 ad essa li occhi più che mai ardea; 3.27.91 e se natura o arte fé pasture 3.27.92 da pigliare occhi, per aver la mente, 3.27.93 in carne umana o ne le sue pitture, 3.27.94 tutte adunate, parrebber nïente 3.27.95 ver' lo piacer divin che mi refulse, 3.27.96 quando mi volsi al suo viso ridente. 3.27.97 E la virtù che lo sguardo m' indulse, 3.27.98 del bel nido di Leda mi divelse 3.27.99 e nel ciel velocissimo m' impulse. 3.27.100 Le parti sue vivissime ed eccelse 3.27.101 sì uniforme son, ch' i' non so dire 3.27.102 qual Bëatrice per loco mi scelse. 3.27.103 Ma ella, che vedëa 'l mio disire, 3.27.104 incominciò, ridendo tanto lieta, 3.27.105 che Dio parea nel suo volto gioire: 3.27.106 «La natura del mondo, che quïeta 3.27.107 il mezzo e tutto l' altro intorno move, 3.27.108 quinci comincia come da sua meta; 3.27.109 e questo cielo non ha altro dove 3.27.110 che la mente divina, in che s' accende 3.27.111 l' amor che 'l volge e la virtù ch' ei piove. 3.27.112 Luce e amor d' un cerchio lui comprende, 3.27.113 sì come questo li altri; e quel precinto 3.27.114 colui che 'l cinge solamente intende. 3.27.115 Non è suo moto per altro distinto, 3.27.116 ma li altri son mensurati da questo, 3.27.117 sì come diece da mezzo e da quinto; 3.27.118 e come il tempo tegna in cotal testo 3.27.119 le sue radici e ne li altri le fronde, 3.27.120 omai a te può esser manifesto. 3.27.121 Oh cupidigia, che i mortali affonde 3.27.122 sì sotto te, che nessuno ha podere 3.27.123 di trarre li occhi fuor de le tue onde! 3.27.124 Ben fiorisce ne li uomini il volere; 3.27.125 ma la pioggia continüa converte 3.27.126 in bozzacchioni le sosine vere. 3.27.127 Fede e innocenza son reperte 3.27.128 solo ne' parvoletti; poi ciascuna 3.27.129 pria fugge che le guance sian coperte. 3.27.130 Tale, balbuzïendo ancor, digiuna, 3.27.131 che poi divora, con la lingua sciolta, 3.27.132 qualunque cibo per qualunque luna; 3.27.133 e tal, balbuzïendo, ama e ascolta 3.27.134 la madre sua, che, con loquela intera, 3.27.135 disïa poi di vederla sepolta. 3.27.136 Così si fa la pelle bianca nera 3.27.137 nel primo aspetto de la bella figlia 3.27.138 di quel ch' apporta mane e lascia sera. 3.27.139 Tu, perché non ti facci maraviglia, 3.27.140 pensa che 'n terra non è chi governi; 3.27.141 onde sì svïa l' umana famiglia. 3.27.142 Ma prima che gennaio tutto si sverni 3.27.143 per la centesma ch' è là giù negletta, 3.27.144 raggeran sì questi cerchi superni, 3.27.145 che la fortuna che tanto s' aspetta, 3.27.146 le poppe volgerà u' son le prore, 3.27.147 sì che la classe correrà diretta; 3.27.148 e vero frutto verrà dopo 'l fiore».
CANTO XXVIII
3.28.1 Poscia che 'ncontro a la vita presente 3.28.2 d' i miseri mortali aperse 'l vero 3.28.3 quella che 'mparadisa la mia mente, 3.28.4 come in lo specchio fiamma di doppiero 3.28.5 vede colui che se n' alluma retro, 3.28.6 prima che l' abbia in vista o in pensiero, 3.28.7 e sé rivolge per veder se 'l vetro 3.28.8 li dice il vero, e vede ch' el s' accorda 3.28.9 con esso come nota con suo metro; 3.28.10 così la mia memoria si ricorda 3.28.11 ch' io feci riguardando ne' belli occhi 3.28.12 onde a pigliarmi fece Amor la corda. 3.28.13 E com' io mi rivolsi e furon tocchi 3.28.14 li miei da ciò che pare in quel volume, 3.28.15 quandunque nel suo giro ben s' adocchi, 3.28.16 un punto vidi che raggiava lume 3.28.17 acuto sì, che 'l viso ch' elli affoca 3.28.18 chiuder conviensi per lo forte acume; 3.28.19 e quale stella par quinci più poca, 3.28.20 parrebbe luna, locata con esso 3.28.21 come stella con stella si collòca. 3.28.22 Forse cotanto quanto pare appresso 3.28.23 alo cigner la luce che 'l dipigne 3.28.24 quando 'l vapor che 'l porta più è spesso, 3.28.25 distante intorno al punto un cerchio d' igne 3.28.26 si girava sì ratto, ch' avria vinto 3.28.27 quel moto che più tosto il mondo cigne; 3.28.28 e questo era d' un altro circumcinto, 3.28.29 e quel dal terzo, e 'l terzo poi dal quarto, 3.28.30 dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto. 3.28.31 Sopra seguiva il settimo sì sparto 3.28.32 già di larghezza, che 'l messo di Iuno 3.28.33 intero a contenerlo sarebbe arto. 3.28.34 Così l' ottavo e 'l nono; e ciascheduno 3.28.35 più tardo si movea, secondo ch' era 3.28.36 in numero distante più da l' uno; 3.28.37 e quello avea la fiamma più sincera 3.28.38 cui men distava la favilla pura, 3.28.39 credo, però che più di lei s' invera. 3.28.40 La donna mia, che mi vedëa in cura 3.28.41 forte sospeso, disse: «Da quel punto 3.28.42 depende il cielo e tutta la natura. 3.28.43 Mira quel cerchio che più li è congiunto; 3.28.44 e sappi che 'l suo muovere è sì tosto 3.28.45 per l' affocato amore ond' elli è punto». 3.28.46 E io a lei: «Se 'l mondo fosse posto 3.28.47 con l' ordine ch' io veggio in quelle rote, 3.28.48 sazio m' avrebbe ciò che m' è proposto; 3.28.49 ma nel mondo sensibile si puote 3.28.50 veder le volte tanto più divine, 3.28.51 quant' elle son dal centro più remote. 3.28.52 Onde, se 'l mio disir dee aver fine 3.28.53 in questo miro e angelico templo 3.28.54 che solo amore e luce ha per confine, 3.28.55 udir convienmi ancor come l' essemplo 3.28.56 e l' essemplare non vanno d' un modo, 3.28.57 ché io per me indarno a ciò contemplo». 3.28.58 «Se li tuoi diti non sono a tal nodo 3.28.59 sufficïenti, non è maraviglia: 3.28.60 tanto, per non tentare, è fatto sodo!». 3.28.61 Così la donna mia; poi disse: «Piglia 3.28.62 quel ch' io ti dicerò, se vuo' saziarti; 3.28.63 e intorno da esso t' assottiglia. 3.28.64 Li cerchi corporai sono ampi e arti 3.28.65 secondo il più e 'l men de la virtute 3.28.66 che si distende per tutte lor parti. 3.28.67 Maggior bontà vuol far maggior salute; 3.28.68 maggior salute maggior corpo cape, 3.28.69 s' elli ha le parti igualmente compiute. 3.28.70 Dunque costui che tutto quanto rape 3.28.71 l' altro universo seco, corrisponde 3.28.72 al cerchio che più ama e che più sape: 3.28.73 per che, se tu a la virtù circonde 3.28.74 la tua misura, non a la parvenza 3.28.75 de le sustanze che t' appaion tonde, 3.28.76 tu vederai mirabil consequenza 3.28.77 di maggio a più e di minore a meno, 3.28.78 in ciascun cielo, a süa intelligenza». 3.28.79 Come rimane splendido e sereno 3.28.80 l' emisperio de l' aere, quando soffia 3.28.81 Borea da quella guancia ond' è più leno, 3.28.82 per che si purga e risolve la roffia 3.28.83 che pria turbava, sì che 'l ciel ne ride 3.28.84 con le bellezze d' ogne sua paroffia; 3.28.85 così fec' ïo, poi che mi provide 3.28.86 la donna mia del suo risponder chiaro, 3.28.87 e come stella in cielo il ver si vide. 3.28.88 E poi che le parole sue restaro, 3.28.89 non altrimenti ferro disfavilla 3.28.90 che bolle, come i cerchi sfavillaro. 3.28.91 L' incendio suo seguiva ogne scintilla; 3.28.92 ed eran tante, che 'l numero loro 3.28.93 più che 'l doppiar de li scacchi s' inmilla. 3.28.94 Io sentiva osannar di coro in coro 3.28.95 al punto fisso che li tiene a li ubi, 3.28.96 e terrà sempre, ne' quai sempre fuoro. 3.28.97 E quella che vedëa i pensier dubi 3.28.98 ne la mia mente, disse: «I cerchi primi 3.28.99 t' hanno mostrato Serafi e Cherubi. 3.28.100 Così veloci seguono i suoi vimi, 3.28.101 per somigliarsi al punto quanto ponno; 3.28.102 e posson quanto a veder son soblimi. 3.28.103 Quelli altri amori che 'ntorno li vonno, 3.28.104 si chiaman Troni del divino aspetto, 3.28.105 per che 'l primo ternaro terminonno; 3.28.106 e dei saper che tutti hanno diletto 3.28.107 quanto la sua veduta si profonda 3.28.108 nel vero in che si queta ogne intelletto. 3.28.109 Quinci si può veder come si fonda 3.28.110 l' esser beato ne l' atto che vede, 3.28.111 non in quel ch' ama, che poscia seconda; 3.28.112 e del vedere è misura mercede, 3.28.113 che grazia partorisce e buona voglia: 3.28.114 così di grado in grado si procede. 3.28.115 L' altro ternaro, che così germoglia 3.28.116 in questa primavera sempiterna 3.28.117 che notturno Arïete non dispoglia, 3.28.118 perpetüalemente "Osanna"sberna 3.28.119 con tre melode, che suonano in tree 3.28.120 ordini di letizia onde s' interna. 3.28.121 In essa gerarcia son l' altre dee: 3.28.122 prima Dominazioni, e poi Virtudi; 3.28.123 l' ordine terzo di Podestadi èe. 3.28.124 Poscia ne' due penultimi tripudi 3.28.125 Principati e Arcangeli si girano; 3.28.126 l' ultimo è tutto d' Angelici ludi. 3.28.127 Questi ordini di sù tutti s' ammirano, 3.28.128 e di giù vincon sì, che verso Dio 3.28.129 tutti tirati sono e tutti tirano. 3.28.130 E Dïonisio con tanto disio 3.28.131 a contemplar questi ordini si mise, 3.28.132 che li nomò e distinse com' io. 3.28.133 Ma Gregorio da lui poi si divise; 3.28.134 onde, sì tosto come li occhi aperse 3.28.135 in questo ciel, di sé medesmo rise. 3.28.136 E se tanto secreto ver proferse 3.28.137 mortale in terra, non voglio ch' ammiri: 3.28.138 ché chi 'l vide qua sù gliel discoperse 3.28.139 con altro assai del ver di questi giri».
CANTO XXIX
3.29.1 Quando ambedue li figli di Latona, 3.29.2 coperti del Montone e de la Libra, 3.29.3 fanno de l' orizzonte insieme zona, 3.29.4 quant' è dal punto che 'l cenìt inlibra 3.29.5 infin che l' uno e l' altro da quel cinto, 3.29.6 cambiando l' emisperio, si dilibra, 3.29.7 tanto, col volto di riso dipinto, 3.29.8 si tacque Bëatrice, riguardando 3.29.9 fiso nel punto che m' avëa vinto. 3.29.10 Poi cominciò: «Io dico, e non dimando, 3.29.11 quel che tu vuoli udir, perch' io l' ho visto 3.29.12 là 've s' appunta ogne ubi e ogne quando. 3.29.13 Non per aver a sé di bene acquisto, 3.29.14 ch' esser non può, ma perché suo splendore 3.29.15 potesse, risplendendo, dir "Subsisto", 3.29.16 in sua etternità di tempo fore, 3.29.17 fuor d' ogne altro comprender, come i piacque, 3.29.18 s' aperse in nuovi amor l' etterno amore. 3.29.19 Né prima quasi torpente si giacque; 3.29.20 ché né prima né poscia procedette 3.29.21 lo discorrer di Dio sovra quest' acque. 3.29.22 Forma e materia, congiunte e purette, 3.29.23 usciro ad esser che non avia fallo, 3.29.24 come d' arco tricordo tre saette. 3.29.25 E come in vetro, in ambra o in cristallo 3.29.26 raggio resplende sì, che dal venire 3.29.27 a l' esser tutto non è intervallo, 3.29.28 così 'l triforme effetto del suo sire 3.29.29 ne l' esser suo raggiò insieme tutto 3.29.30 sanza distinzïone in essordire. 3.29.31 Concreato fu ordine e costrutto 3.29.32 a le sustanze; e quelle furon cima 3.29.33 nel mondo in che puro atto fu produtto; 3.29.34 pura potenza tenne la parte ima; 3.29.35 nel mezzo strinse potenza con atto 3.29.36 tal vime, che già mai non si divima. 3.29.37 Ieronimo vi scrisse lungo tratto 3.29.38 di secoli de li angeli creati 3.29.39 anzi che l' altro mondo fosse fatto; 3.29.40 ma questo vero è scritto in molti lati 3.29.41 da li scrittor de lo Spirito Santo, 3.29.42 e tu te n' avvedrai se bene agguati; 3.29.43 e anche la ragione il vede alquanto, 3.29.44 che non concederebbe che ' motori 3.29.45 sanza sua perfezion fosser cotanto. 3.29.46 Or sai tu dove e quando questi amori 3.29.47 furon creati e come: sì che spenti 3.29.48 nel tuo disïo già son tre ardori. 3.29.49 Né giugneriesi, numerando, al venti 3.29.50 sì tosto, come de li angeli parte 3.29.51 turbò il suggetto d' i vostri alimenti. 3.29.52 L' altra rimase, e cominciò quest' arte 3.29.53 che tu discerni, con tanto diletto, 3.29.54 che mai da circüir non si diparte. 3.29.55 Principio del cader fu il maladetto 3.29.56 superbir di colui che tu vedesti 3.29.57 da tutti i pesi del mondo costretto. 3.29.58 Quelli che vedi qui furon modesti 3.29.59 a riconoscer sé da la bontate 3.29.60 che li avea fatti a tanto intender presti: 3.29.61 per che le viste lor furo essaltate 3.29.62 con grazia illuminante e con lor merto, 3.29.63 sì c' hanno ferma e piena volontate; 3.29.64 e non voglio che dubbi, ma sia certo, 3.29.65 che ricever la grazia è meritorio 3.29.66 secondo che l' affetto l' è aperto. 3.29.67 Omai dintorno a questo consistorio 3.29.68 puoi contemplare assai, se le parole 3.29.69 mie son ricolte, sanz' altro aiutorio. 3.29.70 Ma perché 'n terra per le vostre scole 3.29.71 si legge che l' angelica natura 3.29.72 è tal, che 'ntende e si ricorda e vole, 3.29.73 ancor dirò, perché tu veggi pura 3.29.74 la verità che là giù si confonde, 3.29.75 equivocando in sì fatta lettura. 3.29.76 Queste sustanze, poi che fur gioconde 3.29.77 de la faccia di Dio, non volser viso 3.29.78 da essa, da cui nulla si nasconde: 3.29.79 però non hanno vedere interciso 3.29.80 da novo obietto, e però non bisogna 3.29.81 rememorar per concetto diviso; 3.29.82 sì che là giù, non dormendo, si sogna, 3.29.83 credendo e non credendo dicer vero; 3.29.84 ma ne l' uno è più colpa e più vergogna. 3.29.85 Voi non andate giù per un sentiero 3.29.86 filosofando: tanto vi trasporta 3.29.87 l' amor de l' apparenza e 'l suo pensiero! 3.29.88 E ancor questo qua sù si comporta 3.29.89 con men disdegno che quando è posposta 3.29.90 la divina Scrittura o quando è torta. 3.29.91 Non vi si pensa quanto sangue costa 3.29.92 seminarla nel mondo e quanto piace 3.29.93 chi umilmente con essa s' accosta. 3.29.94 Per apparer ciascun s' ingegna e face 3.29.95 sue invenzioni; e quelle son trascorse 3.29.96 da' predicanti e 'l Vangelio si tace. 3.29.97 Un dice che la luna si ritorse 3.29.98 ne la passion di Cristo e s' interpuose, 3.29.99 per che 'l lume del sol giù non si porse; 3.29.100 e mente, ché la luce si nascose 3.29.101 da sé: però a li Spani e a l' Indi 3.29.102 come a' Giudei tale eclissi rispuose. 3.29.103 Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi 3.29.104 quante sì fatte favole per anno 3.29.105 in pergamo si gridan quinci e quindi: 3.29.106 sì che le pecorelle, che non sanno, 3.29.107 tornan del pasco pasciute di vento, 3.29.108 e non le scusa non veder lo danno. 3.29.109 Non disse Cristo al suo primo convento: 3.29.110 "Andate, e predicate al mondo ciance"; 3.29.111 ma diede lor verace fondamento; 3.29.112 e quel tanto sonò ne le sue guance, 3.29.113 sì ch' a pugnar per accender la fede 3.29.114 de l' Evangelio fero scudo e lance. 3.29.115 Ora si va con motti e con iscede 3.29.116 a predicare, e pur che ben si rida, 3.29.117 gonfia il cappuccio e più non si richiede. 3.29.118 Ma tale uccel nel becchetto s' annida, 3.29.119 che se 'l vulgo il vedesse, vederebbe 3.29.120 la perdonanza di ch' el si confida: 3.29.121 per cui tanta stoltezza in terra crebbe, 3.29.122 che, sanza prova d' alcun testimonio, 3.29.123 ad ogne promession si correrebbe. 3.29.124 Di questo ingrassa il porco sant' Antonio, 3.29.125 e altri assai che sono ancor più porci, 3.29.126 pagando di moneta sanza conio. 3.29.127 Ma perché siam digressi assai, ritorci 3.29.128 li occhi oramai verso la dritta strada, 3.29.129 sì che la via col tempo si raccorci. 3.29.130 Questa natura sì oltre s' ingrada 3.29.131 in numero, che mai non fu loquela 3.29.132 né concetto mortal che tanto vada; 3.29.133 e se tu guardi quel che si revela 3.29.134 per Danïel, vedrai che 'n sue migliaia 3.29.135 determinato numero si cela. 3.29.136 La prima luce, che tutta la raia, 3.29.137 per tanti modi in essa si recepe, 3.29.138 quanti son li splendori a chi s' appaia. 3.29.139 Onde, però che a l' atto che concepe 3.29.140 segue l' affetto, d' amar la dolcezza 3.29.141 diversamente in essa ferve e tepe. 3.29.142 Vedi l' eccelso omai e la larghezza 3.29.143 de l' etterno valor, poscia che tanti 3.29.144 speculi fatti s' ha in che si spezza, 3.29.145 uno manendo in sé come davanti».
CANTO XXX
3.30.1 Forse semilia miglia di lontano 3.30.2 ci ferve l' ora sesta, e questo mondo 3.30.3 china già l' ombra quasi al letto piano, 3.30.4 quando 'l mezzo del cielo, a noi profondo, 3.30.5 comincia a farsi tal, ch' alcuna stella 3.30.6 perde il parere infino a questo fondo; 3.30.7 e come vien la chiarissima ancella 3.30.8 del sol più oltre, così 'l ciel si chiude 3.30.9 di vista in vista infino a la più bella. 3.30.10 Non altrimenti il trïunfo che lude 3.30.11 sempre dintorno al punto che mi vinse, 3.30.12 parendo inchiuso da quel ch' elli 'nchiude, 3.30.13 a poco a poco al mio veder si stinse: 3.30.14 per che tornar con li occhi a Bëatrice 3.30.15 nulla vedere e amor mi costrinse. 3.30.16 Se quanto infino a qui di lei si dice 3.30.17 fosse conchiuso tutto in una loda, 3.30.18 poca sarebbe a fornir questa vice. 3.30.19 La bellezza ch' io vidi si trasmoda 3.30.20 non pur di là da noi, ma certo io credo 3.30.21 che solo il suo fattor tutta la goda. 3.30.22 Da questo passo vinto mi concedo 3.30.23 più che già mai da punto di suo tema 3.30.24 soprato fosse comico o tragedo: 3.30.25 ché, come sole in viso che più trema, 3.30.26 così lo rimembrar del dolce riso 3.30.27 la mente mia da me medesmo scema. 3.30.28 Dal primo giorno ch' i' vidi il suo viso 3.30.29 in questa vita, infino a questa vista, 3.30.30 non m' è il seguire al mio cantar preciso; 3.30.31 ma or convien che mio seguir desista 3.30.32 più dietro a sua bellezza, poetando, 3.30.33 come a l' ultimo suo ciascuno artista. 3.30.34 Cotal qual io la lascio a maggior bando 3.30.35 che quel de la mia tuba, che deduce 3.30.36 l' ardüa sua matera terminando, 3.30.37 con atto e voce di spedito duce 3.30.38 ricominciò: «Noi siamo usciti fore 3.30.39 del maggior corpo al ciel ch' è pura luce: 3.30.40 luce intellettüal, piena d' amore; 3.30.41 amor di vero ben, pien di letizia; 3.30.42 letizia che trascende ogne dolzore. 3.30.43 Qui vederai l' una e l' altra milizia 3.30.44 di paradiso, e l' una in quelli aspetti 3.30.45 che tu vedrai a l' ultima giustizia». 3.30.46 Come sùbito lampo che discetti 3.30.47 li spiriti visivi, sì che priva 3.30.48 da l' atto l' occhio di più forti obietti, 3.30.49 così mi circunfulse luce viva, 3.30.50 e lasciommi fasciato di tal velo 3.30.51 del suo fulgor, che nulla m' appariva. 3.30.52 «Sempre l' amor che queta questo cielo 3.30.53 accoglie in sé con sì fatta salute, 3.30.54 per far disposto a sua fiamma il candelo». 3.30.55 Non fur più tosto dentro a me venute 3.30.56 queste parole brievi, ch' io compresi 3.30.57 me sormontar di sopr' a mia virtute; 3.30.58 e di novella vista mi raccesi 3.30.59 tale, che nulla luce è tanto mera, 3.30.60 che li occhi miei non si fosser difesi; 3.30.61 e vidi lume in forma di rivera 3.30.62 fulvido di fulgore, intra due rive 3.30.63 dipinte di mirabil primavera. 3.30.64 Di tal fiumana uscian faville vive, 3.30.65 e d' ogne parte si mettien ne' fiori, 3.30.66 quasi rubin che oro circunscrive; 3.30.67 poi, come inebrïate da li odori, 3.30.68 riprofondavan sé nel miro gurge, 3.30.69 e s' una intrava, un' altra n' uscia fori. 3.30.70 «L' alto disio che mo t' infiamma e urge, 3.30.71 d' aver notizia di ciò che tu vei, 3.30.72 tanto mi piace più quanto più turge; 3.30.73 ma di quest' acqua convien che tu bei 3.30.74 prima che tanta sete in te si sazi»: 3.30.75 così mi disse il sol de li occhi miei. 3.30.76 Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi 3.30.77 ch' entrano ed escono e 'l rider de l' erbe 3.30.78 son di lor vero umbriferi prefazi. 3.30.79 Non che da sé sian queste cose acerbe; 3.30.80 ma è difetto da la parte tua, 3.30.81 che non hai viste ancor tanto superbe». 3.30.82 Non è fantin che sì sùbito rua 3.30.83 col volto verso il latte, se si svegli 3.30.84 molto tardato da l' usanza sua, 3.30.85 come fec' io, per far migliori spegli 3.30.86 ancor de li occhi, chinandomi a l' onda 3.30.87 che si deriva perché vi s' immegli; 3.30.88 e sì come di lei bevve la gronda 3.30.89 de le palpebre mie, così mi parve 3.30.90 di sua lunghezza divenuta tonda. 3.30.91 Poi, come gente stata sotto larve, 3.30.92 che pare altro che prima, se si sveste 3.30.93 la sembianza non süa in che disparve, 3.30.94 così mi si cambiaro in maggior feste 3.30.95 li fiori e le faville, sì ch' io vidi 3.30.96 ambo le corti del ciel manifeste. 3.30.97 O isplendor di Dio, per cu' io vidi 3.30.98 l' alto trïunfo del regno verace, 3.30.99 dammi virtù a dir com' ïo il vidi! 3.30.100 Lume è là sù che visibile face 3.30.101 lo creatore a quella creatura 3.30.102 che solo in lui vedere ha la sua pace. 3.30.103 E' si distende in circular figura, 3.30.104 in tanto che la sua circunferenza 3.30.105 sarebbe al sol troppo larga cintura. 3.30.106 Fassi di raggio tutta sua parvenza 3.30.107 reflesso al sommo del mobile primo, 3.30.108 che prende quindi vivere e potenza. 3.30.109 E come clivo in acqua di suo imo 3.30.110 si specchia, quasi per vedersi addorno, 3.30.111 quando è nel verde e ne' fioretti opimo, 3.30.112 sì, soprastando al lume intorno intorno, 3.30.113 vidi specchiarsi in più di mille soglie 3.30.114 quanto di noi là sù fatto ha ritorno. 3.30.115 E se l' infimo grado in sé raccoglie 3.30.116 sì grande lume, quanta è la larghezza 3.30.117 di questa rosa ne l' estreme foglie! 3.30.118 La vista mia ne l' ampio e ne l' altezza 3.30.119 non si smarriva, ma tutto prendeva 3.30.120 il quanto e 'l quale di quella allegrezza. 3.30.121 Presso e lontano, lì, né pon né leva: 3.30.122 ché dove Dio sanza mezzo governa, 3.30.123 la legge natural nulla rileva. 3.30.124 Nel giallo de la rosa sempiterna, 3.30.125 che si digrada e dilata e redole 3.30.126 odor di lode al sol che sempre verna, 3.30.127 qual è colui che tace e dicer vole, 3.30.128 mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira 3.30.129 quanto è 'l convento de le bianche stole! 3.30.130 Vedi nostra città quant' ella gira; 3.30.131 vedi li nostri scanni sì ripieni, 3.30.132 che poca gente più ci si disira. 3.30.133 E 'n quel gran seggio a che tu li occhi tieni 3.30.134 per la corona che già v' è sù posta, 3.30.135 prima che tu a queste nozze ceni, 3.30.136 sederà l' alma, che fia giù agosta, 3.30.137 de l' alto Arrigo, ch' a drizzare Italia 3.30.138 verrà in prima ch' ella sia disposta. 3.30.139 La cieca cupidigia che v' ammalia 3.30.140 simili fatti v' ha al fantolino 3.30.141 che muor per fame e caccia via la balia. 3.30.142 E fia prefetto nel foro divino 3.30.143 allora tal, che palese e coverto 3.30.144 non anderà con lui per un cammino. 3.30.145 Ma poco poi sarà da Dio sofferto 3.30.146 nel santo officio: ch' el sarà detruso 3.30.147 là dove Simon mago è per suo merto, 3.30.148 e farà quel d' Alagna intrar più giuso».
CANTO XXXI
3.31.1 In forma dunque di candida rosa 3.31.2 mi si mostrava la milizia santa 3.31.3 che nel suo sangue Cristo fece sposa; 3.31.4 ma l' altra, che volando vede e canta 3.31.5 la gloria di colui che la 'nnamora 3.31.6 e la bontà che la fece cotanta, 3.31.7 sì come schiera d' ape che s' infiora 3.31.8 una fïata e una si ritorna 3.31.9 là dove suo laboro s' insapora, 3.31.10 nel gran fior discendeva che s' addorna 3.31.11 di tante foglie, e quindi risaliva 3.31.12 là dove 'l süo amor sempre soggiorna. 3.31.13 Le facce tutte avean di fiamma viva 3.31.14 e l' ali d' oro, e l' altro tanto bianco, 3.31.15 che nulla neve a quel termine arriva. 3.31.16 Quando scendean nel fior, di banco in banco 3.31.17 porgevan de la pace e de l' ardore 3.31.18 ch' elli acquistavan ventilando il fianco. 3.31.19 Né l' interporsi tra 'l disopra e 'l fiore 3.31.20 di tanta moltitudine volante 3.31.21 impediva la vista e lo splendore: 3.31.22 ché la luce divina è penetrante 3.31.23 per l' universo secondo ch' è degno, 3.31.24 sì che nulla le puote essere ostante. 3.31.25 Questo sicuro e gaudïoso regno, 3.31.26 frequente in gente antica e in novella, 3.31.27 viso e amore avea tutto ad un segno. 3.31.28 Oh trina luce che 'n unica stella 3.31.29 scintillando a lor vista, sì li appaga! 3.31.30 guarda qua giuso a la nostra procella! 3.31.31 Se i barbari, venendo da tal plaga 3.31.32 che ciascun giorno d' Elice si cuopra, 3.31.33 rotante col suo figlio ond' ella è vaga, 3.31.34 veggendo Roma e l' ardüa sua opra, 3.31.35 stupefaciensi, quando Laterano 3.31.36 a le cose mortali andò di sopra; 3.31.37 ïo, che al divino da l' umano, 3.31.38 a l' etterno dal tempo era venuto, 3.31.39 e di Fiorenza in popol giusto e sano, 3.31.40 di che stupor dovea esser compiuto! 3.31.41 Certo tra esso e 'l gaudio mi facea 3.31.42 libito non udire e starmi muto. 3.31.43 E quasi peregrin che si ricrea 3.31.44 nel tempio del suo voto riguardando, 3.31.45 e spera già ridir com' ello stea, 3.31.46 su per la viva luce passeggiando, 3.31.47 menava ïo li occhi per li gradi, 3.31.48 mo sù, mo giù e mo recirculando. 3.31.49 Vedëa visi a carità süadi, 3.31.50 d' altrui lume fregiati e di suo riso, 3.31.51 e atti ornati di tutte onestadi. 3.31.52 La forma general di paradiso 3.31.53 già tutta mïo sguardo avea compresa, 3.31.54 in nulla parte ancor fermato fiso; 3.31.55 e volgeami con voglia rïaccesa 3.31.56 per domandar la mia donna di cose 3.31.57 di che la mente mia era sospesa. 3.31.58 Uno intendëa, e altro mi rispuose: 3.31.59 credea veder Beatrice e vidi un sene 3.31.60 vestito con le genti glorïose. 3.31.61 Diffuso era per li occhi e per le gene 3.31.62 di benigna letizia, in atto pio 3.31.63 quale a tenero padre si convene. 3.31.64 E «Ov' è ella?», sùbito diss' io. 3.31.65 Ond' elli: «A terminar lo tuo disiro 3.31.66 mosse Beatrice me del loco mio; 3.31.67 e se riguardi sù nel terzo giro 3.31.68 dal sommo grado, tu la rivedrai 3.31.69 nel trono che suoi merti le sortiro». 3.31.70 Sanza risponder, li occhi sù levai, 3.31.71 e vidi lei che si facea corona 3.31.72 reflettendo da sé li etterni rai. 3.31.73 Da quella regïon che più sù tona 3.31.74 occhio mortale alcun tanto non dista, 3.31.75 qualunque in mare più giù s' abbandona, 3.31.76 quanto lì da Beatrice la mia vista; 3.31.77 ma nulla mi facea, ché süa effige 3.31.78 non discendëa a me per mezzo mista. 3.31.79 «O donna in cui la mia speranza vige, 3.31.80 e che soffristi per la mia salute 3.31.81 in inferno lasciar le tue vestige, 3.31.82 di tante cose quant' i' ho vedute, 3.31.83 dal tuo podere e da la tua bontate 3.31.84 riconosco la grazia e la virtute. 3.31.85 Tu m' hai di servo tratto a libertate 3.31.86 per tutte quelle vie, per tutt' i modi 3.31.87 che di ciò fare avei la potestate. 3.31.88 La tua magnificenza in me custodi, 3.31.89 sì che l' anima mia, che fatt' hai sana, 3.31.90 piacente a te dal corpo si disnodi». 3.31.91 Così orai; e quella, sì lontana 3.31.92 come parea, sorrise e riguardommi; 3.31.93 poi si tornò a l' etterna fontana. 3.31.94 E 'l santo sene: «Acciò che tu assommi 3.31.95 perfettamente», disse, «il tuo cammino, 3.31.96 a che priego e amor santo mandommi, 3.31.97 vola con li occhi per questo giardino; 3.31.98 ché veder lui t' acconcerà lo sguardo 3.31.99 più al montar per lo raggio divino. 3.31.100 E la regina del cielo, ond' ïo ardo 3.31.101 tutto d' amor, ne farà ogne grazia, 3.31.102 però ch' i' sono il suo fedel Bernardo». 3.31.103 Qual è colui che forse di Croazia 3.31.104 viene a veder la Veronica nostra, 3.31.105 che per l' antica fame non sen sazia, 3.31.106 ma dice nel pensier, fin che si mostra: 3.31.107 "Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace, 3.31.108 or fu sì fatta la sembianza vostra?"; 3.31.109 tal era io mirando la vivace 3.31.110 carità di colui che 'n questo mondo, 3.31.111 contemplando, gustò di quella pace. 3.31.112 «Figliuol di grazia, quest' esser giocondo», 3.31.113 cominciò elli, «non ti sarà noto, 3.31.114 tenendo li occhi pur qua giù al fondo; 3.31.115 ma guarda i cerchi infino al più remoto, 3.31.116 tanto che veggi seder la regina 3.31.117 cui questo regno è suddito e devoto». 3.31.118 Io levai li occhi; e come da mattina 3.31.119 la parte orïental de l' orizzonte 3.31.120 soverchia quella dove 'l sol declina, 3.31.121 così, quasi di valle andando a monte 3.31.122 con li occhi, vidi parte ne lo stremo 3.31.123 vincer di lume tutta l' altra fronte. 3.31.124 E come quivi ove s' aspetta il temo 3.31.125 che mal guidò Fetonte, più s' infiamma, 3.31.126 e quinci e quindi il lume si fa scemo, 3.31.127 così quella pacifica oriafiamma 3.31.128 nel mezzo s' avvivava, e d' ogne parte 3.31.129 per igual modo allentava la fiamma; 3.31.130 e a quel mezzo, con le penne sparte, 3.31.131 vid' io più di mille angeli festanti, 3.31.132 ciascun distinto di fulgore e d' arte. 3.31.133 Vidi a lor giochi quivi e a lor canti 3.31.134 ridere una bellezza, che letizia 3.31.135 era ne li occhi a tutti li altri santi; 3.31.136 e s' io avessi in dir tanta divizia 3.31.137 quanta ad imaginar, non ardirei 3.31.138 lo minimo tentar di sua delizia. 3.31.139 Bernardo, come vide li occhi miei 3.31.140 nel caldo suo caler fissi e attenti, 3.31.141 li suoi con tanto affetto volse a lei, 3.31.142 che ' miei di rimirar fé più ardenti.
CANTO XXXII
3.32.1 Affetto al suo piacer, quel contemplante 3.32.2 libero officio di dottore assunse, 3.32.3 e cominciò queste parole sante: 3.32.4 «La piaga che Maria richiuse e unse, 3.32.5 quella ch' è tanto bella da' suoi piedi 3.32.6 è colei che l' aperse e che la punse. 3.32.7 Ne l' ordine che fanno i terzi sedi, 3.32.8 siede Rachel di sotto da costei 3.32.9 con Bëatrice, sì come tu vedi. 3.32.10 Sarra e Rebecca, Iudìt e colei 3.32.11 che fu bisava al cantor che per doglia 3.32.12 del fallo disse "Miserere mei", 3.32.13 puoi tu veder così di soglia in soglia 3.32.14 giù digradar, com' io ch' a proprio nome 3.32.15 vo per la rosa giù di foglia in foglia. 3.32.16 E dal settimo grado in giù, sì come 3.32.17 infino ad esso, succedono Ebree, 3.32.18 dirimendo del fior tutte le chiome; 3.32.19 perché, secondo lo sguardo che fée 3.32.20 la fede in Cristo, queste sono il muro 3.32.21 a che si parton le sacre scalee. 3.32.22 Da questa parte onde 'l fiore è maturo 3.32.23 di tutte le sue foglie, sono assisi 3.32.24 quei che credettero in Cristo venturo; 3.32.25 da l' altra parte onde sono intercisi 3.32.26 di vòti i semicirculi, si stanno 3.32.27 quei ch' a Cristo venuto ebber li visi. 3.32.28 E come quinci il glorïoso scanno 3.32.29 de la donna del cielo e li altri scanni 3.32.30 di sotto lui cotanta cerna fanno, 3.32.31 così di contra quel del gran Giovanni, 3.32.32 che sempre santo 'l diserto e 'l martiro 3.32.33 sofferse, e poi l' inferno da due anni; 3.32.34 e sotto lui così cerner sortiro 3.32.35 Francesco, Benedetto e Augustino 3.32.36 e altri fin qua giù di giro in giro. 3.32.37 Or mira l' alto proveder divino: 3.32.38 ché l' uno e l' altro aspetto de la fede 3.32.39 igualmente empierà questo giardino. 3.32.40 E sappi che dal grado in giù che fiede 3.32.41 a mezzo il tratto le due discrezioni, 3.32.42 per nullo proprio merito si siede, 3.32.43 ma per l' altrui, con certe condizioni: 3.32.44 ché tutti questi son spiriti asciolti 3.32.45 prima ch' avesser vere elezïoni. 3.32.46 Ben te ne puoi accorger per li volti 3.32.47 e anche per le voci püerili, 3.32.48 se tu li guardi bene e se li ascolti. 3.32.49 Or dubbi tu e dubitando sili; 3.32.50 ma io discioglierò 'l forte legame 3.32.51 in che ti stringon li pensier sottili. 3.32.52 Dentro a l' ampiezza di questo reame 3.32.53 casüal punto non puote aver sito, 3.32.54 se non come tristizia o sete o fame: 3.32.55 ché per etterna legge è stabilito 3.32.56 quantunque vedi, sì che giustamente 3.32.57 ci si risponde da l' anello al dito; 3.32.58 e però questa festinata gente 3.32.59 a vera vita non è sine causa 3.32.60 intra sé qui più e meno eccellente. 3.32.61 Lo rege per cui questo regno pausa 3.32.62 in tanto amore e in tanto diletto, 3.32.63 che nulla volontà è di più ausa, 3.32.64 le menti tutte nel suo lieto aspetto 3.32.65 creando, a suo piacer di grazia dota 3.32.66 diversamente; e qui basti l' effetto. 3.32.67 E ciò espresso e chiaro vi si nota 3.32.68 ne la Scrittura santa in quei gemelli 3.32.69 che ne la madre ebber l' ira commota. 3.32.70 Però, secondo il color d' i capelli, 3.32.71 di cotal grazia l' altissimo lume 3.32.72 degnamente convien che s' incappelli. 3.32.73 Dunque, sanza mercé di lor costume, 3.32.74 locati son per gradi differenti, 3.32.75 sol differendo nel primiero acume. 3.32.76 Bastavasi ne' secoli recenti 3.32.77 con l' innocenza, per aver salute, 3.32.78 solamente la fede d' i parenti; 3.32.79 poi che le prime etadi fuor compiute, 3.32.80 convenne ai maschi a l' innocenti penne 3.32.81 per circuncidere acquistar virtute; 3.32.82 ma poi che 'l tempo de la grazia venne, 3.32.83 sanza battesmo perfetto di Cristo 3.32.84 tale innocenza là giù si ritenne. 3.32.85 Riguarda omai ne la faccia che a Cristo 3.32.86 più si somiglia, ché la sua chiarezza 3.32.87 sola ti può disporre a veder Cristo». 3.32.88 Io vidi sopra lei tanta allegrezza 3.32.89 piover, portata ne le menti sante 3.32.90 create a trasvolar per quella altezza, 3.32.91 che quantunque io avea visto davante, 3.32.92 di tanta ammirazion non mi sospese, 3.32.93 né mi mostrò di Dio tanto sembiante; 3.32.94 e quello amor che primo lì discese, 3.32.95 cantando "Ave, Maria, gratïa plena", 3.32.96 dinanzi a lei le sue ali distese. 3.32.97 Rispuose a la divina cantilena 3.32.98 da tutte parti la beata corte, 3.32.99 sì ch' ogne vista sen fé più serena. 3.32.100 «O santo padre, che per me comporte 3.32.101 l' esser qua giù, lasciando il dolce loco 3.32.102 nel qual tu siedi per etterna sorte, 3.32.103 qual è quell' angel che con tanto gioco 3.32.104 guarda ne li occhi la nostra regina, 3.32.105 innamorato sì che par di foco?». 3.32.106 Così ricorsi ancora a la dottrina 3.32.107 di colui ch' abbelliva di Maria, 3.32.108 come del sole stella mattutina. 3.32.109 Ed elli a me: «Baldezza e leggiadria 3.32.110 quant' esser puote in angelo e in alma, 3.32.111 tutta è in lui; e sì volem che sia, 3.32.112 perch' elli è quelli che portò la palma 3.32.113 giuso a Maria, quando 'l Figliuol di Dio 3.32.114 carcar si volse de la nostra salma. 3.32.115 Ma vieni omai con li occhi sì com' io 3.32.116 andrò parlando, e nota i gran patrici 3.32.117 di questo imperio giustissimo e pio. 3.32.118 Quei due che seggon là sù più felici 3.32.119 per esser propinquissimi ad Agusta, 3.32.120 son d' esta rosa quasi due radici: 3.32.121 colui che da sinistra le s' aggiusta 3.32.122 è 'l padre per lo cui ardito gusto 3.32.123 l' umana specie tanto amaro gusta; 3.32.124 dal destro vedi quel padre vetusto 3.32.125 di Santa Chiesa a cui Cristo le chiavi 3.32.126 raccomandò di questo fior venusto. 3.32.127 E quei che vide tutti i tempi gravi, 3.32.128 pria che morisse, de la bella sposa 3.32.129 che s' acquistò con la lancia e coi clavi, 3.32.130 siede lungh' esso, e lungo l' altro posa 3.32.131 quel duca sotto cui visse di manna 3.32.132 la gente ingrata, mobile e retrosa. 3.32.133 Di contr' a Pietro vedi sedere Anna, 3.32.134 tanto contenta di mirar sua figlia, 3.32.135 che non move occhio per cantare osanna; 3.32.136 e contro al maggior padre di famiglia 3.32.137 siede Lucia, che mosse la tua donna 3.32.138 quando chinavi, a rovinar, le ciglia. 3.32.139 Ma perché 'l tempo fugge che t' assonna, 3.32.140 qui farem punto, come buon sartore 3.32.141 che com' elli ha del panno fa la gonna; 3.32.142 e drizzeremo li occhi al primo amore, 3.32.143 sì che, guardando verso lui, penètri 3.32.144 quant' è possibil per lo suo fulgore. 3.32.145 Veramente, ne forse tu t' arretri 3.32.146 movendo l' ali tue, credendo oltrarti, 3.32.147 orando grazia conven che s' impetri 3.32.148 grazia da quella che puote aiutarti; 3.32.149 e tu mi seguirai con l' affezione, 3.32.150 sì che dal dicer mio lo cor non parti». 3.32.151 E cominciò questa santa orazione:
CANTO XXXIII
3.33.1 «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, 3.33.2 umile e alta più che creatura, 3.33.3 termine fisso d' etterno consiglio, 3.33.4 tu se' colei che l' umana natura 3.33.5 nobilitasti sì, che 'l suo fattore 3.33.6 non disdegnò di farsi sua fattura. 3.33.7 Nel ventre tuo si raccese l' amore, 3.33.8 per lo cui caldo ne l' etterna pace 3.33.9 così è germinato questo fiore. 3.33.10 Qui se' a noi meridïana face 3.33.11 di caritate, e giuso, intra ' mortali, 3.33.12 se' di speranza fontana vivace. 3.33.13 Donna, se' tanto grande e tanto vali, 3.33.14 che qual vuol grazia e a te non ricorre, 3.33.15 sua disïanza vuol volar sanz' ali. 3.33.16 La tua benignità non pur soccorre 3.33.17 a chi domanda, ma molte fïate 3.33.18 liberamente al dimandar precorre. 3.33.19 In te misericordia, in te pietate, 3.33.20 in te magnificenza, in te s' aduna 3.33.21 quantunque in creatura è di bontate. 3.33.22 Or questi, che da l' infima lacuna 3.33.23 de l' universo infin qui ha vedute 3.33.24 le vite spiritali ad una ad una, 3.33.25 supplica a te, per grazia, di virtute 3.33.26 tanto, che possa con li occhi levarsi 3.33.27 più alto verso l' ultima salute. 3.33.28 E io, che mai per mio veder non arsi 3.33.29 più ch' i' fo per lo suo, tutti miei prieghi 3.33.30 ti porgo, e priego che non sieno scarsi, 3.33.31 perché tu ogne nube li disleghi 3.33.32 di sua mortalità co' prieghi tuoi, 3.33.33 sì che 'l sommo piacer li si dispieghi. 3.33.34 Ancor ti priego, regina, che puoi 3.33.35 ciò che tu vuoli, che conservi sani, 3.33.36 dopo tanto veder, li affetti suoi. 3.33.37 Vinca tua guardia i movimenti umani: 3.33.38 vedi Beatrice con quanti beati 3.33.39 per li miei prieghi ti chiudon le mani!». 3.33.40 Li occhi da Dio diletti e venerati, 3.33.41 fissi ne l' orator, ne dimostraro 3.33.42 quanto i devoti prieghi le son grati; 3.33.43 indi a l' etterno lume s' addrizzaro, 3.33.44 nel qual non si dee creder che s' invii 3.33.45 per creatura l' occhio tanto chiaro. 3.33.46 E io ch' al fine di tutt' i disii 3.33.47 appropinquava, sì com' io dovea, 3.33.48 l' ardor del desiderio in me finii. 3.33.49 Bernardo m' accennava, e sorridea, 3.33.50 perch' io guardassi suso; ma io era 3.33.51 già per me stesso tal qual ei volea: 3.33.52 ché la mia vista, venendo sincera, 3.33.53 e più e più intrava per lo raggio 3.33.54 de l' alta luce che da sé è vera. 3.33.55 Da quinci innanzi il mio veder fu maggio 3.33.56 che 'l parlar mostra, ch' a tal vista cede, 3.33.57 e cede la memoria a tanto oltraggio. 3.33.58 Qual è colüi che sognando vede, 3.33.59 che dopo 'l sogno la passione impressa 3.33.60 rimane, e l' altro a la mente non riede, 3.33.61 cotal son io, ché quasi tutta cessa 3.33.62 mia visïone, e ancor mi distilla 3.33.63 nel core il dolce che nacque da essa. 3.33.64 Così la neve al sol si disigilla; 3.33.65 così al vento ne le foglie levi 3.33.66 si perdea la sentenza di Sibilla. 3.33.67 O somma luce che tanto ti levi 3.33.68 da' concetti mortali, a la mia mente 3.33.69 ripresta un poco di quel che parevi, 3.33.70 e fa la lingua mia tanto possente, 3.33.71 ch' una favilla sol de la tua gloria 3.33.72 possa lasciare a la futura gente; 3.33.73 ché, per tornare alquanto a mia memoria 3.33.74 e per sonare un poco in questi versi, 3.33.75 più si conceperà di tua vittoria. 3.33.76 Io credo, per l' acume ch' io soffersi 3.33.77 del vivo raggio, ch' i' sarei smarrito, 3.33.78 se li occhi miei da lui fossero aversi. 3.33.79 E' mi ricorda ch' io fui più ardito 3.33.80 per questo a sostener, tanto ch' i' giunsi 3.33.81 l' aspetto mio col valore infinito. 3.33.82 Oh abbondante grazia ond' io presunsi 3.33.83 ficcar lo viso per la luce etterna, 3.33.84 tanto che la veduta vi consunsi! 3.33.85 Nel suo profondo vidi che s' interna, 3.33.86 legato con amore in un volume, 3.33.87 ciò che per l' universo si squaderna: 3.33.88 sustanze e accidenti e lor costume 3.33.89 quasi conflati insieme, per tal modo 3.33.90 che ciò ch' i' dico è un semplice lume. 3.33.91 La forma universal di questo nodo 3.33.92 credo ch' i' vidi, perché più di largo, 3.33.93 dicendo questo, mi sento ch' i' godo. 3.33.94 Un punto solo m' è maggior letargo 3.33.95 che venticinque secoli a la 'mpresa 3.33.96 che fé Nettuno ammirar l' ombra d' Argo. 3.33.97 Così la mente mia, tutta sospesa, 3.33.98 mirava fissa, immobile e attenta, 3.33.99 e sempre di mirar faceasi accesa. 3.33.100 A quella luce cotal si diventa, 3.33.101 che volgersi da lei per altro aspetto 3.33.102 è impossibil che mai si consenta; 3.33.103 però che 'l ben, ch' è del volere obietto, 3.33.104 tutto s' accoglie in lei, e fuor di quella 3.33.105 è defettivo ciò ch' è lì perfetto. 3.33.106 Omai sarà più corta mia favella, 3.33.107 pur a quel ch' io ricordo, che d' un fante 3.33.108 che bagni ancor la lingua a la mammella. 3.33.109 Non perché più ch' un semplice sembiante 3.33.110 fosse nel vivo lume ch' io mirava, 3.33.111 che tal è sempre qual s' era davante; 3.33.112 ma per la vista che s' avvalorava 3.33.113 in me guardando, una sola parvenza, 3.33.114 mutandom' io, a me si travagliava. 3.33.115 Ne la profonda e chiara sussistenza 3.33.116 de l' alto lume parvermi tre giri 3.33.117 di tre colori e d' una contenenza; 3.33.118 e l' un da l' altro come iri da iri 3.33.119 parea reflesso, e 'l terzo parea foco 3.33.120 che quinci e quindi igualmente si spiri. 3.33.121 Oh quanto è corto il dire e come fioco 3.33.122 al mio concetto! e questo, a quel ch' i' vidi, 3.33.123 è tanto, che non basta a dicer "poco". 3.33.124 O luce etterna che sola in te sidi, 3.33.125 sola t' intendi, e da te intelletta 3.33.126 e intendente te ami e arridi! 3.33.127 Quella circulazion che sì concetta 3.33.128 pareva in te come lume reflesso, 3.33.129 da li occhi miei alquanto circunspetta, 3.33.130 dentro da sé, del suo colore stesso, 3.33.131 mi parve pinta de la nostra effige: 3.33.132 per che 'l mio viso in lei tutto era messo. 3.33.133 Qual è 'l geomètra che tutto s' affige 3.33.134 per misurar lo cerchio, e non ritrova, 3.33.135 pensando, quel principio ond' elli indige, 3.33.136 tal era io a quella vista nova: 3.33.137 veder voleva come si convenne 3.33.138 l' imago al cerchio e come vi s' indova; 3.33.139 ma non eran da ciò le proprie penne: 3.33.140 se non che la mia mente fu percossa 3.33.141 da un fulgore in che sua voglia venne. 3.33.142 A l' alta fantasia qui mancò possa; 3.33.143 ma già volgeva il mio disio e 'l velle, 3.33.144 sì come rota ch' igualmente è mossa, 3.33.145 l' amor che move il sole e l' altre stelle.